La riconquista dell’Afghanistan pone il movimento fondamentalista di fronte a un bivio. Ma solleva anche il tema del fallimento culturale dell’Occidente e quello dei nuovi equilibri di potenza dopo il disimpegno americano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:05:04

Ha fatto scalpore la fulminea campagna dei talebani, che in meno di un mese li ha portati ad assumere il controllo di gran parte dell’Afghanistan. In confronto, i sovietici avevano fatto molto meglio degli americani: dopo il ritiro delle truppe nel 1989 c’erano voluti tre anni prima che una coalizione di mujahedeen s’impadronisse di Kabul e altri quattro di guerre intestine prima che i talebani potessero proclamare il loro emirato nel 1996. E anche se l’estate 2021 non è stata purtroppo avara di tragedie umanitarie (Libano e Haiti per citarne due), l’attenzione internazionale sull’Afghanistan è assolutamente giustificata, perché la ritirata americana segna la fine di un ciclo storico. Quello della guerra al terrorismo. Lanciata da George Bush dopo gli attacchi dell’11 settembre, questa ideologia aveva condotto alla quasi immediata invasione dell’Afghanistan, decretando la fine del primo esperimento di governo talebano. Vi aveva fatto seguito nel 2003 l’invasione dell’Iraq, completamente infondata sia sul piano del diritto internazionale che su quello del calcolo politico. Venti anni dopo siamo punto a capo ed è difficile non provare un senso di sgomento.

 

Un modo per esorcizzarlo è parlare, come alcuni fanno in questi giorni, di “jihadismo moderato”. Un’espressione completamente priva di senso, che tradisce l’ignoranza non solo della situazione sul terreno (che ben pochi, tra cui non chi scrive, possono dire di conoscere a fondo), ma anche delle categorie ideologiche del fondamentalismo islamico. Traducendola nel lessico dell’Islam fondamentalista, si può riformularla in questi termini: i talebani sono un emirato o un califfato in potenza? Chiariamo prima di tutto i termini della questione. Il pensiero politico islamico classico si è sempre concentrato sull’idea di un califfato universale. In realtà però già un secolo e mezzo dopo la morte di Muhammad sono iniziati a emergere una serie di potentati locali, gli emirati, nominalmente dipendenti dal califfato centrale ma in realtà autonomi. Sono gli embrioni di quelli che diventeranno molti secoli dopo i moderni Stati musulmani. Non è mai però completamente scomparsa l’idea di riattivare il califfato universale e questo slogan, in un contesto profondamente mutato, ha trovato nuova vita in età contemporanea come bandiera identitaria anti-occidentale.

 

I talebani, emersi dal jihad contro i sovietici, sono una forza pienamente afghana. Sono anzi un perfetto esempio di quella commistione di “spirito di corpo” e “tinta religiosa” che il grande storico maghrebino Ibn Khaldun aveva già identificato, nel lontano 1400, come motore del cambiamento nelle società islamiche. E se c’è un posto al mondo in cui l’analisi di Ibn Khaldun ha ancora senso, questo è l’Afghanistan, ancora largamente tribale, ancora in parte nomade.

 

La domanda da farsi allora non è se i talebani saranno moderati o no (non saranno moderati), ma se si concepiranno come un emirato territoriale afghano o se saranno scavalcati dai jihadisti alla ISIS che premono per un califfato universale. Da un lato, la sconfitta del 2001 e la ventennale traversata nel deserto ha insegnato ai talebani quanto rischioso sia attirarsi l’ostilità globale. Dall’altro però il titolo stesso del loro leader, comandante dei credenti, è quello di un potenziale califfo e le prevedibili difficoltà che incontreranno quando dai proclami media-friendly si tratterà di passare alle decisioni sul terreno in fatto di amministrazione, economia, gestione della complessità etnica e religiosa (gli Hazara sciiti), potrebbero rendere necessaria una virata ‘massimalista’.

 

In realtà, non è possibile rispondere a questa domanda senza considerare il contesto internazionale. La Cina in testa. Tolta la prevedibile soddisfazione per l’imbarazzante scacco americano, resta vero che la prospettiva di un Afghanistan jihadista o filo-jihadista rappresenta un serio problema per Pechino, alle prese con la durissima repressione della propria minoranza musulmana nella confinante regione dello Xinjiang, condotta a suon di deportazioni e campi di concentramento. I talebani, fino a poco tempo fa, rappresentavano l’incarnazione dei cosiddetti Tre Mali che la politica cinese combatte: terrorismo, separatismo, estremismo religioso. Finché restano in una logica nazionale, è pensabile un patto in cui i talebani, in cambio di una completa mano libera sul piano culturale e religioso, si impegnino a non fomentare l’instabilità regionale. Ma sicuramente non è questa l’agenda dei gruppi jihadisti, che anche nel vicino Pakistan hanno messo a segno negli ultimi mesi alcuni attentati contro obiettivi cinesi, nonostante gli enormi interessi economici che legano (o meglio vincolano) Islamabad a Pechino.

 

In questo senso la scelta americana di disimpegno potrebbe anche rivelarsi una scommessa politica almeno parzialmente vincente. Resta però un enorme fallimento umanitario, ben prima che mediatico. Oltre alla hybris imperiale che ha ispirato il progetto di esportare la democrazia con le armi, ne escono distrutti anche i modi abituali di operare della cooperazione internazionale. Sull’Afghanistan, infatti, in questi due decenni sono state riversate enormi risorse. Prevalentemente per finalità militare, ma anche per costruire scuole ed ospedali e per promuovere i diritti delle donne e delle minoranze. Sembra che questa enorme macchina, sempre tentata dall’autoreferenzialità, non sia riuscita a incidere veramente. È vero però che i cambiamenti sociali hanno un ritmo proprio e potrebbero riservarci qualche sorpresa: un indicatore da guardare, molto più del numero di telefonini o dell’accesso a Internet, è sicuramente quello del tasso di matrimoni endogamici, elemento essenziale per il funzionamento di una società tribale.

 

In ogni caso, l’Occidente dovrà riflettere molto su questo fallimento culturale. E i musulmani non potranno non tornare a confrontarsi con la domanda sul loro posto nel mondo, che ISIS aveva sollevato con inaudita urgenza, spingendo le istituzioni, anche religiose, a inedite prese di posizione, e che ora il ritorno dei talebani ripropone con forza.

 

 

Questo articolo è stato pubblicato anche su Gente Veneta

 

 

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