Il gusto dell’azzardo di operatori “creativi” aveva celato un crescente vuoto morale

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:00:07

Profitto ed etica. La crisi ha reso manifesta la distanza abissale tra finanza ed economia reale e ha incenerito la fiducia nella capacità dei mercati finanziari di autoregolarsi. Il gusto dell’azzardo di operatori “creativi” aveva celato un crescente vuoto morale. Un racconto dall’interno.

Quando alla fine degli anni ’70 iniziai a studiare finanza, i miei professori erano convinti che ci fosse una stretta relazione tra il loro mondo finanziario (delle banche, degli agenti di cambio, degli assicuratori ed investitori nei diversi tipi di mercati finanziari) e l’economia “reale” (dei lavoratori, degli impiegati, dei beni e servizi). I miei professori erano ugualmente sicuri che per funzionare correttamente il mondo finanziario non avesse bisogno di una particolare supervisione o di una guida morale. In sostanza bisognava lasciare le persone libere di seguire i loro desideri finanziari. Questi desideri sarebbero stati inevitabilmente in conflitto ma, secondo il credo del “libero mercato” della finanza accademica, i mercati avrebbero risolto naturalmente tali conflitti nel miglior modo possibile per tutti gli interessati.

Nei decenni successivi quel sistema accademico di convinzioni ha plasmato in misura sempre maggiore l’atteggiamento comune verso la finanza e la sua pratica effettiva. Attività finanziarie di ogni tipo cominciarono ad essere considerate un bene evidente: più finanza si faceva, meglio era. Particolarmente celebrati erano i mercati finanziari e il reddito dei professionisti del settore finanziario aumentò in proporzioni impressionanti. Pochi avevano da obiettare su tali retribuzioni. Si pensava che questi professionisti contribuissero a rendere più efficiente l’intermediazione finanziaria, gestendo le transazioni e determinando i prezzi corretti. A sua volta, una finanza più efficiente era considerata a servizio del bene comune poiché rendeva l’economia più solida e reattiva.

La recente crisi finanziaria ha reso evidente che questo sistema di credenze era viziato in quasi tutti i suoi aspetti. La finanza non era così strettamente connessa all’economia reale, i mercati amorali non erano affidabili e un settore finanziario esteso e ben remunerato avrebbe potuto nuocere al bene economico e non contribuirvi.

 

La finanza e l’economia reale

Anche quand’ero giovane, la fiducia nel fatto che la finanza svolgesse un ruolo utile nell’economia sembrava mal riposta. Non avevo riflettuto molto su come le banche convenzionali potessero abbandonare la loro funzione di raccogliere e distribuire denaro perché lo studio accademico della finanza si occupava per lo più dei mercati finanziari. Ma anche un principiante qual ero poteva notare che se l’economia reale spuntava qua e là nello sfondo di questi mercati, in pratica essa poteva essere tranquillamente ignorata.

Dopo tutto, i mercati azionari e obbligazionari erano interamente monetari e l’acquirente dava un importo in cambio della promessa o della possibilità di ricevere successivamente altri importi. In ultima analisi il denaro proveniva dall’economia reale, ma il centro d’interesse erano le variazioni immediate dei prezzi, determinate più dai flussi di denaro e dai cambi di umore che da qualche fattore dall’economia reale.

Se la realtà era distante già per i cosiddetti strumenti primari che studiavamo di più, cioè le azioni e le obbligazioni emesse da società e governi, ancora più distante appariva per le “bombe” che cominciavano a farsi strada, i derivati, scommesse sui prezzi futuri. Gli studiosi avevano sviluppato una giustificazione economica per quei titoli – apparentemente spalmavano i rischi – ma gli investitori li utilizzavano soprattutto per il gusto dell’azzardo.

Finiti gli studi sono diventato analista finanziario in una banca. Nutrivo ancora abbastanza fiducia nei mercati finanziari da pensare che il mio compito principale, quello di determinare il prezzo corretto per le azioni quotate sul mercato, avrebbe contribuito in qualche modo a rendere più efficiente l’economia. Il mio primo capo era molto più cinico. Non si stancava di dirmi che avevamo a che fare con semplici “pezzi di carta” che volteggiano all’impazzata sospinti dal vento delle speranze e delle paure degli investitori. I movimenti erano amplificati o contenuti dalle condizioni finanziarie complessive, legate, ma solo indirettamente, all’economia produttiva. Nei mercati finanziari – era solito dire – i prezzi possono rispecchiare ragionevolmente la realtà nel corso dei decenni, ma se ne discostano clamorosamente a livello di mesi o anni. Per investire con successo nei mercati era molto più utile guardare ai mercati stessi piuttosto che studiare l’economia reale.

Naturalmente sapevo che “giocare in borsa” era un eufemismo per il gioco d’azzardo. Il paragone mi turbava, non solo perché rendeva le mie conoscenze sulle società, sulla tecnologia, sulla contabilità quasi del tutto irrilevanti per il mio lavoro, ma anche perché lasciava intendere che i beni finanziari non avessero un prezzo reale ed equo, ma fossero solo oggetto di speculazione. Perché avremmo dovuto essere ben pagati (e ricevere bonus elevati) per un’attività moralmente dubbia?

Pochi tra i miei colleghi si facevano simili scrupoli. Una volta partecipai in Francia a un convegno per investitori in un’importante casa da gioco. La sera, analisti, venditori e clienti si precipitarono ai tavoli da gioco a tentare la fortuna. Uno di loro mi disse: «È come il lavoro che faccio di giorno, ma non bisogna far finta di badare alle società e a tutto il resto».

Sotto tale pressione la mia già vacillante fede nella finanza andò in pezzi, ma mi muovevo nella direzione opposta a quella del resto del mondo. Alla fine degli anni ’90 la maggior parte dei politici considerava quasi un’ovvietà che la finanza fosse al servizio del bene economico. Le aziende dovevano chiedere prestiti, i mercati finanziari diventare più grandi e più attivi, le banche dovevano non solo concedere prestiti ma anche scambiarli sul mercato, i derivati erano una manna e gli strumenti più sofisticati un dono dal cielo. La crisi finanziaria in Asia e Russia non scosse la loro fede. Anzi, la fiducia nella finanza e nel potere dei finanzieri raggiunse probabilmente il suo apice nel 2005-2006. Poi venne il crollo.

 

Il delirio della speculazione

Quanto più aumentava la fiducia, tanto più cresceva la distanza tra i mercati finanziari e l’economia che essi avrebbero dovuto rispecchiare. Il periodo di possesso di un titolo si ridusse a settimane o addirittura giorni, ragion per cui le variazioni di prezzo e di umore divennero più importanti mentre le variazioni future effettive diventarono insignificanti. I derivati diventarono un business ben più grande dei titoli dai quali dipendevano. I manager delle banche divennero veri e propri credenti, non solo consolidando i propri affari nei mercati finanziari, ma preoccupandosi sempre meno di concedere buoni prestiti, e sempre più di trasferire su investitori esterni il rischio di cattivi prestiti.

Le banche centrali e gli organismi di controllo parteciparono al delirio. Non erano solo colpevoli spettatori della passione cieca per la speculazione. Credendo che un mercato affollato e prezzi in aumento avessero un effetto benefico sull’economia reale, incoraggiarono tale abitudine adottando delle politiche che aumentavano intenzionalmente l’attività finanziaria e i prezzi degli asset finanziari.

In un certo senso, il nuovo messaggio era quasi l’opposto di ciò che mi era stato insegnato anni prima. Allora mi era stato detto che la finanza dipendeva dall’economia e la plasmava. Si pensava che i mercati finanziari lavorassero meglio quando fornivano informazioni imparziali ai decisori economici. Adesso invece le autorità dicevano al mondo che l’economia dipendeva dalla finanza e che mercati finanziari distorti potevano aumentare la prosperità. “Non combattere la Fed, non scommettere sul calo dei prezzi dei beni finanziari se la Federal Reserve statunitense – la banca centrale più importante al mondo – vuole che salgano”, divenne un luogo comune nei mercati.

Tuttavia, i vecchi e i nuovi messaggi erano identici nella loro pretesa di fondo: l’economia reale e l’economia finanziaria sono e dovrebbero essere strettamente correlate.

In realtà, però, la distanza tra le due non era mai stata così grande, perlomeno dall’ultima grande crisi finanziaria globale del 1929. Il distacco dall’economia reale ha reso la finanza più interessante ed eccitante, meglio di qualsiasi casinò. Mentre solitamente i casinò e lo Stato trattengono quasi la metà delle somme scommesse, i mercati finanziari trattenevano solo qualche punto percentuale e le perdite potenziali venivano ridimensionate dalla tendenza generale al rialzo dei prezzi. Per quanti volevano aiutare i giocatori d’azzardo, quei pochi punti percentuali di spese garantivano entrate molto superiori rispetto a quelle dei croupier e delle hostess dei casinò.

 

Ingegneria finanziaria

L’attività premiava il rigore intellettuale e l’immaginazione. Le persone molto intelligenti che hanno sviluppato “l’ingegneria finanziaria”, sofisticate tecniche per la valutazione degli strumenti finanziari e l’analisi delle variazioni dei prezzi, erano considerate delle star, un po’ perché i loro modelli sembravano funzionare e un po’ perché il loro lavoro faceva somigliare il gioco d’azzardo a una scienza. In ultima analisi, anche se indirettamente, tutto ciò ha rafforzato la fiducia incrollabile nel fatto che la finanza fosse una cosa buona per l’economia.

Era abbastanza per far credere ai professionisti di successo che, oltre a essere ben pagati, stessero anche facendo del bene. Come ha detto, con soltanto una punta d’ironia, Lloyd Blankfein, amministratore delegato della grande banca d’affari Goldman Sachs, la finanza era opera di Dio.

La fiducia arrogante di molti professionisti poggiava però su una base intellettuale e pratica fragile. Quando iniziai a osservare più da vicino le relazioni tra la finanza e l’economia, mi fu chiaro che se i prezzi dei prodotti finanziari avessero mai iniziato a calare la maggior parte degli intermediari finanziari si sarebbe trovata in guai seri.

E così è stato. È possibile che la finanza abbia aiutato l’economia reale quando i mercati finanziari erano forti – è difficile distinguere le cause e gli effetti in tali questioni – ma è innegabile che mercati fragili e istituzioni inadeguate abbiano successivamente danneggiato l’economia reale. Nonostante le varie forme di aiuto concesse dai governi e dalle banche centrali alle attività finanziarie, i dissesti creati dalla recessione del 2009 non sono stati ancora pienamente risolti.

Tuttavia, quella che ritengo la lezione più importante di questa crisi, cioè che l’attività finanziaria può essere facilmente scissa dall’economia reale e che questa scissione è ultimamente negativa per la stabilità economica, non è stata recepita. Soprattutto per via delle straordinarie politiche anti-recessione e pro-finanza adottate dai governi e dalle banche centrali i prezzi dei prodotti finanziari sono più che mai lontani dalla realtà.

I miei professori di tanti anni fa avevano in parte ragione: la finanza può davvero essere al servizio dell’economia reale. In una complessa economia moderna è utile avere istituzioni e processi che raccolgono il denaro e lo distribuiscono. In questo modo le risorse economiche possono essere utilizzate in maniera efficiente e servire il bene comune senza dover dipendere da individui molto ricchi o governi molto potenti. Banche e assicurazioni possono rappresentare un beneficio per la società.

Ciononostante i miei professori non avevano capito che la finanza è particolarmente suscettibile di usi impropri. Può essere facilmente utilizzata dal ricco per sfruttare il povero. Tratta con titoli che possono essere facilmente separati dalle cose che dovrebbero rappresentare e con promesse che possono facilmente essere infrante o ignorate. Se le transazioni finanziarie perdono il loro ancoraggio economico fluttuano liberamente, garantendo la possibilità di colossali e immeritati guadagni e il brivido che accompagna ogni azzardo.

 

La feroce indifferenza etica

La lacuna, nella mia formazione e nella pratica finanziaria, è in fondo di ordine morale. Più di qualsiasi altro settore dell’economia, la finanza era considerata un ambito in cui l’egoismo e l’avidità non vanno scoraggiate. La feroce indifferenza etica eliminò qualsiasi motivo di valutare le pratiche finanziarie sia rispetto a un criterio superiore – promuove il bene? – sia rispetto a uno inferiore – incoraggia il male? Senza una simile cornice morale e con la debolezza morale intrinseca alla natura umana, era inevitabile che nella finanza attecchissero cattive abitudini ed era quasi altrettanto inevitabile che quelle buone si trovassero in difficoltà.

Anche se nella finanza vi sono certamente bari e delinquenti, come vari processi hanno messo in luce, la maggior parte dei professionisti che ho conosciuto personalmente non erano particolarmente perfidi. Solitamente si attenevano a tutte le norme in vigore, erano per lo più onesti nelle loro attività e non erano probabilmente coniugi o genitori peggiori dei loro pari impegnati in altre attività. Nonostante fossero molto ben pagati, pochi di loro erano particolarmente avidi. Molti erano invece generosi finanziatori di enti caritatevoli.

La mancanza di moralità riguardava più che altro ciò che facevamo e ciò che non riuscivamo a fare. Ignoravamo le questioni del bene comune. Non ci preoccupavamo del fatto che i guadagni che perseguivamo per noi e per i nostri clienti potessero essere ingiusti. Abbiamo messo incautamente a rischio il denaro di altri sapendo che sarebbero stati loro a farne le spese se tutto fosse andato storto. Abbiamo accettato ingiustamente una remunerazione elevata.

Credo che l’amoralità e l’immoralità della nostra attività abbia indebolito gli standard morali personali. Troppo spesso i dirigenti avallavano una pubblicità mendace e tentativi di manipolazione dei mercati. Nell’ultima società per la quale ho lavorato prima di diventare giornalista, l’ufficio marketing aveva sviluppato una campagna promozionale per la nostra strategia di investimento che non aveva quasi alcun legame con la realtà. Quando ho chiesto conto di tale discrepanza la risposta è stata pragmatica: «Diciamo alla gente ciò che vuole sentirsi dire su come investiamo i loro soldi. Finché i risultati sono buoni, le persone non si preoccuperanno più di tanto di come li hai ottenuti».

 

L’avidità che inquina

Il vuoto morale che sta al centro della finanza in cui ho lavorato non faceva che riflettere l’approccio amorale della maggior parte delle persone che facevano uso della finanza, sia come finanziatori e investitori, sia come debitori e beneficiari di fondi di investimento. E anche persone solitamente irreprensibili facevano eccezione per l’attività finanziaria.

Ricordo un sacerdote, molto noto come direttore spirituale, lieto di incontrarmi perché voleva parlare del suo portafoglio azionario. Il suo obiettivo era lo stesso di qualsiasi altro investitore, usare la sua intelligenza per guadagnare più degli altri. Non era proprio nella posizione per dare l’allarme sui pericoli della cupidigia.

Il ricordo più sconcertante è una conferenza che tenni a un piccolo gruppo di cristiani sulla necessità di rinnegare l’avidità per far funzionare la finanza. Vi sottolineavo che dalla metà del Novecento agli anni ’80 l’obiettivo della maggior parte delle istituzioni finanziarie non era stato quello di guadagnare il maggior profitto possibile per gli investitori, quanto provvedere una remunerazione equa a tutti quelli che prendevano parte all’attività. I mutui ipotecari erano particolarmente utili perché garantivano la sicurezza della proprietà, ma la maggior parte dei proprietari si accontentava di lasciare la casa in eredità ai figli. L’obiettivo non erano i redditi da capitale. Questa finanza bancaria, ed è lo stesso spirito della finanza islamica, riduceva la disperazione ma non incoraggiava l’avidità.

Al contrario, dicevo, la speculazione rampante sui prezzi delle case che si stava verificando sia nel Regno Unito che negli Stati Uniti non ha avuto alcun effetto positivo. Alla fine della conferenza un imprenditore di successo mi venne incontro pieno di entusiasmo. «Lei ha ragione – disse – l’avidità sta inquinando l’intera economia». Abbiamo chiacchierato un po’, finché mi ha detto: «A proposito, ultimamente i prezzi delle case nel mio quartiere sono un po’ scesi. Secondo lei, è il momento giusto per comprare?». Non riusciva a vedere alcun nesso tra il suo desiderio di “cogliere l’attimo favorevole sul mercato” e l’avida speculazione che avevamo fortemente condannato.

Quella prima tipologia di attività bancaria moderna era vicina all’economia ed era esplicitamente morale. Era stata sviluppata da persone che volevano usare la finanza per rafforzare le comunità. Per prosperare tali istituzioni necessitano di una certa quantità di zelo, perché il peccato s’insinua nelle questioni finanziarie fin troppo facilmente. Siccome la finanza tratta direttamente solo con il denaro, si può agevolmente separarla dall’economia reale. In questo spazio psicologico è fin troppo facile ignorare le perdite e le sofferenze degli altri e, forse, è ancor più facile cadere preda di avidi desideri.

Di tutti i settori dell’economia, la finanza è probabilmente quello che soffre maggiormente la mancanza di un’attenzione morale vigile e profonda. È triste infatti che negli ultimi decenni la finanza sia stata ampiamente considerata una zona in cui la morale semplicemente non è applicabile. Il risultato è che il mondo degli affari è diventato una “struttura di peccato”, per utilizzare una frase coniata da Papa Giovanni Paolo II. Ma non per forza dev’essere tale.

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Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Edward Hadas, Giocare in borsa? Meglio che al casinò, «Oasis», anno IX, n. 17, giugno 2013, pp. 13-17.

 

Riferimento al formato digitale:

Edward Hadas, Giocare in borsa? Meglio che al casinò, «Oasis» [online], pubblicato il 1 giugno 2013, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/etica-finanza-economia-reale-moralita-e-immoralita.

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