Musulmani e cristiani possono testimoniare la convenienza dell’integrazione tra fede e lavoro
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:00:07
Una questione antropologica /1 Senza la consapevolezza dell’“essere chiamati”, le difficoltà dell’impresa erodono l’azione umana, fino a ridurla a una funzione tecnica. Musulmani e cristiani possono testimoniare la convenienza dell’integrazione tra fede e lavoro.
Alcuni cristiani […] si [sono] adeguati al mondo, vivendo come se Dio non esistesse. Non soltanto vivono nel mondo, ma sono diventati parte del mondo. Quando i leader cristiani omettono di vivere il Vangelo nelle proprie imprese, si deve dire che le loro vite “nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione” (La vocazione del leader d’impresa).
Una verità che la maggior parte delle religioni condivide è la triste realtà per cui non riusciamo a vivere all’altezza della fede che professiamo. Siamo ipocriti. Paradossalmente, la nostra ipocrisia di credenti può essere un fattore unificante. Eppure, come ha affermato una volta padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, l’ipocrisia «è forse il vizio umano più diffuso e meno confessato»[1]. Molti di noi evitano questo termine invece di accettarlo come utile qualificativo delle nostre persone. Ecco perché, come ama dire il mio collega Ken Goodpaster, dovremmo «fare amicizia con l’ipocrisia». L’importanza di quest’amicizia non sta nella celebrazione dell’ipocrisia, ma nella sua confessione: un esame di coscienza sia personale che collettivo sul fatto che non siamo quelli che dovremmo essere.
Tale mancanza di consapevolezza rispetto alla propria ipocrisia è un rischio ricorrente tra i dirigenti delle organizzazioni, siano esse economiche, politiche, educative o religiose. I dirigenti tendono a non vedere nelle proprie organizzazioni falsità e contraddizioni tra principi e pratica. Troppo spesso si preoccupano più dell’apparenza esterna della loro organizzazione che della salute interna e del suo spirito. Molti studi confermano tale propensione, rivelando che i dirigenti normalmente sono di gran lunga troppo ottimisti circa la loro organizzazione (mentre i loro dipendenti sono spesso troppo pessimisti), se stessi e la cultura che promuovono. Troppo spesso i dirigenti pensano di essere meglio di quanto siano in realtà e non vedono il divario tra aspirazioni e azioni.
È un divario che contribuisce a creare le condizioni per una vita divisa, o per quello che il Concilio Vaticano II descrive come «dissociazione, che si costata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana». Il Concilio considerò tale dissociazione «tra i più gravi errori del nostro tempo» (Gaudium et Spes, 43). A farne un pericolo anche per i nostri giorni è il modo in cui guardiamo alla religione e alla famiglia, molto spesso concepite non come istituzioni sociali che hanno la forza di umanizzare l’ordine temporale della vita politica ed economica, ma come un recinto privato in cui gli individui vivono le proprie preferenze personali. Se la religione e la famiglia non esercitano un’influenza spirituale e morale, l’economia viene degradata a un’operazione meccanica di input e output da gestire in vista della massima efficienza. Tale separazione istituzionale di principi mette in sordina le pretese sociali della fede e, come indicato ancora dal Concilio Vaticano II, nasconde invece di manifestare «il genuino volto di Dio e della religione» (Gaudium et Spes, 19).
Fare affari con fede
Il recente documento del Pontificio Consiglio per la Giustizia e per la Pace intitolato The Vocation of the Business Leader[2] affronta tali sfide morali e spirituali relative alla vita economica. Non condanna l’economia, ma la ricolloca entro una cornice religiosa che consenta di vivere nel mondo moderno secondo una prospettiva di fede. Il documento può essere un’utile strada per un dialogo interreligioso sul modo in cui gli imprenditori possano vivere con maggior fede nel mondo senza diventare del mondo. Imprenditori musulmani e cristiani possono interpellarsi a vicenda per testimoniare una più profonda integrazione tra fede e lavoro, capace di andare oltre gli standard abituali dell’etica economica e della responsabilità sociale d’impresa. Il documento è stato oggi tradotto in 10 lingue, compreso l’arabo[3].
Al centro del documento vi è la convinzione che l’imprenditore è chiamato non solo a fare affari, ma a essere un tipo particolare di dirigente d’impresa. Le azioni degli imprenditori sono significative perché imprimono un carattere particolare sia in chi le compie che nelle comunità in cui questi agisce. Troppo spesso guardiamo all’impresa economica in termini di azioni slegate tra loro, ma gli occhi della fede vedono l’impresa da una prospettiva olistica e ultimatamente eterna. L’impresa, come ogni lavoro, deve confrontarsi con ciò che Giovanni Paolo II chiamava la «dimensione soggettiva» del lavoro (Laborem Exercens, 6). Il lavoro cambia non solo il mondo esterno, ma il soggetto, cuore, anima e mente. Le azioni compiute nel lavoro, così come nella vita, sono i primi indicatori del nostro destino, ci trasferiscono in un luogo dalle implicazioni eterne. Tali implicazioni vengono rivelate dalla legge del dono, cioè dal fatto che «diventiamo eternamente ciò a cui ci dedichiamo»[4]. Purtroppo negli affari ci svendiamo per troppo poco, per un po’ di fama, successo, benessere, guadagno, status.
Una delle principali sfide che investono la natura stessa della vita nella società moderna è “un’ideologia della scelta” nella forma del consumismo. Alla radice del consumismo vi è un impulso relativistico in cui la scelta stessa è il valore più elevato, precisato soltanto dalla postilla che ingenuamente afferma “purché non leda la scelta altrui”. Per il consumismo non è importante il contenuto della scelta, ma la preferenza personale di individui isolati rispetto a scelte discrete indifferenti a qualsiasi progetto di vita. Nella mentalità consumista la moralità è relegata al gusto o all’opinione, come se si trattasse di scegliere tra uno yogurt alla vaniglia e uno alla fragola.
Alla prospettiva consumistica della scelta è sottesa una considerazione problematica della “libertà dell’indifferenza” che sostituisce la “libertà per l’eccellenza”. La libertà dell’indifferenza, esaminata da Servais Pinckaers o.p., è un esercizio d’interesse personale e affermazione di sé slegato, o indifferente, alla natura, agli altri, a Dio. La libertà è definita in termini di libertà dalla nostra natura, dagli altri, dalle istituzioni. È una comprensione negativa della libertà. Pinckaers oppone tale visione dell’indifferenza alla “libertà per l’eccellenza”, radicata nella natura e nelle nostre inclinazioni naturali per ciò che è vero e buono[5]. Qui la libertà è per qualcosa di positivo. A cogliere queste due visioni contrastanti della libertà è D.H. Lawrence, il romanziere e poeta inglese:
Gli uomini sono meno liberi di quanto credono; sì, molto meno liberi. I più liberi sono forse i meno liberi. Gli uomini sono liberi quando sono in una patria vivente, non quando si allontanano e scappano. Gli uomini sono liberi quando obbediscono a qualche profonda voce interiore di convinzione religiosa [libertà per l’eccellenza]. Obbediscono dall’interno. […] Non quando fuggono in qualche selvaggio Occidente. Le anime meno libere vanno a Occidente, e gridano di libertà. […] Il grido è uno sferragliar di catene, e lo è sempre stato. Gli uomini non sono liberi quando fanno semplicemente ciò che amano [libertà dell’indifferenza]. Nel momento in cui fai solo quello che ti piace non c’è nulla che ti interessi fare. Gli uomini sono liberi solo quando fanno ciò che piace all’io più profondo. Ma bisogna arrivarci all’io più profondo. Occorre immergersi[6].
Liberi di scegliere
Per seguire la propria vocazione «occorre immergersi». I due maggiori successi cinematografici di quest’anno sono stati Lo Hobbit e I miserabili; parlano entrambi di persone che rispondono a una chiamata che allo stesso tempo li supera ma è loro necessaria. Quando le persone si prendono il tempo di arrivare a “ciò che piace all’io più profondo”, ciò per cui sono state create, capiscono che Dio ha cura di loro, delle loro famiglie, del loro lavoro e delle loro vite. Il documento La Vocazione del leader d’impresa considera l’economia non solo in termini di un minimalismo legalistico – non imbrogliare, non mentire, non ingannare – ma come una vocazione che offre «un contributo senza pari al benessere materiale e persino spirituale dell’umanità» (La Vocazione, 2). Non esiste legge o formula per questo. Si tratta di una vita ricca di significato che nelle decisioni quotidiane della vita ordinaria apre l’imprenditore alla volontà di Dio e non solo alla sua volontà o alla volontà dell’impresa. Nelle Confessioni, Agostino scrive «la casa della mia anima è troppo angusta perché tu possa entrarvi: dilatala tu»[7]. Quando viviamo secondo la nostra volontà, viviamo molto spesso con una visione talmente ristretta del nostro lavoro da impedire a Dio di entrarvi. Consideriamo gli affari come una questione di profitto, di tecnica, di quote di mercato o successo personale. Anche se importanti per l’impresa, questa qualità sono semplicemente troppo poco per lo spirito umano.
Ciò che nel consumismo e nella sua visione della scelta e della libertà genera più corruzione è il fatto di oscurare la più profonda realtà vocazionale delle nostre vite: prima di tutto noi siamo stati scelti. Il sociologo ebreo Philip Rieff, nel suo libro The Triumph of the Therapeutic, descrive lo sconcerto piscologico che ci coglie quando siamo lasciati soli con le nostre scelte.
Non c’è una sensazione più disperata di quella di essere lasciati liberi di scegliere, ma senza la specifica compulsione che deriva dall’essere scelti. Dopo tutto, non si sceglie veramente, si è scelti. È un modo di enunciare la differenza tra dèi e uomini. Gli dèi scelgono; gli uomini sono scelti. Ciò che gli uomini perdono quando diventano liberi come dèi è proprio il senso di essere scelti, che li spinge, nella gratitudine, a fare le loro scelte seriamente[8].
Senza un senso profondo dell’essere chiamati, le complesse difficoltà legate alla natura concorrenziale dell’impresa eroderanno il senso dell’azione umana di un imprenditore, riducendola a una funzione tecnica e a una formula finanziaria.
Troppo spesso nella nostra cultura individualistica e sempre più tecnologica i dirigenti d’impresa pensano di poter essere buoni da soli, e che la competenza tecnica e finanziaria, insieme all’obbligazione contrattuale e ai vincoli giuridici, possano rendere l’impresa sufficientemente buona. La vocazione sfida questa visione binaria del mercato e del diritto. Senza il profondo senso dell’essere scelti che proviene da una cultura morale e religiosa, recidiamo la radice spirituale della Grazia di Dio che ci sostiene e rinnova in questo modo caduto.
Se il diritto e il mercato svolgono un ruolo importante nella vita economica, senza un legame spirituale e religioso sono come fiori recisi, attraggono per un po’, ma non hanno un radicamento trascendente che li sostenga e impedisca a una mentalità utilitaristica e a una razionalità strumentale di prevalere negli affari.
Vedere la realtà
Per cogliere le implicazioni economiche di tale vocazione, il documento individua tre livelli di discernimento, interdipendenti e iterattivi, per chiunque svolga un ruolo di leadership: occorre prima vedere la situazione effettiva e le sue complessità, quindi giudicarla alla luce di principi concreti capaci di promuovere lo sviluppo umano integrale, infine agire sulla base di tale giudizio alla luce della situazione specifica. Tali livelli non plasmano solo la struttura del documento, ma danno forma alla virtù essenziale dell’imprenditore: la saggezza pratica.
Vedere: La vocazione descrive alcune importanti e complicate tendenze all’interno dell’economia e le questioni morali e spirituali che esse presentano. Pur riconoscendo un’ampia varietà di sfide e opportunità, si concentra in particolare su quattro di esse: la globalizzazione, la tecnologia della comunicazione, la finanziarizzazione e i cambiamenti culturali. Queste tendenze o segni, spiega il documento, sono una «complicata pluralità di fattori», che presentano «un gioco complesso di luci e ombre, bene e male, verità e falsità, opportunità e minacce» (La vocazione, 15).
Per esempio, il documento descrive il fenomeno in crescita della “finanziarizzazione”, un termine accademico a effetto che descrive lo slittamento nel mercato economico dalla produzione alla finanza quale fattore dello sviluppo economico. In un’economia di mercato ben ordinata, la finanza è al servizio della produzione per promuovere tre beni fondamentali dell’impresa: sviluppare servizi e prodotti utili e innovativi, concepire lavori buoni e produttivi per gli impiegati, creare ricchezza e distribuirla equamente. Al contrario, la “finanziarizzazione” modifica questa relazione ordinata creando “un’opzione preferenziale per gli azionisti” e strumentalizza i beni dell’impresa per un unico scopo: la massimizzazione del valore per gli azionisti. Il primato degli azionisti su cui si fonda la finanziarizzazione produce nell’impresa la tentazione degenerativa dell’“autoreferenzialità”. Quando un’istituzione si concentra sulla massimizzazione delle proprie attività e della sua base di capitale – capitalismo – finisce per fissarsi su se stessa negandosi quello spazio trascendente vitale necessario a impedire la propria implosione (Cfr. Caritas in Veritate, 11). La finanziarizzazione contribuisce alla degenerazione istituzionale dal momento che un’impresa non riesce più a uscire da se stessa e si concentra unicamente sul valore delle sue azioni. Tale fissazione è una forma moderna di idolatria non molto diversa dal vitello d’oro dei tempi antichi, che La vocazione definisce «simbolo di una devozione sbagliata, scaturita da una falsa idea di vero successo» (La vocazione, 11).
La finanziarizzazione ha avuto effetti molto negativi sul modo di fare impresa. Chiedete a un imprenditore qualsiasi e vi risponderà che in tutto il mondo l’impresa ha incrementato la tendenza a mercificare le relazioni riducendole a un valore, il prezzo, ricavabile innanzitutto dal valore monetario dell’azienda e poi dal prezzo di un prodotto e dal costo del lavoro. Il mantra dell’impresa, e sempre più di altri ambiti della vita, è “se non può essere misurato non esiste”. E nell’impresa l’unica unità di misura chiara è di tipo finanziario. Senza un forte senso della vocazione, la finanziarizzazione diventa il meccanismo automatico che allontana l’impresa dalle relazioni di virtù dei beni condivisi e la porta verso la trama sottile del prezzo.
Giudicare il bene e il male
Al centro de La vocazione vi è una ri-articolazione dei principi sociali della Chiesa in modo che il dirigente d’impresa possa “giudicare” e discernere nella sua attività ciò che è buono e ciò che non lo è. I principi sociali cattolici aiutano a produrre una comprensione più ricca del tipo di relazioni che gli imprenditori sono chiamati a intrattenere.
La vocazione tenta di superare una presentazione troppo spesso astratta dei principi sociali cristiani e di articolare progressivamente sei principi pensati per il contesto e la situazione particolare dell’impresa. Quando i dirigenti d’impresa guardano ai principi sociali cattolici, manifestano spesso una duplice reazione che è stata ben colta da Andre Delbecq, già Preside della Santa Clara’s Business School: «ci sembra di aver chiaro quello che desideriamo, ma la specificità comportamentale rimane esigua». I principi della dottrina sociale cattolica della dignità umana, del bene comune, della solidarietà e della sussidiarietà ispirano una profonda coscienza del fatto che l’economia è qualcosa di più della sola massimizzazione della ricchezza dei proprietari. Ma una volta che dall’ispirazione si passa alla pratica, i dettagli sono difficili da definire e le aspirazioni si trasformano in un sentimento vago. La vocazione tenta di colmare questo divario.
Il documento espone sei principi pratici in relazione a tre obiettivi essenziali dell’impresa. I tre obiettivi descrivono il bene che l’impresa produce: beni buoni, lavoro buono, ricchezza buona. I beni buoni riguardano la produzione di beni che siano veramente tali e servizi che servano. Il buon lavoro consiste nell’organizzazione del lavoro in modo che le persone sviluppino i propri doni e talenti. La buona ricchezza consiste nel creare una ricchezza sostenibile che possa essere distribuita equamente. Anche se ognuno di questi beni e i rispettivi principi, politiche e pratiche meritano un’ulteriore descrizione, il punto è che essi creano le condizioni perché le persone possano crescere nel loro lavoro. Quando sono presenti tutti e tre questi beni, i posti di lavoro contribuiscono positivamente a creare le condizioni sociali per aumentare le probabilità di sviluppo delle persone. Ma le “condizioni sociali” non garantiscono lo sviluppo umano. Il punto va approfondito se vogliamo capire perché la vocazione è tanto importante per il dirigente d’impresa.
William O’Brien, ex amministratore delegato di Hanover Insurance, spiegava che anche nei posti di lavoro in cui si producono buoni prodotti, in cui le persone sono trattate bene da una politica illuminata delle risorse umane e in cui si crea e distribuisce ricchezza, le persone possono continuare a essere disilluse e «frustrate perché il loro lavoro manca di significato»[9]. Le organizzazioni possono essere in regola con le condizioni sociali, ma non produrre “comunità” e di conseguenza non realizzare lo sviluppo delle persone. Spesso questa mancanza di significato e di sviluppo deriva dal fatto che le persone non considerano il proprio lavoro come una vocazione. Considerano l’impresa solo nell’ottica del lavoro (denaro) o della carriera (realizzazione personale). Se trattano gli azionisti come “vicini di casa” e con una certa parità negli scambi, spesso i dirigenti d’impresa non riescono a costruire comunità e a sviluppare integralmente la propria leadership. Tale paralisi deriva sovente da una forma strumentale di ragionamento incapace di creare relazioni autentiche. Come affermava Benedetto XVI «la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità. Questa ha origine da una vocazione trascendente di Dio Padre, che ci ha amati per primo» (Caritas in Veritate 19). Si tratta di agire in un modo particolare.
Agire: ricevere per dare
Perché gli imprenditori sviluppino il proprio lavoro, è necessario qualcosa di più del lavoro. Lo esprime bene la frase latina nemo dat quod non habet (nessuno può dare ciò che non ha). In altre parole, perché nel nostro lavoro e attività possiamo dare nel modo giusto, dobbiamo prima saper ricevere nel modo giusto. Il bene che dobbiamo dare è innanzitutto un bene che abbiamo bisogno di ricevere. Il documento spiega che il primo e per alcuni il più difficile “atto” è «ricevere ciò che Dio ha fatto per noi». Un’importante sfida è rappresentata per gli imprenditori dal fatto che il loro atteggiamento positivo e il loro orientamento pratico possano spingerli a «definire e creare i propri principi, piuttosto che riceverli» (La vocazione, 66). Ciò di cui gli imprenditori hanno disperatamente bisogno è innanzitutto ricevere, e in particolare, come afferma il documento, «ricevere i sacramenti, accettare le Scritture, santificare il sabato, pregare, osservare il silenzio e altre discipline della vita spirituale. Non si tratta di atti facoltativi per un cristiano e nemmeno di atti privati separati e scollegati dall’impresa» (La vocazione, 68). Può essere un forte cambiamento rispetto all’attivismo eccessivo dell’impresa. Senza una profonda riflessione, senza la contemplazione e la preghiera, è difficile vedere come gli imprenditori o qualsiasi altro professionista possano resistere alle dimensioni negative insite nella finanziarizzazione, nel sovraccarico di tecnologia, in situazioni iper-competitive.
Il secondo “atto” al quale la Chiesa chiama l’imprenditore è quello di dare in un modo che corrisponda a quanto è stato ricevuto. Tale donazione non è mai il minimo legale; deve essere un’autentica comunione con gli altri che renda il mondo migliore. In particolare, il modo di dare dei dirigenti d’impresa comporta pratiche e politiche di formazione che promuovano lo sviluppo umano integrale. Tali pratiche includono il giusto prezzo, la giusta ricompensa, una progettazione umana del lavoro (job design), politiche ambientali responsabili, investimenti socialmente responsabili. Esso richiede anche una prudente applicazione dei principi sociali dell’assunzione, del licenziamento, della proprietà, della governance del consiglio di amministrazione, della formazione degli impiegati e dei dirigenti, delle relazioni con i fornitori, e molte altre questioni.
Ciò che tale ritmo di attività umana produce per gli imprenditori è uno spostamento dal modello d’impresa basato sullo scambio/equivalenza a vantaggio di un modello relazionale e del dono. Benedetto XVI ha spiegato che se il mercato è «lasciato al solo principio dell'equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare. Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica» (Caritas in veritate, 35). Ciò che spesso sfugge agli imprenditori e ai loro consulenti è che i contratti e gli incentivi non esauriscono quanto viene scambiato sul lavoro. È in gioco qualcosa di più: si condividono beni, si sviluppano relazioni, si formano comunità di persone, si danno doni, le persone si trasformano.
Il documento non ignora le difficoltà di creare imprese che siano allo stesso tempo relazionali e competitive. Tale combinazione è carica di tensioni e conflitti. Il giusto salario per i dipendenti, per esempio, è spesso in contrasto con il prezzo equo da corrispondere a fornitori e clienti, specialmente in un’attività che ha margini di profitto ridotti. Le sfide poste da tali tensioni non legittimano gli imprenditori ad arrendersi a tutte le tensioni delle forze del mercato. I dirigenti d’impresa non sono solo tecnici del mercato. Piuttosto, sono chiamati a una saggezza pratica, che comporta la disponibilità a vivere in situazioni di tensione e a trasformarle in relazioni solide.
La questione educativa
La vocazione è molto esigente nei confronti degli imprenditori di oggi. Ma prevede anche sfide significative per l’educazione superiore. Per molti versi la sfida delle università può essere più significativa di quella delle imprese. La secolarizzazione dell’accademia l’ha spesso resa indifferente e ostile verso la religione, specialmente nelle scienze umane e sociali. Studiosi musulmani e cristiani, in maniera indipendente e in dialogo fra loro, possono assumersi il compito di far interagire le loro ricche tradizioni sociali con i percorsi di studio e di ricerca. Ciò permetterà di educare i futuri dirigenti d’impresa a superare l’ottica della carriera in favore di un’ottica della chiamata; a ordinare le competenze tecniche alle virtù della giustizia e alla saggezza pratica; a considerare le relazioni e non solo gli scambi; a prendere decisioni sulla base di principi e non solo della convenienza.
Pur avendo dato validi contributi nell’ambito dell’etica d’impresa e della responsabilità sociale d’impresa, le scuole cattoliche di amministrazione non hanno fatto interagire in maniera sufficientemente ampia la tradizione sociale cattolica con il mondo dell’economia. Al contrario, esse hanno ampiamente attinto, per comprendere il ruolo dell’etica negli affari, a tradizioni etiche come l’utilitarismo, il kantismo o altri sistemi secolari. Queste teorie contengono intuizioni importanti, ma trascurano gli stimoli più profondi che la prospettiva della vocazione può offrire. Benedetto XVI ha osservato che, disgiunta da un’antropologia teologica, l’etica d’impresa «rischierebbe di diventare funzionale ai sistemi economico-finanziari esistenti, anziché correttiva delle loro disfunzioni» (Caritas in Veritate, 45). È importante che le università cattoliche riconsiderino la propria tradizione e la discutano insieme ad altre visioni, in particolare quelle di altre tradizioni religiose come l’Islam. In caso contrario, la tradizione non riuscirà né a svilupparsi in maniera robusta né a contribuire alla più vasta cultura contemporanea.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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[1] Prima predica quaresimale di Padre Cantalamessa, 9 marzo 2007, http://www.zenit.org/it/articles/il-peccato-che-dio-denuncia-con-piu-forza-e-l-ipocrisia-avverte-il-predicatore-del-papa.
[2] Il documento è disponibile su www.stthomas.edu/cathstudies/cst/VocationBusinessLead/.
[3] La versione italiana del documento, intitolata La vocazione del leader d’impresa è disponibile al link http://centridiateneo.unicatt.it/chiesa-Vocazione_ITA.PDF
[4] John Kavanaugh s.j., Last Words, «America», 21-28 gennaio 2002, 23.
[5] Cfr. Servais Pinckaers o.p., The sources of Christian Ethics, Catholic University of America Press, Washington D.C. 1995.
[6] David H. Lawrence, Studies in Classic American Literature, Penguin Books, New York 1923, 12-13.
[7] Agostino d’Ippona, Le confessioni, Paoline, Milano 20032, 20.
[8] Philip Rieff, The Triumph of the Therapeutic, Harper & Row, New York 1966, 93.
[9] William O’Brien, Character at Work, Paulist Press, New York 2008, 104.
Per citare questo articolo
Riferimento al formato cartaceo:
Michael Naughton, Manager d’impresa per vocazione, «Oasis», anno IX, n. 17, giugno 2013, pp. 18-24.
Riferimento al formato digitale:
Michael Naughton, Manager d’impresa per vocazione, «Oasis» [online], pubblicato il 1 giugno 2013, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/fede-e-lavoro-per-cristiani-e-musulmani.