Che cosa abbiamo capito visitando Expo2020, dove ogni Paese cerca di proiettare una determinata immagine di sé e i padiglioni tematici lanciano le loro idee: quali?
Ultimo aggiornamento: 16/12/2021 13:56:38
Dubai – L’arrivo a Expo2020, così come quello nella città che lo ospita, lascia a bocca aperta. Tutto è impressionante, a partire dal lungo viaggio in metropolitana – rigorosamente a guida autonoma – che da “downtown” ci scarica all’ingresso dell’esposizione, situato ben al di fuori della città: un’ora abbondante, sempre con vista panoramica sugli imponenti grattacieli di Dubai. Un rapido ed efficiente controllo di certificato vaccinale e tampone molecolare e la piazza al-Wasl, l’ingresso principale all’esposizione, si staglia davanti a noi, con la sua cupola, dorata e cangiante, da 130 metri di diametro. Proprio come davanti al Burj Khalifa (e molti altri grattacieli di Dubai), il primo impatto con i padiglioni stupisce per l’imponenza delle costruzioni, per il luccichio delle presentazioni e l’avvenirismo degli “effetti speciali”. L’impressione è talmente sensazionale che viene da fermarsi lì, senza farsi troppe domande. Non possiamo dire di aver “visitato Expo”, così come non potremmo dire di aver visitato Dubai dopo essere stati a Palm Jumeirah. E dunque tutto ciò che scriviamo porta con sé il dubbio che, forse, qualcosa con un significato differente da quello che abbiamo colto si celava dietro l’angolo e quell’angolo non l’abbiamo raggiunto perché, come sempre, il tempo è tiranno. A cominciare dal padiglione dei “padroni di casa”, gli Emirati Arabi Uniti, nel quale una prima volta non siamo riusciti a entrare a causa di una lunga coda e una seconda perché la nostra visita coincideva con quella del presidente degli Emirati (così ci ha riferito la security), che ha richiesto la chiusura del padiglione per alcune ore.
Abbiamo però visitato i padiglioni di alcuni Paesi che sono particolarmente rilevanti sia per la politica emiratina che per il lavoro di Oasis, oltre a quello – amor di patria – dell’Italia (uno dei più visitati in assoluto). E dopo averlo fatto, la domanda che sorge quasi spontanea è: ma che senso ha l’Expo? In fin dei conti, è un luogo in cui ciascuno Stato non fa che incensarsi. “Abbiamo le più belle attrazioni turistiche, venite da noi”, “siamo i più innovativi, investite da noi”, sembrano dire tutti i padiglioni. Eppure, proprio qui risiede uno degli aspetti più interessanti dell’esposizione: cogliere ciò che ciascuna nazione sceglie di mostrare di sé e intravedere la condizione in cui il Paese si trova. Visti con questo sguardo, i padiglioni assumono tutto un altro interesse.
Così intuiamo che se il Qatar, nonostante le disponibilità finanziarie, ha un padiglione tanto modesto, forse è perché la fine del blocco diplomatico imposto a Doha nel 2017 non ha veramente sanato le relazioni con i vicini emiratini. O che la fine della disputa è arrivata troppo tardi per un allestimento all’altezza di quello dei “cugini” dell’Arabia Saudita. Il cui padiglione è magnificente: all’esterno, una facciata spiovente a specchio, che riflette sull’ingresso sottostante, produce un effetto che rimanda alla circumambulazione della Ka‘ba alla Mecca; all’interno una gigantesca opera di attrazione turistica, con video e immagini che mostrano le bellezze naturalistiche del Regno. Coerentemente con la linea voluta dal Mohammed Bin Salman per l’Islam, non c’è molto spazio per il passato nella narrazione che i sauditi propongono ai visitatori di Expo, se non nella misura in cui questo contribuisce alla promozione di un sito turistico come al-Ula. Tutto è proiettato al futuro.
Proprio nella tradizione trovano invece la propria ragion d’essere alcuni padiglioni di Paesi le cui disponibilità economiche non sono sicuramente paragonabili a quelle di Riyad. Padiglioni che anche esternamente si presentano come modesti, ma che pure recano un loro messaggio. È il caso ad esempio dell’Iran, che in una situazione in cui tutti esasperano il ricorso alla tecnologia sceglie (di necessità, virtù) di mostrare il valore del proprio artigianato, lasciando la scena a una donna intenta a realizzare un favoloso tappeto persiano.
O la Siria, che proprio negli Emirati Arabi Uniti, Paese con il quale flirta da qualche mese, sceglie di usare il suo padiglione per lanciare un messaggio molto preciso: stiamo cercando di «risollevarci e riprenderci il nostro posto nel mondo» (come si legge entrando nel suo padiglione). E magari anche quello nella Lega Araba, vien da pensare scorrendo le cronache degli ultimi periodi.
La sorpresa arriva passeggiando nel distretto di Al Forsan: una grande Hanukkiah (il candelabro a nove braccia le cui luci vengono accese ciascun giorno durante la festa ebraica di Hanukkah) fa capolino quasi alla sommità della parte superiore del padiglione di Israele, che richiama le dune del deserto emiratino. L’immagine è potente, e per un attimo si affaccia il dubbio: siamo davvero nella Penisola Araba? La diversità, racconta Moran Atias nella presentazione “immersiva” di cui si può godere al padiglione, è una ricchezza che, magari con fatica, va valorizzata: proprio come la diversità di visioni con gli Emirati, con cui ora la collaborazione è però proficua. E infatti il padiglione “celebra” la normalizzazione delle relazioni siglata con gli Accordi di Abramo.
Quello di Israele non è l’unico padiglione che mette al centro una relazione. Quello della Santa Sede è infatti dedicato all’incontro tra Cristianesimo e Islam e si muove tra gli affreschi di Giotto che ritraggono l’incontro tra San Francesco e il Sultano e i filmati di quello tra Papa Francesco e il Grande Imam di al-Azhar Ahmad al-Tayyeb durante la firma la firma del Documento sulla Fratellanza umana, avvenuta proprio negli Emirati Arabi.
Da ultimo, Expo permette di cogliere anche come si traducono nel concreto decisioni prese a livello internazionale. Basta guardare il padiglione dell’Afghanistan, che, come altri, cerca di vendere prodotti e oggetti tipici (o supposti tali, vista l’onnipresenza del made in China). Vuoi acquistare dello zafferano di Herat? Sei il benvenuto… se paghi in contanti. Conti congelati, Paese isolato sulla scena internazionale, e anche una banalità come pagare con la carta di credito (banale soprattutto a Dubai) diventa impossibile.
E le idee? Dove si trovano i contenuti legati al tema di quest’edizione dell’expo: Connecting Minds and Creating the Future? Per trovare una risposta abbiamo pensato di visitare uno dei padiglioni tematici: Terra, quello dedicato alla sostenibilità. Qui si ha l’impressione che, nonostante tutto il parlare di transizione energetica, il cambiamento profondo del sistema economico e sociale su cui si basano le nostre società richieda anche un’innovazione tecnologica che possa avviare una nuova rivoluzione industriale. Il problema è che quest’innovazione sembra ancora lontana dal materializzarsi. D’altro canto, però, l’eventuale presenza di questo grande e inatteso sviluppo tecnologico contribuirebbe a risolvere “soltanto” il grande problema delle emissioni di CO2, e non quello della più ampia crisi ecologica in atto. In altre parole, come ha ricordato Papa Francesco nell’enciclica Laudato Si’, finirebbe per sostituire l’attuale paradigma tecnocratico con un altro, senza che la natura del rapporto tra l’uomo e il creato sia veramente modificata.
È su quest’ultimo aspetto che, seppur in modo un po’ semplicistico, sembra insistere il padiglione Terra, che invita continuamente il visitatore a riflettere sulle proprie scelte individuali, dal consumo di carne all’uso della plastica, dall’acquisto degli indumenti all’utilizzo dei carburanti. Alternative che all’orecchio “allenato” di un occidentale sicuramente appaiono banalizzare eccessivamente la questione, ma che forse risuonano in maniera differente per migliaia di visitatori indiani, pakistani o filippini. Soprattutto a quelli che, risiedendo nel Golfo, conoscono gli eccessi di un sistema in cui, finora, la corsa al consumo (di acqua, di energia, di risorse naturali) sembra non aver tenuto in alcun conto i limiti posti dall’ambiente.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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