Pascal ha meditato sul «buon uso delle malattie». Sta a noi fare altrettanto ora che il Covid-19 ci impone di “stare a casa”, anche se la malattia non ci ha (ancora) colpiti

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:01:36

Si potrebbe pensare che la clausura condanni all’inazione e quindi alla noia, costretti come siamo a non poterci più muovere per svolgere le nostre attività. Ci sono naturalmente i famigliari tra le stesse mura, anche più vicini del solito, così come la necessità di rispondere ai bisogni alimentari e igienici. Ma ciò non riempie completamente le giornate e c’è quindi il tempo di raccogliere la sfida facendo un passo indietro. È lo stimolo inaspettato offerto da questa situazione di relativa paralisi, in un momento in cui durante la giornata l’attenzione è molto meno sollecitata dalle interazioni sociali. Non ci sono più nemmeno eventi sportivi e spettacoli a distrarci con un po’ di evasione e di eccitazione.

 

Destabilizzazione

 

Il vuoto nel quale abbiamo la sgradevole impressione di galleggiare è creato dall’incertezza. Alla fine, sappiamo ancora poco di questo nuovo virus, che si diffonde facilmente ma non uccide infallibilmente coloro che infetta. Sembrano non esserci i mezzi per proteggere chi si prende cura degli altri. Fino a dove bisogna spingersi con l’isolamento? Quanto tempo durerà? Si potrà poi voltare pagina? In altre parole, alle restrizioni alla libertà che limitano gli spostamenti si aggiunge una fragilità tanto cognitiva quanto fisica e improvvisamente psicologica.

 

Ecco dunque sbaragliata l’illusione di aver catalogato e di padroneggiare tutto ciò che poteva essere utile sapere a questo mondo, e che tutto fosse controllabile o almeno gestibile con procedure collaudate. In altre parole, scienza e tecnologia sono in affanno. È un duro colpo al mito del Progresso inarrestabile e irreversibile, alimentato in casa nostra da decenni privi di guerre e rivoluzioni e in cui l’offerta di comodità e servizi è arrivata ad anticipare e modellare la domanda, fino a rendere la legittimazione delle minoranze sessuali una delle priorità più urgenti.

 

Ciò che resterà o tornerà

 

È tuttavia evidente che non tutti questi progressi sono svaniti e che molte conquiste rimangono preziose. Il nostro tenore di vita non è radicalmente messo in discussione, anche se si impone una “deglobalizzazione” dei circuiti di approvvigionamento. Le difficoltà economiche dovute alla crisi sanitaria difficilmente ci riporteranno ai tempi della lampada a olio e della navigazione a vela. E soprattutto, i mezzi di comunicazione come la radio, la televisione, il telefono, Internet, le video-conferenze e i social network già impediscono di trasformare la reclusione in isolamento carcerario. Tutti, compresi alunni, studenti e insegnanti, stanno sperimentando i vantaggi del telelavoro a un livello senza precedenti.

 

Ma è altrettanto sicuro che tutti i dibattiti momentaneamente rimossi dalla fissazione sul virus prima o poi ritorneranno: le inuguaglianze denunciate dai Gilets jaunes; l’immigrazione dall’Africa e dal Medio Oriente; le guerre regionali che mietono masse di vittime civili innocenti; l’ascesa degli egoismi nazionalisti; l’espansionismo islamico, russo e cinese; le divergenze sull’interpretazione dei diritti dell’uomo e della democrazia; e (soprattutto) la “transizione ecologica” che ci è richiesta dal riscaldamento globale. Gli scambi di accuse e gli sproloqui che sono all’ordine del giorno nella vita politica, e a cui oggi è concesso un po’ meno spazio, torneranno sicuramente a farsi sentire.

 

Una prova di verità

 

Nel frattempo, non è da escludere che le frustrazioni e le paure finiscano per erodere la sana solidarietà che si è creata, e che è paradossale, perché si manifesta evitando i contatti. Ma c’è qualcosa di ancora più contraddittorio e sconcertante: le restrizioni restituiscono una certa libertà e questa, per giunta, non è comoda, ma costituisce piuttosto una prova.

 

Infatti, non è più solo questione di scegliere tra opzioni piò o meno attraenti, ma di determinare ciò a cui si aspira più profondamente. La limitazione di quello che Blaise Pascal chiamava divertissement – vale a dire tutto ciò che nella vita “mondana” ci distrae dall’essenziale – porta a interrogarci più acutamente su ciò che vogliamo veramente. In altre parole, questo tipo di libertà è quella che deriva dal confronto con la verità – non la Verità con la V maiuscola che comanda e spiega tutto, ma la verità su se stessi in un contesto in cui tutto è rimesso in discussione.

 

La prova e la grazia

 

Non ne consegue automaticamente che la pandemia attuale sia provvidenziale. Servono un po’ di riflessione e un po’ di fede per comprenderlo. Una crisi non è un brutto momento da superare, ma una prova che rivela la verità di coloro che ne sono toccati, mettendoli in qualche modo a nudo. È quanto suggerisce la stessa radice greca della parola, che si trova anche in “criterio” e “critico”, indicando dunque qualcosa di difficile da sopportare.

 

D’altro canto, Dio non ha potuto volere questa oppressione e questa schiavitù, anche a fini pedagogici, più di quanto non abbia organizzato la Passione del Messia. Egli infatti non combatte il caos introdotto nella creazione dal Male in persona attraverso una violenza simmetrica. Il Figlio fatto uomo viene piuttosto ad arginare il contagio del virus più omicida – quello dell’odio – evitando di trasmetterlo, dal momento che, anche sotto tortura e fino all’agonia, l’idea di vendetta o di punizione non lo sfiora nemmeno. E la sua vittoria sulla morte, poiché è rimasto se stesso e non ha smesso di offrire la vita ricevuta dal Padre, apre agli uomini la possibilità di scoprire la verità sulla loro vocazione filiale e di prendervi parte.

 

Dalla reclusione alla comunione

 

La crisi che stiamo affrontando in questi giorni appare anche come una pro-vocazione – una scossa, uno scandalo che può risvegliare una chiamata, o addirittura sostituirsi ad essa, oppure lasciare sconvolti, o ancora, liberare dalle passività imposte da abitudini assorbenti. La libertà imprevista così scoperta non sfocia nell’arbitrario, ma richiede nuove regole di vita, ordinate a un fine che non sia una chiusura in se stessi o al contrario una solidarietà senza limiti, al di là delle proprie forze.

 

Si tratta fondamentalmente del principio della vita monastica, che non è riservata a un’élite, ma, come diceva bene padre Louis Bouyer, è semplicemente «quella del battezzato, portato alla sua massima urgenza». Proprio l’emergenza sanitaria ci invita a regolare le nostre giornate alla maniera dei monaci e delle monache, con un po’ di lavoro e di lettura, e con liturgie da prendere in prestito, adattare o inventare, per convertire la reclusione a cui siamo costretti in una clausura liberamente scelta, che trasforma l’isolamento in comunione attraverso Cristo e in Cristo.

 

 

*La versione originale di questo articolo è stata pubblicata nell’edizione francese di Aleteia.org

 

 

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