Il rapporto tra istanze femministe, politiche statali e Islam rappresenta un punto di vista privilegiato per comprendere la complessa situazione del regno maghrebino
Ultimo aggiornamento: 18/06/2024 15:22:05
Il rapporto tra istanze femministe, politiche statali e Islam rappresenta un punto di vista privilegiato per comprendere la complessa situazione del regno maghrebino. I movimenti per i diritti delle donne, sia quelli laici che quelli d’ispirazione islamica, mettono infatti in discussione i fondamenti sociali e religiosi del Paese. La monarchia ha recepito alcune delle loro rivendicazioni, dando vita tra l’altro a nuove forme di autorità religiosa femminile, ma secondo logiche che servono a rafforzare la sua stabilità.
A seguito delle proteste di piazza del 2011, animate dal cosiddetto movimento del 20 Febbraio, in Marocco è stata approvata una nuova Costituzione, calata dall’alto, che sancisce un principio per cui si sono battute a lungo alcune organizzazioni della società civile, per lo più di stampo femminista: l’uguaglianza di genere. A pochi anni di distanza, tuttavia, il Marocco è ancora lontano da un adeguamento di leggi e norme sociali a tale principio, che molte realtà progressiste considerano invece fondamentale per la tanto ambita quanto incompiuta “transizione democratica” del Paese[1]. A fronte di un simile fermento, il rapporto tra istanze femministe, politiche di genere e Islam, ossia tra le rivendicazioni di un’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne, le riforme statali tese a garantire una maggiore tutela dei diritti di quest’ultime e l’uso politico della religione, sembra essere un campo d’osservazione significativo per comprendere la complessa congiuntura attuale, in cui rivendicazioni dal basso per il cambiamento democratico dello Stato e per la giustizia socio-economica si scontrano con una gestione autocratica del potere da parte dell’élites vicine alla famiglia reale, che si serve dell’Islam per garantire lo status quo.
Una consolidata tradizione di attivismo femminile
Contrariamente a quanto affermato da visioni orientalistiche e approcci essenzialisti, influenzati dall’idea coloniale per cui nelle società musulmane le donne sarebbero eterne vittime del patriarcato, in Marocco – come nell’intera regione MENA (Medio Oriente e Nord Africa) – i movimenti femministi hanno svolto un significativo ruolo sociale e politico.
È nel contesto delle proteste del 2011 che è emerso con nettezza il protagonismo femminile
Se ad esempio pensiamo all’ondata protestataria del 2011, anche in Marocco larga parte della popolazione ha manifestato per il cambiamento democratico dello Stato, la fine della corruzione nell’amministrazione pubblica, il rispetto dei diritti umani e di cittadinanza, denunciando l’umiliazione (in marocchino hogra, dal verbo arabo haqara, umiliare) subita dai settori popolari più emarginati. Ed è in questo contesto che è emerso con nettezza il protagonismo femminile: le donne hanno animato cortei, sit-in, dibattiti, resistendo alle cariche della polizia e scandendo gli slogan simbolo delle proteste, come «karāma, hurriyya, ‘adāla ijtimā‘iyya» (dignità, libertà, giustizia sociale), «al-shaʻb yurīd isqāt al-hukūma» (il popolo vuole la caduta del governo) e «ʻāsh al-shaʻb» (viva il popolo) in antitesi al più classico «ʻāsh al-malik» (viva il re). Una simile partecipazione femminile, trasversale alle appartenenze generazionali, ideologiche, religiose e di classe, va osservata in una prospettiva di longue durée e dunque in continuità con la storia del movimento delle donne in Marocco, una realtà eterogenea, caratterizzata da molteplici discorsi, strategie e pratiche politiche ancora oggi in costante ridefinizione.
In termini generali, le convenzioni internazionali per il rispetto dei diritti umani, da un lato, e l’Islam, dall’altro, rappresentano i due principali riferimenti valoriali intorno ai quali si sono sviluppati, e continuano a evolversi oggi, i movimenti delle donne in Marocco. Sulla base dell’adesione a questi due macro-discorsi, è possibile infatti distinguere l’area delle femministe laiche, quella delle attiviste dei movimenti dell’Islam politico o islamiste, e quella delle femministe islamiche.
Se nei primi decenni del Novecento la mobilitazione femminile ha iniziato a manifestarsi principalmente nelle lotte per l’indipendenza e nelle battaglie per i diritti (per esempio all’istruzione primaria), articolandosi in un tipo di attivismo associativo per lo più caritatevole e assistenziale, dopo l’indipendenza dalla Francia, ottenuta nel 1956, sono sorte sezioni femminili nei partiti e nella militanza sindacale e studentesca, per lo più di sinistra. Le attiviste di queste formazioni hanno poi creato le principali associazioni del femminismo che Zakya Daoud ha definito “combattivo”[2], fra cui l’Association Démocratique des Femmes Marocaines (ADFM) e l’Union d’Action Féminine (UAF). Militanti, figure intellettuali e accademiche, le femministe laiche sostengono l’affermazione delle libertà individuali nell’ambito di uno Stato di diritto, in cui i diritti delle donne siano concepiti e rispettati come diritti umani universali e in cui l’Islam resti afferente alla sola sfera privata del culto religioso e non – come avviene in Marocco – a quella pubblica del potere politico e della normatività giuridica e sociale. Da un punto di vista teorico, in generale, l’ideale femminista si accompagna al secolarismo come quadro ideologico della liberazione dell’individuo da un potere autoritario, la cui connotazione in Marocco è patriarcale e teologica al tempo stesso[3].
In Marocco lo stretto rapporto tra Islam e potere politico rappresenta infatti il principale ostacolo all’affermazione degli ideali ugualitari, non soltanto dal punto di vista di genere, se si considera che il re è al contempo capo temporale della nazione e guida religiosa suprema (Comandante della comunità dei credenti, in arabo Amīr al-mu’minīn) e che il Codice di Statuto personale, approvato nel 1956 e poi riformato nel 1993 e nel 2004, blinda l’organizzazione familiare patriarcale ispirata ai principi islamici secondo le interpretazioni della scuola giuridica malikita. In tale codice sono incluse ad esempio le norme riguardanti il matrimonio, il divorzio, la filiazione, il diritto successorio. Tema quest’ultimo di recente messo in discussione dalle associazioni più progressiste, fra cui le femministe, che ne chiedono l’adeguamento al principio di uguaglianza riconosciuto nel 2011 dalla Costituzione.
Su un piano operativo, da decenni le femministe laiche fanno pressione sulle istituzioni e favoriscono la presa di coscienza della società attraverso progetti, petizioni, campagne di sensibilizzazione, dibattiti e giornate di studio sulle diverse dimensioni della discriminazione contro le donne: la violenza di genere, i matrimoni riparatori e dei minori, l’obbligo della verginità prematrimoniale, la disuguaglianza nel diritto successorio, le mancate tutele in tema di salute riproduttiva, la precarietà lavorativa e l’analfabetismo che colpiscono soprattutto le donne. Il femminismo laico ha mostrato particolare forza negli anni ’80 quando sul piano internazionale il discorso sui diritti delle donne fu rilanciato nel decennio dell’ONU per i diritti delle donne (1975-1985), mentre a livello nazionale il discorso sulla democratizzazione, sui diritti umani e di cittadinanza iniziò a guadagnare consensi tra le fasce più colpite dai piani di aggiustamento strutturale (1983-1994) e dalla repressione dei cosiddetti “anni di piombo”[4]. Inoltre, nell’ambito del “femminismo di Stato” avviato negli anni ’90, l’incorporazione nelle istituzioni di alcune femministe, precedentemente considerate come oppositrici del regime e poi valorizzate in qualità di “esperte nell’approccio di genere”, diede avvio a una seppur timida diffusione del discorso dell’uguaglianza di genere nelle strutture statali, e ciò anche grazie all’intervento delle istituzioni finanziarie e della cooperazione internazionale quali Banca Mondiale, Unione Europea, Nazione Unite (in particolare UNDP e UNWomen) nella definizione di alcune politiche[5]. Tra le numerose protagoniste del femminismo laico marocchino si distingue Khadija Riadi, figura di spicco dell’Associazione marocchina per i diritti umani, sindacalista impegnata per i diritti delle donne e per la democrazia, promotrice di numerose campagne in tutela dei diritti e delle libertà individuali.
Uguaglianza o complementarità?
Se le femministe laiche sostengono l’affermazione dell’uguaglianza (musāwā) di genere, i sostenitori del principio della complementarità (takāmul) concepiscono, invece, una netta divisione di genere del lavoro sociale, per cui agli uomini viene generalmente associata la responsabilità familiare e collettiva, basata sul lavoro produttivo, mentre alle donne è accostata modestia nei costumi, pazienza e agibilità nel ruolo prioritario della cura e della riproduzione. In generale il discorso della complementarità di genere è veicolato da associazioni e partiti islamisti, oltre che da figure religiose, confraternite o associazioni d’area islamica, che considerano l’Islam come prima dimensione della propria identità di cittadini e principio ispiratore dell’ordine collettivo ideale. Negli ultimi anni, tuttavia, donne di area islamista hanno guadagnato visibilità pubblica, come Bassima Hakkawi, ministra nei recenti governi del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Hizb al-‘adāla wa-l-tanmiya). Tra le figure di maggiore rilievo risalta inoltre la leader dell’associazione semi-clandestina Giustizia e Spiritualità (Al-‘adl wa al-ihsān) e figlia del suo fondatore, Nadia Yassin, attiva per anni nella liberazione delle donne attraverso corsi di alfabetizzazione islamica e sostenitrice di un sistema politico più vicino alla repubblica.
Il confronto acceso tra il femminismo laico e l’attivismo femminile islamista non ha tuttavia impedito lo scambio di prassi e linguaggi, sebbene per lo più in modo oppositivo[6]. Tale confronto talvolta è proceduto in direzione di una convergenza tra ideale ugualitario e fede islamica, che sembra avere la sua più costruttiva mediazione nel femminismo islamico di Asma Lamrabet[7]. “Terza via” fra femminismo laico e discorso islamista, il femminismo islamico è un’espressione solo apparentemente ossimorica che si riferisce alla prospettiva di teologhe musulmane critiche, accademiche e intellettuali sostenitrici della piena compatibilità tra diritti delle donne riconosciuti dalle convenzioni internazionali e Islam. Impegnate nella rilettura ugualitaria dei testi sacri dell’Islam e nella riappropriazione dei processi interpretativi delle fonti sacre del diritto, queste donne sono convinte che una partecipazione femminile all’elaborazione e alla trasmissione dell’Islam, combinata con una interpretazione pluridisciplinare fondata in primo luogo su una contestualizzazione circostanziata del messaggio della Rivelazione e della tradizione profetica, possa rappresentare un primo passo per una visione islamica riformista più sensibile al principio dell’eguaglianza tra generi.
In Marocco, tra le pioniere di tale approccio, Fatima Mernissi è senz’altro colei che prima di altri ha messo in discussione l’interpretazione patriarcale di alcuni hadīth (narrazioni su detti, fatti e silenzi del Profeta Muhammad). A raccogliere il testimone della nota sociologa di Fes, più di recente Asma Lamrabet ha portato avanti la battaglia della critica islamica di genere dentro e fuori le istituzioni islamiche ufficiali: è stata infatti Direttrice del Centro di studi sulle questioni femminili della Lega degli ulema di Rabat, fino a che le sue opinioni non sono risultate troppo progressiste soprattutto in materia di diritto successorio. Nonostante le sue discusse dimissioni del 2018 da questo organismo dell’Islam ufficiale, questa studiosa rimane la più importante voce del dibattito su genere e Islam a livello nazionale e, grazie alla sua attiva partecipazione a network transnazionali, come il movimento Musawah e la Summer School in Islamic Critical Thought di Granada, è tra le principali figure di riferimento del cosiddetto gender jihad su scala globale.
I diritti civili, politici e religiosi delle donne
A fronte di un panorama sociale così dinamico, lo Stato ha adottato politiche di genere che paiono ispirate a una logica di composizione di interessi contrapposti, volta a conciliare l’esigenza di conservazione dello status quo con le domande di democrazia e uguaglianza provenienti da un tessuto sociale politicamente molto attivo, con una maggioranza della popolazione giovane e sempre più cosciente dei propri diritti, anche grazie all’aumento dei livelli d’istruzione, al sostegno di organizzazioni internazionali e all’uso delle nuove tecnologie. Questa logica di compromesso si è tradotta in un processo di risignificazione in chiave moderna delle norme che garantiscono la stabilità del potere politico, dando vita a una mediazione attenta, da un lato, alla salvaguardia dell’omogeneità del discorso islamico ufficiale funzionale alla legittimazione del potere e, dall’altro, agli imperativi della modernità, con tutte le sue implicazioni anche in termini di tutela dei diritti umani e delle donne. Tra le più recenti riforme, quella che incorpora le donne nel corpo di predicatrici ed esperte in sharīʻa è un significativo esempio di questa tendenza.
Lo Stato ha adottato politiche di genere che paiono ispirate a una logica di composizione di interessi contrapposti
L’apertura del regime alle politiche di genere si è avuta nel 1993, con la prima riforma del codice di statuto personale, voluta da re Hassan II a seguito di una raccolta di un milione di firme portata avanti dalle principali associazioni del femminismo laico. Benché non modificasse nella sostanza l’impianto discriminatorio del codice, la riforma ebbe il merito di desacralizzare il diritto di famiglia, operando una distinzione chiave per la riforma del diritto islamico, spesso considerato immutabile per la sua matrice “divina”. Infatti, secondo la teologa Aisha Al-Ajjami dell’Università Cadi Ayyad di Marrakech, «con quella riforma si mise fine alla confusione tra sharīʻa (legge d’ispirazione coranica) e fiqh (il diritto islamico) che in quanto prodotto giurisprudenziale umano può essere modificato»[8]. Con l’ascesa al trono di Muhammad VI (1999), nel 2002 le donne hanno visto riconosciuto il loro diritto a essere elette in Parlamento e nei consigli locali in una proporzione pari al 10% dei seggi. Nel 2004, il Parlamento ha approvato all’unanimità la seconda riforma del Codice di famiglia, ideata da una commissione di nomina reale. Tra le altre misure, il codice ha abolito l’obbedienza della moglie al marito, ponendo la famiglia sotto la responsabilità di entrambi i coniugi, innalzato l’età minima per contrarre il matrimonio a 18 anni, senza tuttavia abolire in toto i matrimoni dei minori, e ha riconosciuto il diritto delle donne ad avviare un divorzio.
Nonostante il Marocco sia considerato tra i Paesi più avanzati della regione in termini di protagonismo femminile in ambito sociale, politico, economico, va osservato che tali riforme stentano a trovare adeguata applicazione e non sembrano ancora aver risolto le persistenti discriminazioni di genere radicate nel sostrato culturale di buona parte della popolazione, ancora segnata dall’analfabetismo e dalla marginalizzazione economica.
Sempre nel 2004 è stata approvata l’importante riforma del Ministero degli Awqāf (lett. i beni di manomorta) e degli Affari Islamici, con la quale è stata istituita la professione di predicatrice (murshida, plur. murshidāt) nello spazio pubblico e ufficiale della moschea e in altre strutture educative e assistenziali del Paese. Tale riforma ha anche incoraggiato la presenza di teologhe ed esperte in legge islamica (‘ālimāt, sing. ‘ālima) nelle istituzioni religiose del Paese, nei centri di formazione ed elaborazione del sapere islamico di Stato e nei consigli degli ulema.
Da un punto di vista simbolico, si tratta di una innovativa discontinuità rispetto alla tradizionale esclusione o marginalizzazione delle donne dai luoghi dell’elaborazione e trasmissione dell’Islam ufficiale. In quanto guida suprema della nazione e della comunità dei credenti, il re del Marocco è anche il vertice del Consiglio Superiore del Sapere, l’organismo composto dai più importanti ulema del Paese, che ha il compito di vegliare sul rispetto dell’Islam malikita, sulle leggi e sui comportamenti sociali. A questo si aggiunge una ramificata rete di Consigli di ulema locali, la scuola nazionale di formazione per ulema di Rabat (la Dār al-hadīth al-Hasaniyya) e i centri di studio che fanno capo alla Lega degli Ulema di Rabat: un sistema di legittimazione dell’Islam di Stato, sovrainteso dal Ministero degli Affari islamici, che si occupa della gestione del cosiddetto “campo religioso marocchino”[9].
Le murshidāt sono chiamate a svolgere la professione di predicatrici per sole donne nelle moschee
L’accesso delle donne a questo articolato apparato ha rappresentato senza dubbio un’innovazione da molteplici punti di vista, nell’ambito della più ampia politica di professionalizzazione delle guide religiose del Paese. Uomini e donne possono accedere a un concorso per imam e predicatrici, per preparare il quale gli uomini devono conoscere a memoria tutto il Corano, mentre le donne, che non possono diventare imam, devono memorizzarne almeno la metà. Superato il concorso, che dà accesso a un anno di formazione in scienze islamiche e sociali, le murshidāt sono chiamate a svolgere la professione di predicatrici per sole donne nelle moschee, e poi nelle scuole, negli ospedali e in altre strutture assistenziali. Non si tratta soltanto di un lavoro di educazione all’Islam, che comprende la spiegazione del diritto di famiglia e di alcune sure del Corano, ma anche di guida socio-religiosa, con un ruolo simile a quello di assistente sociale, punto di riferimento per risolvere problemi quotidiani, in famiglia, con il marito o i vicini, nel modo più “islamicamente” corretto.
La differenza tra ‘ālimāt e murshidāt consiste nel fatto che le prime posseggono il sapere (in arabo ‘ilm, da cui ‘ālimāt) e l’autorità religiosa ufficiale per elaborare un’interpretazione delle fonti dell’Islam, mentre le murshidāt hanno il solo compito di svolgere l’irshād, ovvero la predicazione del messaggio islamico di Stato. Va sottolineato che né le predicatrici né le ‘ālimāt in Marocco possono diventare imam, qualifica che è attribuita ai soli colleghi maschi. Secondo la scuola giuridica malikita, al massimo una donna può guidare una preghiera in privato, soltanto se la congregazione è esclusivamente femminile e se si posiziona sulla stessa linea delle consorelle.
Nonostante siano parte di una struttura burocratica gerarchica in cui il loro margine di azione non può troppo discostarsi dal discorso dominante, peraltro ispirato alla complementarità di genere e non all’uguaglianza, le predicatrici e le teologhe ufficiali sono depositarie di un’autorità religiosa significativa e dall’indubbio valore simbolico. Tale autorità è collegata al rispetto sociale per la funzione che esse svolgono e al ruolo di “buone cittadine musulmane” che incarnano. La loro autorità si fonda inoltre su quella che la studiosa Saba Mahmood ha definito “pedagogia della persuasione”[10], una facoltà considerata tipicamente femminile e che risulta importante per penetrare una parte del tessuto sociale difficilmente raggiungibile da imam e ulema maschi: una risorsa fondamentale per un regime che basa la propria stabilità anche sull’omogeneità religiosa interna.
Tra le implicazioni della riforma vi è la dichiarata volontà di ristrutturare il sistema religioso attraverso la standardizzazione di un discorso islamico nazionale uniforme, caratterizzato da tolleranza, moderazione e modernità. Non sono secondarie altre due considerazioni, una di politica interna e l’altra di politica estera. Quanto alla politica interna, la professionalizzazione di predicatori e predicatrici si inserisce in una nuova politica di prossimità dell’Islam marocchino, volta a controllare e contenere discorsi alternativi a quello ufficiale sul territorio nazionale, soprattutto in seguito agli attacchi terroristici di Casablanca del 2003. Sul piano della politica estera, la monarchia si propone come leader di una nuova “diplomazia religiosa” che renda il Marocco un partner privilegiato per molti Paesi africani che guardano a Rabat come guida di una modernizzazione panafricana. E a ciò è collegato anche l’ingente sistema di borse di studio per studenti africani che raggiungono il Paese per diventare ulema o imam.
A servizio dell’ideale democratico
In Marocco l’espressione “il personale è politico” può essere tradotta come “il teologico è politico”, dal momento che l’Islam permea, su piani differenti, non soltanto la fede, i rituali e i comportamenti dei fedeli, ma anche la visione del mondo di tutti i cittadini, tanto nel pubblico come nel privato[11]. In un simile contesto, il riconoscimento dell’uguaglianza di genere mette in discussione i confini reali e immaginati posti dal patriarcato. Tuttavia, mentre le strutture islamiche statali utilizzano la religione come discorso di verità, in modo funzionale all’ordine patriarcale e nazionale, il movimento del femminismo laico e il discorso del femminismo islamico contribuiscono all’elaborazione di un ideale democratico fondato su diritti e libertà individuali, denunciando l’impossibilità di praticare la democrazia nei luoghi della politica senza che l’uguaglianza venga applicata in modo sostanziale al di là di dichiarazioni di principio.
il movimento del femminismo laico e il discorso del femminismo islamico contribuiscono all’elaborazione di un ideale democratico fondato su diritti e libertà individuali
Le molteplici e diversificate proposte politiche delle attiviste del femminismo laico, del femminismo islamico e dell’attivismo femminile islamista segnalano lo straordinario dinamismo dei discorsi e delle pratiche messe in campo secondo obiettivi emancipatori che sono collegati a campi valoriali, ideologici e religiosi distinti. Questo confronto, caratterizzato da divergenze e influenze reciproche, si riflette nella tensione tra i principi di uguaglianza o di complementarità di genere, intorno a cui si definisce il presente e il futuro dei diritti delle donne. Di recente, il fermento sociale e culturale successivo alle proteste del 2011 ha provocato alcuni significativi cambiamenti in termini giuridici, come l’abolizione dei matrimoni riparatori a seguito del suicidio della giovane Amina Filali data in sposa al suo violentatore[12]. L’ideale ugualitario femminista ha contribuito a un processo di trasformazione politica che vede protagoniste in particolar modo le nuove generazioni, intenzionate a mettere fine alle gerarchie di potere, di genere e generazionali, e ad adeguare il sistema normativo a un progetto di società in cui siano riconosciute le libertà individuali. Il presente non lascia ben sperare, ma i processi di cambiamento storico avvengono secondo temporalità lunghe.
Questo articolo rappresenta una sinossi di quanto già affrontato nel volume Femminismi e Islam in Marocco: attiviste laiche, teologhe, predicatrici, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2017.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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Note
[1] Per uno studio più approfondito si rimanda a Sara Borrillo, Women’s Movements and the Recognition of Gender Equality in the Constitution-Making Process in Morocco and Tunisia (2011-2014), in Helen Irving, Ruth Rubio-Marín (a cura di), Women as Constitution Makers: Case Studies from the New Democratic Era, Cambridge University Press, New York 2019, pp. 31-80; Ead., Le mouvement du 20 Février et la réforme constitutionnelle au Maroc: un compromis démocratique suffisant? Une lecture de genre, in Fatima Sadiqi (a cura di), Femmes et nouveaux médias dans la région méditerranéenne, Fondation Hanns Seidel, Rabat 2012, pp. 303-324. Per un approfondimento sulla “transizione democratica” si veda Pierre Vermeren, Le Maroc en transition, La Découverte, Paris 2002.
[2] Zakya Daoud, Féminisme et politique au Maghreb. Soixante ans de lutte (1930-1992), Eddif, Casablanca 1993.
[3] Muhammad Mouaqit, L’idéal égalitaire féminin à l’œuvre au Maroc. Féminisme, islam(isme), sécularisme, L’Harmattan, Paris 2008.
[4] Elisabetta Bartuli (a cura di), Sole Nero. Anni di piombo in Marocco, Mesogea, Messina 2004.
[5] Houria Alami Mchichi, Le féminisme d’État au Maroc. Jeux et enjeux politiques, L’Harmattan, Paris 2010.
[6] Zakya Salime, Between Feminism and Islam. Human rights and sharia law in Morocco, University of Minnesota Press, Minneapolis-London 2011.
[7] Per un approfondimento sul lavoro di Asma Lamrabet si rimanda a Sara Borrillo, Islamic Feminism in Morocco: the Discourse and the Experience of Asma Lamrabet, in Moha Ennaji, Fatima Sadiqi, Karen Vintges (a cura di), Moroccan Feminisms. New Perspectives, Africa World Press and Red Sea Press, Trenton 2016, pp. 111-127.
[8] Intervista del settembre 2008.
[9] Muhammad Darif, Monarchie marocaine et acteurs religieux, Afrique Orient, Casablanca 2010.
[10] Saba Mahmood, Politics of Piety. The Islamic Revival and the Feminist Subject, Princeton University Press, Princeton 2005.
[11] Ziba Mir-Hosseini, “Feminist Voices in Islam: Promise and Potential”, 12 novembre 2012, in https://bit.ly/2qsUlJy
[12] Sara Borrillo, Egalité de genre au Maroc après 2011 ? Les droits sexuels et reproductifs au centre des récentes luttes de reconnaissance, in Anna Maria Di Tolla, Ersilia Francesca (a cura di), Emerging Actors in Post- Revolutionary North Africa. Gender Mobility and Social Activism, 1, «Studi Magrebini», vol. XIV (2016), Università di Napoli L’Orientale, Napoli 2017, pp. 393-418.