Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:16:03

Domenica scorsa a Baghdad è andato in scena un attentato contro il primo ministro iracheno Mustafa al-Kadhimi. Tre droni carichi di esplosivi hanno sorvolato la sua residenza: due sono stati abbattuti dalla sicurezza, mentre uno è esploso. Al-Kadhimi è uscito quasi del tutto illeso, mentre sette membri della sicurezza sono stati feriti. «Il codardo attacco terroristico che ha preso di mira la casa del primo ministro nel tentativo di ucciderlo è un serio attacco allo Stato iracheno [compiuto da] gruppi armati criminali», ha affermato l’ufficio di al-Kadhimi nelle ore successive all’evento. Nessun gruppo o milizia ha rivendicato l’attacco, ma secondo il premier iracheno i responsabili sono noti alle forze di sicurezza.

 

Come ha ricordato il Wall Street Journal, il tentato omicidio giunge al culmine della tensione che si è generata in Iraq in seguito alle elezioni parlamentari, nelle quali le milizie sciite filo-iraniane sono state pesantemente sconfitte. Per tutta risposta, le forze filo-iraniane hanno iniziato a manifestare contro presunti brogli elettorali, dando alle fiamme le immagini di al-Kadhimi e di altri ufficiali iracheni. La polizia e l’esercito iracheno hanno represso le manifestazioni sparando sulla folla e provocando almeno due morti, ciò che ha permesso a Qais al-Khazali, leader della milizia sciita filo iraniana Ahl al-Haq, di accusare ulteriormente il governo: «questo genere di risposta significa che [chi spara sui manifestanti] è responsabile della frode elettorale». Anche il leader della milizia Kataib Hezbollah si è detto estraneo all’attentato e ha dichiarato che nessuno in Iraq considera la casa del primo ministro un bersaglio valevole la perdita di un drone, sminuendo la figura di al-Kadhimi e lasciando così intendere che l’attacco sia una messinscena organizzata da chi detiene il potere per ottenere benevolenza.

 

Secondo Randa Salim (Middle East Institute), interpellata da al-Jazeera, «questo non è solo un attacco ad al-Kadhimi, ma a tutta la classe politica […] paragonabile a un tentativo di colpo di Stato». Le prove circostanziali, ha affermato Salim, puntano contro le milizie sponsorizzate da Teheran. I cui media, però, come ha spiegato al-Monitor, propagandano diverse – e più o meno fantasiose – versioni. L’attacco sarebbe stato effettuato per raggiungere tre possibili scenari: una guerra etnica e settaria tra curdi, sunniti e sciiti; una guerra tra le forze di sicurezza irachene e le milizie sciite filo-iraniane e, infine, per ottenere l’approvazione di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che accusi direttamente l’Iran di interferire negli affari interni iracheni.

In realtà, l’influenza iraniana nella regione sarebbe in declino, ha scritto Saeid Jafari in un’analisi pubblicata dall’Atlantic Council.

 

Tuttavia, a meno di 24 ore di distanza dall’attacco il comandante delle brigate Quds dei pasdaran iraniani, Esmail Qa’ani si è recato a Baghdad per incontrare personalmente al-Kadhimi ed esprimere – scrive Amwaj Media – la sua condanna dell’attentato. Ma soprattutto Qa’ani ha incontrato i leader dei gruppi armati affiliati all’Iran in Iraq. Secondo una fonte di Amwaj, Qa’ani ha comunicato ai leader delle milizie che «l’Iran non permetterà a nessuno di intendere il supporto iraniano come una “luce verde” per destabilizzare il governo iracheno». Se queste letture fossero confermate, sarebbe dimostrata una volta di più la tesi secondo cui l’Iran sostiene effettivamente le milizie sciite irachene, ma non ha un totale controllo sulle decisioni che esse prendono. Questo vale anche per le milizie stesse, spiega Stratfor, nelle quali la leadership non riesce a controllare direttamente le azioni dei membri ordinari. Anche Trita Parsi, vice presidente del Quincy Institute for Responsible Statecraft, ha dichiarato a TRT World che in questo caso un coordinamento tra milizie filo-iraniane e Teheran sia altamente improbabile, perché l’attentato ad al-Khadimi «mina completamente l’agenda iraniana in Iraq».

 

Ciò non toglie che l’Iran abbia delle responsabilità: secondo Barbara Slavin, interpellata da Giorgio Cafiero nello stesso articolo di TRT, le milizie sciite sono diventate più incoerenti e irresponsabili dalla morte di Qassem Soleimani, ma indipendentemente dal fatto che l’Iran fosse a conoscenza o meno dell’attentato ad al-Kadhimi, il regime degli ayatollah ha delle responsabilità in quanto è proprio Teheran a fornire i droni con cui l’attacco è stato compiuto. I droni infatti, ha scritto l’Economist, sono diventati l’arma preferita dall’Iran per le guerre asimmetriche, e la loro diffusione minaccia di cambiare l’equilibrio di potere nella regione. Per questo Ibrahim al-Marashi ha spiegato su Middle East Eye che «se il fucile di precisione o l’autobomba erano lo strumento della violenza politica del XX secolo, il drone è emerso come il loro equivalente digitale e post-moderno nel XXI secolo».

 

La crisi dei migranti in Polonia e Bielorussia ha radici mediorientali

 

In questi giorni si consuma una nuova crisi migratoria ai confini dell’Europa, tra Polonia e Bielorussia, con le forze dell’ordine polacche impegnate a impedire anche violentemente gli ingressi, e quelle bielorusse che invece “invitano” i migranti a entrare in Europa. La crisi è una conseguenza delle tensioni tra Unione europea da una parte e Bielorussia e Russia dall’altra, ma le sue radici sono da rintracciare in Medio Oriente. Come ha infatti evidenziato la BBC, i dati di Frontex indicano che i più frequenti Paesi di origine delle persone che hanno cercato di entrare in Europa dai confini orientali sono Iraq, Siria, Afghanistan, Turchia e Iran. Più nello specifico, spiegava già a fine ottobre il sito della  Deutsche Welle, i principali punti di partenza sono tre zone specifiche del Kurdistan iracheno: Erbil, Shiladze e Sulaymaniyah. Qui agenzie di viaggio private offrono pacchetti che includono il visto d’ingresso in Bielorussia, emesso anche dall’ambasciata ad Ankara, e il volo per Minsk con scalo a Istanbul o Dubai, a circa 3.000 dollari.

 

Per i migranti il rischio di subire violenze è elevato non soltanto al momento di passare il confine, ma già in Bielorussia, come ha raccontato un curdo iracheno al New York Times. Coloro che scelgono di partire sanno bene a cosa vanno incontro, eppure non desistono. Il motivo è presto detto: «la nostra vita è tremenda», ha affermato Himen Gabriel, un curdo di Erbil ad AFP, e nonostante i pericoli, la prospettiva di vivere una «vita tranquilla in Europa» è troppo attraente. Mettersi nei panni di Gabriel e provare a dargli torto…

 

Il coinvolgimento dei Paesi mediorientali non si ferma qui. In settimana infatti la Polonia ha accusato Ankara di essere impegnata, in combutta con Minsk e Mosca, a orchestrare la crisi migratoria, utilizzando la compagnia aerea di bandiera Turkish Airlines per trasportare i migranti in Bielorussia. La compagnia aerea ha naturalmente respinto ogni accusa. Ma il fatto, letto insieme ai numeri reali degli ingressi dal confine europeo orientale, mostra come la crisi sia anzitutto di natura politica, più che migratoria.

 

Il Qatar rappresenterà gli Stati Uniti nelle relazioni con i Talebani

 

La Federazione Internazionale della Croce e della Mezzaluna Rossa sta cercando in ogni modo di evitare l’aggravamento della crisi umanitaria in Afghanistan. Come si legge sul Financial Times, resta meno di un mese per provare a portare i beni necessari nelle regioni montagnose del Badakhshan e del Nuristan, prima che l’inverno renda estremamente difficoltoso il raggiungimento di queste aree. Il problema però è che finora l’organizzazione è riuscita a raccogliere solamente il 15% di quanto richiesto per il sostentamento della popolazione, a causa del blocco agli aiuti internazionali che si è verificato a partire dalla presa di potere dei Talebani.

 

Nessun Paese ha finora riconosciuto il governo dei Talebani, e Stati Uniti ed Unione Europea rifiutano di intrattenere relazioni dirette con il nuovo Emirato. Ma l’avvicinarsi dell’inverno e la conseguente necessità di intervenire per cercare di mitigare la crisi umanitaria pongono diversi interrogativi su come possa operare la comunità internazionale. Una novità in questo senso è giunta proprio questo pomeriggio: come riporta Reuters, è stato raggiunto un accordo tra Stati Uniti e Qatar per permettere a quest’ultimo di rappresentare gli interessi di Washington in Afghanistan. Secondo Karen DeYoung (Washington Post), l’accordo permetterà all’amministrazione Biden di interagire più facilmente con il governo ad interim talebano.

 

Mentre il Qatar prosegue dunque la sua opera di mediazione con i Talebani, gli Emirati Arabi Uniti questa settimana hanno accolto i piloti afghani disertori che in seguito alla conquista talebana erano riparati in Tajikistan, nonostante le richieste di rimpatrio avanzate dal nuovo governo di Kabul.

 

Una nuova conferenza internazionale sulla Libia

 

Si apre oggi a Parigi una nuova Conferenza Internazionale sulla Libia, convocata da Emmanuel Macron e co-presieduta da Italia e Germania. Come ha scritto Foreign Policy, ci si aspetta che la conferenza confermi il suo sostegno al processo che dovrà portare la Libia a nuove elezioni il 24 dicembre, nonostante sia tutt’altro che certo che le elezioni potranno svolgersi regolarmente. Tarek Magerisi, esperto di Libia allo European Council on Foreign Relations ha affermato che a questo processo elettorale manca anche il minimo livello di credibilità. 

 

Oltre a Italia, Francia e Germania, partecipano alla conferenza Stati Uniti, Tunisia, Egitto, Ciad, Niger, Russia, Israele, Grecia. L’assenza che più pesa però è quella della Turchia, che mantiene una presenza militare significativa in Libia e dunque è in grado di influenzare la situazione sul terreno. Ma Erdogan aveva dichiarato a margine del G20 di Roma che la Turchia non avrebbe partecipato vista la presenza di Grecia, Israele e Cipro. Anche per questo non sono alte le aspettative circa l’esito della conferenza.

 

Rassegna della stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

 

Il Grande Imam di al-Azhar contro la “nuova religione abramitica”: una critica implicita agli Accordi di Abramo?

 

In Egitto lunedì scorso il Grande Imam di al-Azhar, Ahmad al-Tayyeb, e il papa della Chiesa copta ortodossa, Tawadros II, hanno celebrato il decimo anniversario della fondazione della Casa della Famiglia egiziana. Questa istituzione era stata voluta dal precedente papa copto Shenouda III e da al-Azhar per prevenire i conflitti confessionali nel Paese, in seguito all’attentato avvenuto la notte di Capodanno 2011 contro la chiesa dei Santi ad Alessandria d’Egitto.

 

A suscitare l’attenzione dei media non è stato tanto l’evento in sé, quanto il discorso pronunciato dallo shaykh di al-Azhar davanti a una platea gremita di persone. Dopo aver spiegato che esiste una differenza sostanziale tra un atteggiamento di apertura reciproca tra religioni diverse e la rinuncia alle proprie specificità dottrinali in nome del dialogo interreligioso, l’imam al-Tayyeb ha messo in guardia dalla tentazione di creare una «religione abramitica», cioè un’unione sincretica di ebraismo, cristianesimo e islam  il cui comun denominatore dovrebbe essere la fede nel profeta Abramo. Secondo al-Tayyeb, quello che apparentemente è «un invito all’incontro e alla convivenza tra religioni e all’eliminazione dei motivi di conflitto, è in realtà un appello alla confisca di quanto di più prezioso l’umanità possiede: la libertà di credo, di fede e di scelta». Il rischio, ha inoltre spiegato il Grande Imam, è quello di creare «una religione che non ha colore, non ha sapore e non ha profumo».

 

Ermetico ma non troppo, il discorso dello shaykh si è subito trasformato in una questione politica. Nell’ultimo anno, infatti, in Medio Oriente dici Abramo e il pensiero va subito agli accordi con cui nell’autunno 2020, alcuni Paesi arabi, tra cui gli Emirati, hanno normalizzato i loro rapporti con Israele. Ed è proprio nell’ambito di quell’iniziativa politica, ha spiegato la BBC Arabic, che è nata l’idea di una «religione abramitica», che dovrebbe conservare gli elementi che accomunano le tre religioni abramitiche ed eliminare ciò che può generare conflitti tra i popoli. Ed è alla luce di questi sviluppi che molti hanno interpretato il richiamo del Grande Imam, il quale peraltro non ha mai commentato esplicitamente gli Accordi di Abramo.

 

Così, il quotidiano indipendente egiziano Ra’y al-youm si è chiesto se al-Tayyeb non si sia «infilato in un vespaio» parlando in questi termini, dal momento che le sue dichiarazioni potrebbero influire negativamente sul suo rapporto (attualmente buono) con gli Emirati.

 

Il sito d’informazione egiziano Masrāwī ha intervistato Bakr Zaki, professore di Religioni comparate all’Università di al-Azhar, che ha definito la “nuova religione” «un’innovazione», «una pretesa politica malevola che mira a dissolvere le religioni l’una nell’altra», «un’idea politica sotto copertura religiosa», «un invito a istituire un nuovo ordine mondiale» e infine un’idea nata con il supporto del «sionismo globale».

 

All’estero la notizia è stata ripresa dai media sensibili alle cause arabe, che nell’ultimo anno si sono opposti agli accordi di Abramo.

 

Il quotidiano londinese al-Quds al-‘Arabī si è limitato a riportare alcuni stralci del discorso del Grande Imam senza commentarli, mentre al-Jazeera ha pubblicato un lungo articolo secondo cui esisterebbe una strategia internazionale portata avanti dagli Emirati e da Israele (quest’ultimo mai chiamato per nome, ma «entità sionista») per normalizzare l’occupazione israeliana dei territori arabi. Secondo il politologo Essam Abdel Shafi, «collegare gli accordi di Abramo alla cosiddetta religione abramitica è un inganno politico, volto a dare un certo grado di legittimità a questo accordo, che si basa in sostanza sulla normalizzazione e sull’accettazione dell’occupazione sionista delle terre arabe». Questa strategia, ha scritto, è «la punta di diamante del regime emiratino e dell’entità sionista», che vogliono «cancellare l’identità islamica, distorcerne i valori e i principi ed emarginare il ruolo dei movimenti e delle correnti islamiste».

 

Emirati e Israele insieme verso la luna

 

Sul fronte emiratino, per il momento, tutto tace. Anche perché gli Emirati questa settimana sono stati impegnati in molto altro. Mercoledì hanno firmato con Israele un accordo di cooperazione spaziale che prevede anche una missione spaziale congiunta sulla luna. Al-Jazeera ha commentato questo accordo in maniera provocatoria parlando di «normalizzazione sulla superficie lunare».

 

Oltre alla luna, gli Emirati puntano anche alla mezzaluna fertile. Da tempo infatti si parla del tentativo degli Emirati di riportare la Siria nella sfera d’influenza araba, sottraendola all’Iran. Questa settimana il ministro degli Esteri emiratino ha incontrato a Damasco il presidente siriano Bashar al-Asad, alle prese con una vertiginosa crisi economica tutto sommato funzionale ai piani di Abu Dhabi. Il quotidiano Al-‘ayn al-Ikhbāriyya ha celebrato con toni piuttosto propagandistici «la profonda visione strategica» degli Emirati, che offrono il loro sostegno politico, economico e sanitario a Damasco in cambio «del suo ritorno nelle fila arabe».

 

In breve

 

La coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita che combatte i ribelli houthi in Yemen ha smentito la notizia del ritiro delle truppe dal Paese (al-Monitor)

 

In Sudan, il generale ‘Abdel Fattah al-Burhan, fautore del recente colpo di Stato, ha annunciato che non prenderà parte al governo post-transizione (al-Jazeera)

 

I Talebani sono sempre più in difficoltà: lo Stato Islamico continua a reclutare militanti, mentre il Pakistan sostiene altri piccoli gruppi jihadisti locali con l’obbiettivo di indebolire il governo talebano e mantenere la sua influenza sul Paese (Foreign Policy)

 

 

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