Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:37:38

Ora è ufficiale: tra il 13 e il 16 luglio Joe Biden si recherà in visita in Medio Oriente. Dopo la tappa in Israele e Palestina, il presidente americano incontrerà a Gedda il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, i leader dei Paesi del Gulf Cooperation Council, e quelli di Egitto, Iraq e Giordania. Gli obiettivi del viaggio presidenziale sono molteplici: il primo, più scontato, riguarda la richiesta avanzata ai Paesi produttori di aumentare l’estrazione di petrolio per mitigare gli effetti della guerra in Ucraina sui prezzi. Come ha però ricordato lo stesso presidente, in ballo ci sono «questioni molto più ampie», che riguardano soprattutto, per citare un altro esponente dell’amministrazione Biden, «l’espansione dell’integrazione di Israele nella regione». La lettura ufficiale del governo saudita è che l’incontro fornirà la possibilità ai due leader di aumentare la «cooperazione tra due nazioni amiche e di discutere le modalità per affrontare le sfide della regione e del mondo». Tuttavia, alle leadership arabe non bastano le rassicurazioni verbali da parte americana circa la difesa delle monarchie del Golfo dalle attività ostili iraniane. Al contrario, le capitali arabe del Golfo «vogliono una partnership securitaria formale e istituzionalizzata con gli Stati Uniti». E forse, ha twittato l’influente professore emiratino Abdulkhaleq Abdulla, gli Emirati sono in procinto di ottenere ciò che desiderano con la firma di un accordo tra Abu Dhabi e Washington che metterebbe nero su bianco l’impegno statunitense a garantire la sicurezza emiratina. Al momento non è chiaro quali siano i contenuti dell’eventuale accordo.

 

Nelle sue relazioni con i Paesi del Golfo, Washington si trova a fare i conti con «una generazione di leader molto più assertiva e sicura di sé, che bilancia le proprie relazioni [con altri Paesi] per essere più indipendente dagli Stati Uniti», ha commentato il Financial Times. Da un lato, quindi, il duo MbS-MbZ vuole essere libero di intrattenere rapporti cordiali con Paesi come Cina e Russia, ma dall’altro richiede (esige?) che gli Stati Uniti mantengano invariato il loro storico impegno a garanzia della sicurezza delle petromonarchie. Il Congresso americano sembrerebbe andare in questa direzione: una proposta di legge bipartisan presentata la settimana scorsa obbligherebbe il Pentagono a elaborare una strategia per favorire la cooperazione e l’integrazione dei sistemi di difesa tra Israele, le monarchie del Golfo, l’Egitto, l’Iraq e la Giordania. Qual è l’obiettivo della cooperazione e dell’integrazione dei sistemi di difesa? Secondo la bozza visionata dal Wall Street Journal, difendere lo Stato ebraico e i Paesi arabi «da missili da crociera e balistici, da sistemi aerei pilotati e non, e da attacchi con razzi dall’Iran». L’idea vede favorevole il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz che, come riportato da Reuters, ha affermato che «considerata l’aggressione iraniana, è necessaria non solo la cooperazione, ma una crescita della forza regionale sotto la leadership americana».

 

La scelta di incontrare Muhammad bin Salman non è priva di costi politici per Joe Biden. Le critiche a Biden sono incominciate ancora prima che il viaggio venisse ufficializzato e sono arrivate tanto da attivisti per i diritti umani quanto da alcuni alleati democratici del presidente. I principali rimproveri avanzati all’inquilino della Casa Bianca riguardano la conduzione della guerra in Yemen e il fatto che MbS è il responsabile dell’omicidio di Jamal Khashoggi, aspetto evidenziato dallo stesso presidente americano sia in occasione della campagna elettorale che ha portato alla sua elezione, sia quando ha scelto di pubblicare un report della CIA che confermava le colpe del principe saudita. Dopo essersi voluto accreditare come un “campione” dei diritti umani, Biden è costretto a scendere a patti con MbS e rimangiarsi la promessa di rendere l’Arabia Saudita un paria della comunità internazionale. Il suggerimento su come uscire dall’impasse arriva da un editoriale di Janan Ganesh sul Financial Times: Biden fa bene ad andare in Arabia Saudita perché è controproducente, si legge, definire la fase storica che stiamo vivendo come uno scontro tra democrazie e autocrazie (proprio come fatto dallo stesso presidente durante l’ultimo State of the Union). Così facendo, infatti, troppi Stati rientrerebbero nel novero delle autocrazie. Questa narrazione andrebbe perciò abbandonata, dal momento che è impossibile per un uomo di governo agire all’altezza delle aspettative (come per Biden si sta rivelando impossibile mantenere la parola data sull’Arabia Saudita), e sostituita con definizioni più precise dei nemici/avversari. Negli attacchi rivolti a Riyad, Joe Biden e il suo team non hanno considerato un fatto cruciale, ha commentato Steven Cook: l’Arabia Saudita era e rimane un attore fondamentale a livello regionale e globale». Per questo «Biden potrebbe essere stato sincero nel suo desiderio di incorporare [alcuni] valori nella sua politica estera, ma la conclusione è che c’è poco che possa fare per costringere i regimi autoritari […] a rispettare i diritti umani, soprattutto quando questi regimi siedono su un mare di petrolio», ha chiosato Cook.

 

L’amministrazione americana cerca di smarcarsi dalle critiche sottolineando che sebbene fosse intenzione della Casa Bianca a guida democratica «ricalibrare le relazioni», non è suo interesse quello di romperle, perché «l’Arabia Saudita è un partner strategico degli Stati Uniti da ottant’anni [con cui] condividiamo una serie di interessi». Uno sembra preoccupare particolarmente Biden: il prezzo della benzina ha raggiunto livelli elevati anche negli Stati Uniti e questo potrebbe essere un problema in vista delle elezioni di midterm programmate a novembre. Ma se è chiaro che Biden ha bisogno dell’Arabia Saudita, in fondo è meno chiaro, al netto delle assicurazioni securitarie, cosa Riyad possa volere dagli Stati Uniti, ha scritto Colm Quinn su Foreign Policy: se i sondaggi sono corretti, infatti, MbS potrebbe semplicemente attendere che Joe Biden ceda il posto alla Casa Bianca al prossimo presidente, mentre beneficia degli alti prezzi del petrolio che riempiono le casse saudite.

 

Resta, un dilemma irrisolto per l’Occidente, come sottolineato dal board del Financial Times: che sia Putin o MbS, Stati Uniti e soprattutto Europa si affidano agli autocrati per i loro approvvigionamenti. E, aggiungiamo, in caso di massiccio utilizzo dell’energia solare, la dipendenza sarà dalla Cina.

 

L’Iran spegne le telecamere dell’IAEA

 

Avevamo già parlato di come il ritrovamento di tracce di uranio in tre siti iraniani non dichiarati ponesse nuovi dubbi sulla buonafede di Teheran nelle trattative per il ristabilimento dell’Accordo sul nucleare siglato nel 2015. Ora l’Iran ha rimosso ventisette telecamere utilizzare dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) per monitorare le attività nei siti nucleari iraniani. Sebbene restino in funzione circa 40 telecamere, dedicate principalmente al monitoraggio del materiale nucleare, il Wall Street Journal ha titolato dicendo che questo potrebbe essere un «colpo fatale» alle speranze di esito positivo dei negoziati. Il presidente della Repubblica Ebrahim Raisi, che fa i conti con diverse fazioni del conservatorismo iraniano divise tra favorevoli e contrari a un accordo, non sembra particolarmente preoccupato: l’Iran non arretrerà, ha detto. Mentre il segretario di Stato americano Antony Blinken ha definito le mosse iraniane «controproducenti», Rafael Mariano Grossi, direttore dell’IAEA, ha detto che con le sue azioni Teheran «pone una seria sfida alla nostra capacità di continuare a lavorare [in Iran] e di confermare la correttezza delle dichiarazioni iraniane». Se è vero, come dichiarato da un funzionario americano interpellato dal Financial Times, che la decisione iraniana di rimuovere le telecamere non pone la parola fine sui negoziati, perché è facilmente reversibile, è altrettanto vero che più a lungo le telecamere rimangono spente, più sarà difficile ristabilire la necessaria fiducia tra le parti.

 

Ma soprattutto, il timore è che l’Iran sia sempre più vicino a livelli di arricchimento dell’uranio necessari per produrre un’arma atomica, sebbene, come ricordato dal Financial Times, Teheran continui a dichiarare che il suo programma nucleare è esclusivamente finalizzato a scopi civili (potrebbe fare diversamente?). Al di là che Teheran abbia o meno l’uranio necessario, il punto è che oggi la Repubblica Islamica detiene la capacità di produrlo, ciò che ha portato Ali Vaez (Crisis Group) ad affermare che siamo all’inizio di un ciclo di escalation. Al momento l’unica speranza per un esito positivo dell’accordo si basa su ciò che ha affermato la ricercatrice di Chatham House Sanam Vakil: non c’è un piano B che si possa dimostrare più efficace dell’accordo del 2015 nell’impedire a Teheran di dotarsi di un’arma atomica. Ma per spingere le parti a fare l’ultimo passo verso l’accordo forse serve qualcosa di più.


Intanto a margine delle attività diplomatiche, gli attori regionali portano avanti diverse operazioni militari, para-militari e politiche per rafforzare la propria posizione. Vediamo brevemente di cosa si tratta, cominciando da quanto avviene in Iran. Farnaz Fassihi e Ronen Bergman hanno raccontato sul New York Times di quella che potrebbe essere un’altra operazione dell’intelligence israeliana in Iran: a maggio due scienziati iraniani, giovani e in ottima salute, si sono improvvisamente ammalati e sono infine deceduti in seguito a quello che le autorità della Repubblica Islamica ritengono un avvelenamento. In ogni caso, secondo quanto scritto da Fardin Eftekhari dell’Università di Teheran su Middle East Eye, le strategie iraniane si basano su un network capillare di distribuzione del sapere, ciò che rende poco efficaci le operazioni israeliane. Tuttavia, lo Stato ebraico non colpisce soltanto in Iran, anzi. Recentemente l’aviazione israeliana ha bombardato l’aeroporto di Damasco e nonostante gli attacchi in Siria siano ormai quasi una consuetudine, è la prima volta che i danni provocati costringono il regime di Bashar Assad a chiudere il suo principale scalo. Ultimo, non per importanza, segnaliamo la visita a sorpresa di Naftali Bennett negli Emirati Arabi Uniti, la seconda da quando le relazioni tra i due Paesi sono state normalizzate, per «discutere di varie questioni regionali».

 

L’Iran, comunque, non sta a guardare. Mentre il ministro degli Esteri iracheno Fuad Hussein ha criticato le «interferenze» iraniane in Iraq, i ministri del turismo dei due Paesi hanno firmato un accordo per favorire il turismo tra Baghdad e Teheran, in particolare attraverso progetti specifici di turismo religioso. Come non bastasse, proprio mentre le monarchie del Golfo strizzano l’occhio a Israele, il parlamento iracheno ha stabilito che a nessun cittadino è permesso contattare sui social network un funzionario israeliano, partecipare a eventi organizzati dallo Stato ebraico o anche soltanto genericamente “legati” a esso, e mettere piede in un’ambasciata israeliana in qualsiasi parte del mondo.

 

“È solo un arrivederci”. La (temporanea) uscita di scena di Muqtada al-Sadr in Iraq

A cura di Mauro Primavera

 

Domenica 12 giugno Muqtada al-Sadr, chierico sciita iracheno e fondatore del Movimento sadrista, ha annunciato le dimissioni dei suoi 73 deputati, che rappresentano la compagine più numerosa della Camera. Per comprendere questa mossa occorre tornare alle elezioni parlamentari dello scorso ottobre, vinte proprio dal Movimento con solo il 10% delle preferenze. Risultato piuttosto basso per una forza di maggioranza, ma che è il frutto della nuova legge elettorale basata sul voto singolo non trasferibile – correttivo che ha favorito la dispersione delle preferenze tra le numerose formazioni e tra i candidati indipendenti – e dello scenario politico estremamente frammentato e screditato dall’opinione pubblica. Proprio l’astensionismo record è stata l’altra caratteristica della tornata, con il 41% degli aventi diritto che non si sono recati alle urne. I sadristi, malgrado la posizione di forza in Aula, non sono riusciti a trovare un accordo con le altre forze per la formazione dell’esecutivo. La decisione di ritirare i membri è stata, quindi, un “sacrificio”, come l’ha definita il capo della delegazione partitica Ahmad al-Mutairi, per cercare di uscire da una ’impasse istituzionale che, a questo punto, potrebbe risolversi con un nuovo appuntamento elettorale.

 

La stampa internazionale si è pronunciata al riguardo in maniera piuttosto severa: Reuters definisce al-Sadr uno scaltro e volubile populista che si cala nelle vesti del difensore della patria, opponendosi sia all’ingerenza statunitense sia a quella iraniana. Atteggiamento sovranista che gli ha garantito nel tempo ampi consensi tra la popolazione ed è risultato funzionale al contenimento della formazione sciita rivale e pro-iraniana, il Quadro di Coordinamento (noto a livello internazionale come Coordination Framework) colta di sorpresa dal coup de théâtre: «non è chiaro che cosa stia cercando di ottenere al-Sadr questa volta. Non abbiamo idea di quale sarà la sua prossima mossa e, pertanto, nemmeno noi sappiamo che cosa fare», ha confessato il gruppo a Middle East Eye.  

 

Gli analisti hanno delineato alcune possibili conseguenze della strategia del leader, che apparentemente risulta vincente in qualsiasi scenario, con o senza nuove elezioni. In effetti, il voto riassegnerebbe senza dubbio la vittoria ad al-Sadr, ma con quali percentuali è difficile dirlo, anche perché alcuni iracheni ritengono che lo stesso leader sia parte del problema, in quanto incapace di scendere a patti con i suoi avversari. Per Abbas Kadhim, direttore dell’Atlantic Council’s Iraq Initiative, non importa quante volte le elezioni verranno ripetute perché il problema si trova a monte, nella Carta costituzionale e nella concezione settaria del potere.

 

Se, invece, non verranno convocate nuove elezioni, al-Sadr manterrà comunque un ruolo di primo piano sia dentro il Parlamento che fuori. I seggi vacanti dovrebbero essere assegnati sulla base degli ultimi risultati elettorali, come nota il New York Times, probabilmente a personalità sciite del Quadro di Coordinamento, nel rispetto degli attuali equilibri etno-confessionali; anche così, però, non è detto che la coalizione riesca a formare un governo di unità nazionale con gli esponenti di fede sunnita e di etnia curda. Per Sajad Jiyad, membro della The Century Foundation intervistato da Le Monde, l’eventuale passaggio dei sadristi all’opposizione metterebbe ancora più sotto pressione la classe dirigente e, al contempo, permetterebbe di capitalizzare il consenso dei cittadini delusi dal fallimento della politica e delle istituzioni.  

 

Su un punto tutte le analisi convergono: quella di al-Sadr è una finta ritirata, una mossa a effetto per aumentare il suo potere contrattuale in una situazione sociale, economico e politico sempre più disfunzionale e deteriorata.

 

Rassegna della stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

Il sistema politico iracheno affonda, al-Sadr abbandona la nave

 

In Iraq i colpi di scena sembrano non finire mai. Domenica scorsa, il chierico sciita Muqtada al-Sadr ha fatto dimettere in massa i suoi 73 deputati. Secondo alcuni circoli sadristi, «al-Sadr ha abbandonato la nave del sistema politico prima che questa affondasse», come hanno dichiarato al quotidiano iracheno al-Madā.

La mossa non è piaciuta a tutti. Il giornalista iracheno Farouk Yousif ha espresso tutto il suo disprezzo per al-Sadr in un editoriale pubblicato sul quotidiano londinese al-‘Arab, che ha titolato in maniera sarcastica “L’Iraq di Muqtada è il Paese delle meraviglie”, sottolineando come «ciò che avviene in Iraq non avviene in nessun altro luogo sulla faccia della terra». «Al-Sadr – ha scritto Yousif – appartiene a una classe partitica che ha mescolato religione e politica, perdendo la peculiarità di entrambe e distruggendone tutte le componenti oneste attraverso una corruzione che non conosce precedenti nella storia umana». Il suo atteggiamento ricorda quello «di chi ha ottenuto un grande riconoscimento, ma ha deciso di saltare dal finestrino del treno in corsa».

 

Il timore, espresso da alcuni giornali iracheni, tra cui anche Sawt al-‘Irāq è che al-Sadr voglia portare le proteste in piazza. Lo stesso quotidiano ha scritto che Hadi al-Amiri – segretario generale dell’organizzazione politica sciita Badr e leader di al-Fatah, la coalizione politica nata in segno di protesta contro le elezioni del 2018 – ha lanciato un appello all’Ayatollah Sistani, invitandolo a intervenire per «salvare la situazione e riportare la vita al suo corso naturale». Come spiega il sito d’informazione Nās, l’appello è stato lanciato lunedì, in occasione dell’ottavo anniversario della fatwa con cui Sistani, nel 2014, aveva dichiarato il jihad per difendere il Paese dai miliziani dell’ISIS. Al-Amiri riconosce all’Ayatollah il merito di aver salvato il Paese già una volta, e ha definito la fatwa «una necessità storica che ha compiuto molti miracoli e ha portato alla nascita e allo sviluppo della mobilitazione popolare benedetta». Il portavoce dell’Ayatollah ha risposto in occasione del sesto Festival culturale della difesa sacra (16 giugno) dicendo che «l’Iraq non è un Paese facile e che la fatwa emessa dal riferimento religioso supremo [Sistani] ha fermato le bande dell’ISIS», lasciando intendere che l’Ayatollah potrebbe decidere di intervenire ancora una volta.

 

Le vicende irachene hanno fornito ancora una volta l’occasione per un parallelo tra la conduzione degli affari politici in Iraq e in Libano. Il giornalista libanese Khairallah Khairallah rivede nell’Iraq le sfortune del Libano, due Paesi ostaggio dell’Iran – li ha definiti –, in cui le armi sono più forti delle elezioni e in cui non può esistere una vita politica. «L’Iraq – ha scritto – continua a essere ostaggio dell’Iran. […] Altro non è che una carta nei negoziati irano-americani attraverso i quali la Repubblica islamica mira a raggiungere un accordo con il “grande Satana” americano, un accordo che le garantisca di giocare un ruolo di forza nell’intera regione e perseguire il suo progetto di espansione». Secondo Khairallah, in Iraq la situazione di stallo politico è destinata a persistere vista l’impossibilità di raggiungere un accordo tra USA e Iran a causa dell’opposizione del Congresso e dei Paesi della regione. Secondo Khairallah, in Iraq i sadristi volevano costituire un’alleanza con una parte dei sunniti e una parte di curdi rappresentata da Massoud Barzani, ma questo non è piaciuto all’Iran, che temeva la formazione di un governo autonomo dall’influenza iraniana. Per questa ragione, Muqtada al-Sadr sarebbe stato costretto a rassegnare le dimissioni e ora il suo obbiettivo sarebbe quello di «mettere fine alla commedia delle armi che controllano le elezioni in Iraq».  

 

Biden a Gedda: una vittoria per MbS

 

Un’altra notizia importante per il mondo arabo è la visita di Biden in Arabia Saudita prevista per metà luglio prossimo (nella stessa occasione il presidente americano visiterà anche i territori palestinesi e Israele).

Per i sauditi «la visita di Biden è una vittoria del principe Muhammad bin Salman», come ha titolato al-‘Arab. I circoli politici vicini a MbS vedono infatti in questo passo «un successo per la leadership del loro Paese, che spezza l’“arroganza” americana e conferma la posizione del Regno sulla scena internazionale». L’editoriale, che strizza l’occhio ai sauditi, prosegue elencando la serie di “sgarbi” commessi in passato dall’amministrazione Biden nei confronti di Riyad, tra cui l’accusa a MbS di essere il mandante dell’omicidio di Jamal Khashoggi – il giornalista saudita ucciso nel 2018 all’interno del consolato saudita ad Istanbul –, la rimozione dei ribelli yemeniti houthi dalla lista delle organizzazioni terroristiche, l’annullamento degli accordi sulla vendita di armi firmati dal Regno con l’amministrazione Trump e la ripresa dei negoziati sul programma nucleare iraniano.

 

L’opinione dei circoli politici sauditi è stata ben sintetizzata anche dal principe Turki al-Faisal – ex capo dell’intelligence saudita e in precedenza ambasciatore dell’Arabia Saudita nel Regno Unito e poi negli Stati Uniti – secondo il quale «è il deterioramento della popolarità di Biden a portarlo qui da noi».  

Grande entusiasmo per la visita anche nelle parole del diplomatico saudita Naif bin Bandar al-Sudairi, che su al-Sharq al-Awsat ha elogiato i successi di MbS «la cui visione politica ha abbagliato il mondo». Al principe ereditario viene riconosciuto il merito di aver «difeso i principi islamici tolleranti, che sarebbero diventati la pietra d’angolo della politica estera del Regno». Questa visita, ha concluso il diplomatico, «cambierà molti tratti del mondo, soprattutto in Medio Oriente; renderà i fuorilegge più disciplinati e gli avventurieri meno avventati».

 

Al-Riyādh, uno dei maggiori quotidiani sauditi, ha titolato “Riyad e Washington: la partnership rinnovata” e ha accompagnato l’articolo con un fotomontaggio che ritrae MbS intento a guardare compiaciuto Biden il quale, invece, tiene lo sguardo rivolto verso il basso. L’editoriale inizia con una frase ad effetto, «il mese prossimo la bussola del mondo si orienterà nuovamente verso l’Arabia Saudita», come a voler dire che, dopo mesi trascorsi nella penombra, il Regno si riappropria del ruolo che gli spetta di diritto. Questa visita, scrive Fahim al-Hamid, «si rifletterà positivamente sul rafforzamento delle relazioni bilaterali storiche, della partnership strategica speciale tra Riyad e Washington» e consentirà di «elaborare visioni comuni sulla sicurezza e sulla pace, sulla necessità di respingere le interferenze negli affari interni e […] di frenare il pensiero terroristico», cioè quello iraniano, come spiega qualche riga dopo l’editorialista.

 

Il quotidiano emiratino al-‘Ayn al-Ikhbāriyya ha commentato in particolare la partecipazione di Biden, durante il viaggio in Arabia Saudita, al vertice convocato da Re Salman che riunirà il Consiglio di Cooperazione del Golfo oltre all’Egitto, l’Iraq e la Giordania. «L’interdipendenza araba, scrive Ghadir al-Tayyar, continua a essere un filo di coesione, sostenuto dal Regno e dai Paesi della regione, ed è un onore per gli arabi riunirsi, tutti o alcuni, in terra saudita».

 

La visita di Biden in Arabia Saudita è carica di implicazioni geopolitiche per i Paesi del Golfo e il vicino Iran, e ha aperto anche la riflessione sul probabile fallimento dei negoziati sul nucleare.

 

Accordo nucleare verso il naufragio

 

Secondo Marwan Qabalan di al-‘Arabī al-Jadīd, l’Iran ha sbagliato i calcoli.  «L’accordo nucleare – ha scritto – è stato vittima di errori di calcolo legati alle ripercussioni della guerra in Ucraina». L’Iran ha pensato di sfruttare a proprio vantaggio il conflitto, ma ha finito per «aprire la porta a una grande escalation nella regione, che potrebbe essere la più pericolosa dall’invasione dell’Iraq nel 2003». Ma come si è arrivati a questo punto? Tutto si è giocato intorno al petrolio, secondo il ricercatore siriano. Fallite le pressioni americane sui Paesi del Golfo per aumentare la produzione di greggio, Biden ha rivolto l’attenzione al mercato petrolifero venezuelano, ma i negoziati con il regime di Maduro sono andati a rilento. In questa situazione di incertezza, l’Iran ha pensato di poter imporre le sue condizioni a Washington chiedendo la revoca di tutte le sanzioni, comprese quelle non legate al programma nucleare, e la rimozione delle Guardie della Rivoluzione dalla lista delle organizzazioni terroristiche. Ma a rompere le uova nel paniere iraniano sono state, secondo Qabalan, le elezioni americane di metà mandato (e la consapevolezza di Biden che la sua amministrazione non avrebbe mai accettato le condizioni iraniane), la recente decisione dell’Arabia Saudita di aumentare la produzione di petrolio da luglio, e la visita del presidente americano a Riyad, che «apre una nuova pagina nelle relazioni tra i due Paesi» a scapito del vicino iraniano.

 

In sostanza, l’accordo nucleare sembra destinato a naufragare, come nella vignetta pubblicata da al-Sharq al-Awsat, quotidiano di proprietà della famiglia reale saudita: un galeone pirata iraniano, con le vele a brandelli sulle quali è inciso il testo dell’accordo nucleare, solca i mari con i missili che spuntano da entrambi i fianchi.

 

Il quotidiano londinese al-Quds al-‘Arabī ha commentato il crescente stato di tensione tra l’Iran e Israele causato dai frequenti attacchi israeliani contro obiettivi iraniani in Siria (l’episodio più recente è il bombardamento dell’aeroporto di Damasco), a cui l’Iran risponde il più delle volte con minacce e intimidazioni verbali. «Questa equazione non rende un servizio al popolo iraniano né ai popoli della regione, ma rende i migliori servizi al Paese occupante», conclude l’editoriale che, tra i due Paesi litiganti, guarda con maggiore simpatia all’Iran.

 

Di parere diverso è invece il politologo emiratino Abdulkhaleq Abdulla, che questa settimana è tornato a suscitare polemiche sulle piattaforme social, come ha spiegato al-Jazeera. La pietra dello scandalo è precisamente un Tweet pubblicato sul suo account personale: «Radar israeliani per proteggere i Paesi del Golfo dai missili iraniani. La colpa è dell’Iran, che spinge i Paese arabi del Golfo in questa direzione». Il Tweet incriminato ha suscitato oltre 500 commenti, molti dei quali contrari all’acquisto di tecnologie difensive israeliane, se non altro perché gli Emirati sono più ricchi di Israele e avrebbero il know-how per produrre da soli le loro soluzioni tecnologiche. 

 

In breve

 

Continuano gli investimenti sauditi nel mondo dello sport: questa volta il fondo sovrano saudita ha creato un circuito golfistico parallelo al PGA e si è assicurato la partecipazione della star Phil Mickelson. L’investimento dovrebbe aggirarsi sui 2 miliardi di euro (Financial Times).

 

Un nuovo attentato jihadista in Burkina Faso ha provocato almeno 55 morti (The Guardian).

 

Il principe ereditario saudita, Muhammad bin Salman, incontrerà Erdogan in Turchia il prossimo 22 giugno, nella prima visita ufficiale dopo l’omicidio di Jamal Khashoggi (The New Arab)

 

Sudan: un terzo della popolazione ridotto la fame. Cresce il rischio di nuovi conflitti e migrazioni (al-Jazeera)

 

Al-Azhar invita a boicottare la Walt Disney, che introduce personaggi omosessuali nelle sue produzioni per bambini (al-Monitor)

 

Il sindacato tunisino UGTT ha svolto ieri uno sciopero generale per protestare contro le politiche economiche del governo (Al-Jazeera).

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Oasiscenter
Abbiamo bisogno di te

Dal 2004 lavoriamo per favorire la conoscenza reciproca tra cristiani e musulmani e studiamo il modo in cui essi vivono e interpretano le grandi sfide del mondo contemporaneo.

Chiediamo il contributo di chi, come te, ha a cuore la nostra missione, condivide i nostri valori e cerca approfondimenti seri ma accessibili sul mondo islamico e sui suoi rapporti con l’Occidente.

Il tuo aiuto è prezioso per garantire la continuità, la qualità e l’indipendenza del nostro lavoro. Grazie!

sostienici

Tags