Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba
Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 14:43:31
Martedì la commissione elettorale algerina ha annunciato i risultati delle elezioni legislative del 12 giugno. Il nuovo parlamento sarà composto da 105 parlamentari del Fronte di liberazione nazionale (FLN), 78 indipendenti, molto eterogenei tra di loro e la cui presenza è una novità valutata positivamente dalla retorica del regime, e 64 islamisti. 57 seggi saranno invece occupati dal Rassemblement Nationale Démocratique (RND). Stando a quanto scrive il quotidiano algerino El Watan saranno proprio RND e FLN, i partiti tradizionali del sistema di potere in Algeria durante l’era Bouteflika, a dominare il parlamento, che soffrirà però di un deficit di legittimità a causa della scarsissima affluenza. Secondo Le Monde, è proprio la vittoria di queste formazioni, a essere «imbarazzante per un potere che vuole proiettare [verso l’esterno] l’immagine di un’“Algeria nuova”». La vittoria dell’FNL è stata resa possibile anche dalla campagna di astensione promossa dal movimento antisistema dell’Hirak che ha fatto crollare l’affluenza al 23%, dato più basso di tutta la storia algerina). Inoltre, secondo Rachid Ouaïssa, politologa dell’Università di Marburgo, in Germania), un parlamento così diviso lo rende fragile nei confronti del governo. La conclusione di Le Monde è che la scarsa partecipazione elettorale metta in risalto due ulteriori fratture: la prima in Cabilia, regione storicamente ribelle, dove l’affluenza è stata inferiore all’1%, e la seconda tra gli algerini all’estero, tra i quali solo il 4,6% ha partecipato al voto.
Il capo di Stato algerino, Abdelmajid Tebboune, non si è però detto preoccupato da questi dati: «ho già dichiarato che il tasso di partecipazione [alle elezioni] non mi interessa. Ciò che mi interessa è che chi vince abbia la legittimità popolare che gli consentirà, domani, di esercitare il potere legislativo», riporta Jeune Afrique.
Nel frattempo però la situazione economica del Paese è disastrosa. Il coronavirus ha esacerbato i problemi dovuti a un’economia dominata dal ruolo dello Stato, segnata da anni di ribassi nei prezzi petroliferi (Algeri avrebbe bisogno di un prezzo del petrolio intorno ai 170 dollari al barile) e dalla diminuzione degli investimenti esteri. L’economia non è diversificata, basandosi quasi esclusivamente sull’esportazione di petrolio e gas, le riserve di valuta straniera sono passate da 200 miliardi nel 2014 ai 47 del 2020: secondo il Financial Times il Paese rischia il disastro totale. Riccardo Fabiani, interpellato dal quotidiano britannico, sostiene che il Paese soffre una crisi di liquidità sia a livello delle banche che delle imprese locali, anche perché nel settore edilizio, il più ampio del Paese dopo quello degli idrocarburi, si è verificato un numero record di bancherotte.
Servirebbero profonde riforme, ma con una situazione politica come quella delineata dalle ultime elezioni è difficile immaginare qualcosa di differente dalla prosecuzione dello status quo.
Le elezioni in Iran
Oggi, dalle 7 ora locale, sono aperti i seggi in Iran per scegliere il successore di Hassan Rouhani alla Presidenza della Repubblica. Sarà eletto il candidato che raggiungerà il 50% +1 dei voti espressi. Se nessuno dei candidati otterrà la maggioranza assoluta, si procederà ad un ballottaggio tra i due candidati che hanno ottenuto la maggioranza relativa.
Nei giorni immediatamente precedenti alle operazioni di voto, tre dei sette candidati ammessi dopo le squalifiche operate dal Consiglio dei Guardiani hanno ritirato la loro candidatura (il riformista Mohsen Mehralizadeh e i conservatori Alireza Zakani e Saeed Jalili). Restano dunque in corsa quattro candidati, ma il potente capo del sistema giudiziario, Ebrahim Raisi, è da tutti considerato il grande favorito nella gara contro l’unico moderato rimasto in corsa, l’ex banchiere centrale Abdolnaser Hemmati. Nelle precedenti elezioni le sorprese alle urne non sono mancate, come in occasione della prima vittoria di Rouhani, ma questa volta sembra che tutto sia stato “apparecchiato” perfettamente per favorire Raisi.
Tra i fattori che dovrebbero concorrere a questo risultato, i più evidenziati sono l’affluenza – unanimemente prevista molto bassa – e i fallimenti dell’amministrazione Rouhani, che si era presentata con ambizioni molto elevate, basate soprattutto su un nuovo modello di relazioni con l’Occidente. Ma se la firma dell’accordo sul nucleare del 2015 e la parziale rimozione delle sanzioni aveva fatto ben sperare gli iraniani, il ritiro unilaterale degli Stati Uniti deciso da Donald Trump ha rovinato i piani del duo Rouhani-Zarif.
Un approfondimento del Financial Times elenca gli ambiti in cui il governo uscente non è riuscito a mantenere le promesse: dalle esportazioni petrolifere al crollo del PIL, passando per la disoccupazione, l’inflazione e la svalutazione della valuta locale. Non è un caso, ha scritto Bijan Khajehpour su Al-Monitor, che durante la campagna elettorale tutti i candidati abbiano fatto grandi proclami riguardo all’economia iraniana. Il problema è che il presidente della Repubblica non ha realmente il potere di mettere in atto i cambiamenti strutturali che sarebbero necessari, conclude Khajehpour.
Veniamo all’affluenza. Già negli scorsi appuntamenti di questa newsletter avevamo detto quanto il regime la ritenga un indicatore importante per mostrare la legittimità del sistema rivoluzionario. Anche quest’anno Khamenei si è speso per invitare gli iraniani a votare, ma qualcosa sembra essere cambiato nella percezione della partecipazione alle operazioni di voto se si considera l’imponenza delle squalifiche operate dal Consiglio dei Guardiani. Un sondaggio condotto dalla Iranian Students Polling Agency prevede un’affluenza del 42%, contro il 73% delle elezioni del 2017. Il sentimento di molti elettori è sintetizzato dalla risposta data da un iraniano di Isfahan: «ci offrono cinque banane, dicendo “scegliete la frutta che volete”. Ma come possiamo scegliere un’arancia tra cinque banane?».
Ma quanto è veramente significativa la partecipazione alle elezioni in Iran? Awaj.media lo ha chiesto a tre esperti, da cui sono emerse posizioni articolate e non univoche. Tutte però sembrano sostanzialmente concordare su una cosa: gli elettori si trovano in una situazione lose-lose.
Nell’attesa dell’esito delle elezioni, questa settimana si registra comunque una novità: Abdolnaser Hemmati ha «dominato i dibattiti elettorali» trasmessi in televisione, ha scritto Nicola Pedde per Ispi, e ha trasformato la sua immagine, da quella di sconosciuto tecnocrate all’unico potenziale rivale di Raisi. Come ha scritto Associated Press, Hemmati ha incassato alcuni endorsment eccellenti, come quello di Mehdi Karroubi. In un’intervista concessa al Financial Times Hemmati ha dichiarato che, se eletto, la sua priorità sarà ripristinare l’accordo sul nucleare del 2015, grazie anche al lavoro di Mohammad Javad Zarif, al quale ha già domandato di far parte del suo – ipotetico - governo.
Il nuovo governo israeliano affronta i primi test
Il governo guidato da Naftali Bennett ha ottenuto la fiducia dalla Knesset e, grazie a una maggioranza di un solo voto, ha dato il via al primo governo senza Netanyahu dopo 12 anni. Se si considerano le divisioni ideologiche dei partiti di maggioranza, i due anni di paralisi politica e le quattro elezioni inconclusive, potrà essere considerato un successo anche solo rimanere in carica per alcuni mesi ha scritto Straftor, che sottolinea anche come il rischio per il governo guidato da Bennett (nell’attesa di un subentro di Yair Lapid tra due anni) sia quello della paralisi legislativa. Anche al-Jazeera non si aspetta grandi cambiamenti dal nuovo governo israeliano: secondo Marwan Bishara infatti «Bennet e Netanyahu appartengono alla stessa famiglia sionista di destra», e sono divisi solo da motivazioni personali.
Anshel Pfeffer su Haaretz offre una visione più approfondita del profilo di Naftali Bennett. Secondo Pfeffer è molto facile applicare delle etichette al nuovo primo ministro – conservatore ultrareligioso, nazionalista, colono, milionario dell’high tech – ma nessuna è realmente adeguata a descriverlo. Anzitutto, osserva Pfeffer, Bennett (ma anche Lapid) è il primo premier di una nuova generazione di politici che, dopo la guerra dei sei giorni, è cresciuta in un Paese più sicuro di sé. Pfeffer ritiene che Naftali Bennett incarni un Israele 3.0: un nazionalista ebraico ma non veramente dogmatico, religioso ma non devoto, un militare che preferisce il comfort della vita civile, un sostenitore del Grande Israele ma non un colono.
Come detto, la coalizione di Bennett è estremamente debole, tanto che secondo Mehul Srivastava qualsiasi riproposizione di temi come i diritti degli omosessuali, dei palestinesi e persino degli ebrei non ortodossi potrebbe farla cadere. Attenzione, chiosa Srivastava, anche perché un altro soprannome di Netanyahu è “comeback kid”.
Le prove per il governo non sono tardate ad arrivare. Dopo 11 giorni di cessate-il-fuoco, mercoledì c’è stato il primo attacco aereo israeliano su Gaza (che prosegue tuttora) dopo che dalla Striscia erano stati lanciati verso Israele dei palloni incendiari. Si tratta di uno dei primi test a cui è sottoposta la nuova coalizione di governo, che ha promesso di occuparsi soprattutto di questioni socio-economiche evitando il più possibile dossier delicati come quello dei rapporti con i palestinesi.
Prima ancora, la “marcia delle bandiere” inizialmente prevista in maggio, pur svoltasi per questioni di ordine pubblico su un percorso diverso da quello inizialmente programmato, ha contribuito ad alzare la tensione quando circa 5000 esponenti della destra israeliana hanno marciato a Gerusalemme gridando frasi come “morte agli arabi”. Come specifica al-Monitor in questa occasione non sono mancati anche attacchi a Bennett, accusato di essere un traditore per aver accettato un’alleanza con il partito arabo Ra’am.
Oggi, mentre sul Monte del Tempio sono in corso degli scontri tra fedeli musulmani e la polizia israeliana (Jerusalem Post), il premier Naftali Bennett ha annunciato un accordo grazie al quale un milione di dosi di vaccino israeliane in procinto di scadere verranno consegnate per l’utilizzo all’Autorità Palestinese, che in cambio si impegna a restituirle prendendole da una delle sue prossime forniture (Reuters).
Approfondimento dalla stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino
Com’era prevedibile, anche questa settimana la questione palestinese e la nascita del nuovo governo israeliano hanno polarizzato l’attenzione del quotidiano londinese militante al-Quds al-‘Arabī. In un editoriale, il politologo kuwaitiano Shafiq al-Ghabra si è scagliato contro il giornalismo arabo che, parlando di Hamas, utilizza lo stesso linguaggio della destra israeliana. Il fatto di adottare la lingua del nemico «riflette una visione che disprezza le masse, i popoli e i loro diritti, e glorifica il potere, l’identificazione con l’Occidente e il colonialismo autoritario». Questo giornalismo, che al-Ghabra dice essere sostenuto dai regimi arabi fautori della normalizzazione con Israele, viene accusato di aver lanciato «una campagna per demonizzare Hamas e dipingere Israele come uno Stato pacifico».
Lo stesso quotidiano si domanda, in un editoriale firmato dalla redazione, che cosa cambierà con il nuovo governo di Naftali Bennett. Secondo al-Quds al-‘Arabī il governo continuerà ad attuare le stesse politiche repressive nei confronti dei palestinesi, come ha dimostrato peraltro la recente vicenda della “marcia delle bandiere”, ma alcuni cambiamenti a livello di politica interna sarebbero già in atto, tra cui l’emarginazione dei partiti ultra-ortodossi, grazie alla presenza della Lista Unita araba e del partito di sinistra Meretz, il cui contributo è stato fondamentale per spodestare Netanyahu. Alcuni cambiamenti potrebbero verificarsi anche a livello geopolitico: sembra infatti che la nuova ministra dell’Ambiente, Tamar Zandberg, abbia chiesto di cancellare l’accordo che prevedeva di far transitare il petrolio degli Emirati da Israele.
Il quotidiano al-‘Arabī al-Jadīd ha invece dato ampio risalto alle elezioni legislative che si sono svolte in Algeria sabato scorso. «Un altro passo indietro», ha scritto lo scrittore e poeta marocchino Muhammad Bennis, che vede nell’esito di quest’ultima tornata elettorale un’ulteriore prova della crisi in cui si trovano i regimi arabi. Questi, anziché varare le riforme necessarie a evitare la disintegrazione del tessuto sociale, pensano a riciclare le vecchie strutture del potere e una legittimità ormai erosa dal tempo.
Di segno opposto sono le considerazioni, sempre sullo stesso giornale, di Yasir Abu Hilala, ex direttore di al-Jazeera, il quale ritiene che le elezioni costituiscano «un piccolo passo in avanti» sebbene la partecipazione sia stata molto bassa. Il giornalista, probabilmente simpatizzante dell’Islam politico, ritiene positivo che il Movimento della Società per la Pace (partito politico algerino di orientamento islamista) abbia ottenuto dei buoni risultati (oltre 60 seggi in parlamento). Abu Hilala considera invece preoccupante il boicottaggio totale delle elezioni nella regione della Cabilia, dove vivono 2 milioni di berberi. Per lui il problema non è il regime, come ci si aspetterebbe, ma la fazione separatista berbera, «che gode del sostegno francese, sionista e dei circoli arabi che hanno problemi con l’Algeria». Il giornalista spera che gli algerini riescano a contrastare la tendenza separatista favorendo una cultura nazionale aperta e inclusiva e progetti di sviluppo capaci di bloccare la strada ai progetti coloniali.
Nel Golfo invece questa settimana si è parlato di tutt’altro. La stampa emiratina ha celebrato la conquista, da parte degli Emirati, di un seggio non permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per il biennio 2022-2023. Al-‘Ayn ha titolato “Gli Emirati Arabi Uniti raccolgono i frutti di una diplomazia di successo” e ha festeggiato il momento ricordando la visione di politica estera di shaykh Zayed bin Sultan Al Nahyan, padre fondatore degli Emirati, deceduto nel 2004: «La politica estera dello Stato mira a sostenere le cause e gli interessi arabi e islamici e a rafforzare i legami di amicizia e la cooperazione con tutti gli Stati e i popoli sulla base della Carta delle Nazioni Unite, dell’etica e degli ideali internazionali».
Al-Ittihād invece ha riferito dell’avanzamento dei lavori della Casa della Famiglia Abramitica ad Abu Dhabi, un grande complesso che comprenderà una moschea, una chiesa e una sinagoga e sarà inaugurato nel 2022. Retaggio dell’incontro avvenuto nel 2019 tra papa Francesco e il grande imam di al-Azhar, questo luogo di culto, si legge, «incarna la nostra tolleranza e il nostro rispetto per il pluralismo, il nostro sostegno alla convivenza e alla fratellanza tra i figli delle tre religioni monoteiste».
Sul fronte saudita si è parlato molto delle elezioni in Iran con l’obiettivo di screditare lo storico nemico. Al-Riyādh ha pubblicato un lungo report sul passato di Ebrahim Raisi, il candidato favorito alla presidenza, e sul suo coinvolgimento nell’apparato repressivo del regime. Lo stesso quotidiano ieri ha intervistato Muhammad Muhaddithin, presidente del Comitato Affari esteri del Consiglio nazionale della resistenza iraniana, che ha criticato la politica estera iraniana degli ultimi 80 anni, il ruolo destabilizzante giocato da Teheran nella regione mediorientale, la mancanza di trasparenza nelle elezioni e i continui arresti degli oppositori.
Nel frattempo, in Egitto si continua a parlare della grande diga etiope del Rinascimento (GERD). Questa settimana, infatti, su richiesta dell’Egitto e del Sudan, è stata convocata a Doha una riunione straordinaria dei ministri degli Esteri dei Paesi arabi per discutere della crisi in atto ormai da mesi. ‘Ala Thabit, giornalista del quotidiano filo-governativo al-Ahrām, ha celebrato il ruolo efficace svolto dalla Lega Araba nella vicenda, segno del fatto che «quando gli arabi si uniscono sono in grado di incidere e cambiare le equazioni». L’unione fa la forza, eppure oggi la soluzione non sembra ancora essere vicina. Tant’è vero che la ministra degli Esteri sudanese Maryam al-Sadiq al-Mahdi ha ricordato il primo riempimento della diga come «una pugnalata alle spalle da parte dell’Etiopia».
In breve
Un poliziotto è stato ucciso in un attacco che in Nigeria, nello Stato di Kebbi, ha portato al rapimento di altri 80 studenti e 5 insegnanti (al-Jazeera).
Il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, si è recato in visita in Marocco, Paese che ha recentemente normalizzato i suoi rapporti con Israele (Asharq Al-Awsat).
Biden ed Erdogan si sono incontrati lunedì. Il meeting è andato come previsto, scrive Al-Monitor: nessuna delle grandi questioni che sono alla base delle frizioni tra Ankara e Washington è stata risolta.
In Turchia il partito curdo HDP ha denunciato l’assassinio di uno dei suoi militanti nella città di Izmir (Le Monde).
Secondo il New York Times il Pentagono sta considerando l’invio di forze speciali in Somalia per combattere al-Shabab dopo che Donald Trump aveva imposto il ritiro delle truppe statunitensi dal Paese.
In Libano c’è una quasi totale assenza di carburante, scrive il Washington Post. Un’inchiesta di Thomson Reuters Foundation sottolinea invece che almeno 250 milioni di dollari in aiuti forniti dall’ONU sono trattenuti dalle banche libanesi.
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