Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:18:15

Un milione di bambini morti. È la previsione dell’impatto dell’inverno sull’Afghanistan formulata a settembre dall’ONU. Siamo a dicembre, l’inverno è arrivato e inizia a farsi sentire. A circa quattro mesi dalla presa del potere da parte dei Talebani, l’Afghanistan è «sull’orlo di una carestia di massa», e sebbene la popolazione afghana soffra problemi di malnutrizione da decenni, secondo il New York Times la situazione è «drasticamente peggiorata» negli ultimi mesi. È ciò che si evince dal reportage del quotidiano americano a Shah Wali Kot, nella provincia di Kandahar, dove «bambini scheletrici e madri anemiche si sono riversati nei reparti di malnutrizione degli ospedali, molti dei quali privati del materiale medico fornito un tempo dai donatori». Tuttavia, l’interruzione degli aiuti umanitari al Paese non è l’unica causa della carestia in corso. Sono infatti 25, su un totale di 34, le province afghane colpite dal peggior periodo di siccità degli ultimi decenni, che si stima possa ridurre del 20% il raccolto agricolo di quest’anno. Nel villaggio di Kamar Kalagh, nella provincia di Herat, la situazione è disastrosa: nonostante i rimedi messi in pratica dagli abitanti del villaggio, oggi il pozzo locale è in grado di fornire acqua soltanto a 10 delle 150 famiglie residenti (AP News).

 

Aspetti che, combinati con i combattimenti e le violenze, hanno portato 700.000 afghani a fuggire dalle proprie case, in buona dirigendosi verso le città. Ma non solo. L’Associated Press descrive quanto avviene a Herat, dove ogni giorno diversi bus portano centinaia di afghani verso il confine con l’Iran. Alla frontiera i trafficanti cercano di farli entrare nel Paese (si contano 300.000 profughi negli ultimi tre mesi): la maggior parte vi rimarrà, ma per alcuni il sogno resta l’Europa. «Non abbiamo scelta, nel nostro villaggio l’economia è un disastro. Anche se questo [viaggio] significherà la nostra morte nel percorso, lo accettiamo», ha detto Haroun, un ragazzo di 20 anni.

 

Un parziale sollievo potrebbe arrivare dalla ripresa del flusso di aiuti umanitari. Affinché ciò avvenga è necessario che i Paesi esteri trovino una modalità di coordinamento con il governo talebano. Secondo alcuni analisti questo è ciò che nei fatti sta iniziando (molto lentamente) a succedere, e nel medio periodo renderà superflua la discussione sul riconoscimento del governo talebano. Gli Emirati hanno riaperto l’ambasciata a Kabul a novembre, precedentemente era stato reso noto il ruolo del Qatar nel gestire le relazioni con i Talebani per conto degli Stati Uniti, mentre l’Unione Europea sta pianificando di riaprire un ufficio di rappresentanza e il Giappone ha inviato in visita a Kabul il suo ministro degli Esteri. Evitare il completo isolamento dei Talebani sembra rispondere a una delle principali critiche mosse all’occupazione occidentale del Paese anche da The Ledger, presentato dal Financial Times come il libro della settimana. Secondo David Kilcullen e Greg Mills, autori del volume, è stato infatti il rifiuto di Donald Rumsfeld di includere il mullah Omar nel governo Karzai a gettare i semi del fallimento americano. Quest’ultimo sarebbe infatti l’esito dell’impossibile obiettivo di un «annientamento militare [dei talebani] che [però] erano più una cultura che un corpo».

 

Timide speranze per i negoziati sul nucleare iraniano

 

L’ultima tornata dei negoziati sul nucleare iraniano in corso a Vienna si era conclusa con un sostanziale fiasco. L’intero impianto dei colloqui era sembrato sul punto di collassare quando Stati Uniti e Unione Europea avevano accusato l’Iran di avere fatto marcia indietro sui compromessi raggiunti fino a quel momento. Sebbene un sito ben informato come Amwaj Media ritenga la posizione iniziale iraniana transitoria e abbastanza comune nel gioco delle parti, Stati Uniti e Unione Europea avevano comunicato di essere pronti a lasciare il tavolo negoziale. La sensazione diffusa da parte occidentale era che il governo iraniano guidato da Ebrahim Raisi stesse partecipando ai colloqui solamente per guadagnare tempo, così da permettere l’avanzamento del suo programma atomico.

 

Al contrario, come ha scritto Patrick Wintour sul Guardian, oggi si respira un «cauto ottimismo» in seguito al cambiamento della posizione iraniana. Merito delle pressioni sull’Iran di Russia e Cina, il cui maggior impegno nei negoziati coincide o con i momenti di crisi assoluta o con quelli di svolta positiva, secondo un’analisi di Jacopo Scita pubblicata dall’Atlantic Council). Commentando gli ultimi sviluppi il capo della delegazione russa ai colloqui, Mikhail Ulyanov, ha affermato che è stata eliminata  «una serie di incomprensioni che avevano creato tensione. Tutti hanno confermato il loro impegno a un lavoro redditizio [per ripristinare l’accordo sul nucleare]».

 

Se da un lato, dunque, i negoziati riprendono con una rinnovata (ma moderata) fiducia, dall’altro gli Stati Uniti non cessano di inviare avvertimenti all’Iran. Jen Psaki, portavoce della Casa Bianca, ha comunicato alla stampa che il presidente americano Joe Biden ha chiesto al suo staff di prepararsi a un eventuale fallimento della diplomazia. Si direbbe che nessuno è intenzionato a perdere tempo: come infatti ha riportato in esclusiva Reuters, il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha discusso a Washington con le controparti americane di una possibile esercitazione congiunta, utile nel caso in cui si verifichi il «worst-case scenario», che renderebbe necessaria la distruzione degli impianti nucleari iraniani. Il quotidiano emiratino The National riporta a questo proposito gli avvertimenti di Vali Nasr, professore alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies: un conflitto avrebbe un esito incerto, sarebbe costoso per gli Stati Uniti ma soprattutto non rimarrebbe confinato al territorio iraniano. Per questo motivo, un attacco all’Iran causerebbe danni ai partner regionali degli Stati Uniti, a cominciare proprio dagli Emirati Arabi.

 

Alla luce delle recenti dinamiche alcuni ex funzionari dell’intelligence di Tel Aviv hanno criticato le decisioni prese da Donald Trump, ma fortemente incoraggiate dall’allora premier israeliano Benjamin Netanyahu, di ritirarsi dall’accordo del 2015 e di introdurre nuove sanzioni sull’Iran: oggi, si legge sul Washington Post, si può dire con certezza che quelle scelte hanno portato Teheran più vicino alla capacità di dotarsi di un’arma atomica di quanto non lo fosse quando il JCPOA era in vigore: la strategia della «maximum pressure non ha raggiunto gli obiettivi politici» sperati, «non importa quanta pressione eserciti su di loro, gli iraniani considerano il loro programma nucleare un’assicurazione per il regime», ha commentato Raz Zimmt, ora alla Tel Aviv University.

 

Non a caso anche l’Arabia Saudita, ai tempi uno dei Paesi che più strenuamente si oppose all’accordo, afferma oggi di vedere in maniera parzialmente positiva l’eventuale successo dei negoziati. Tuttavia, si legge su al-Arabiya, Riyad concepisce il ripristino del JCPOA solamente come il primo passo di un processo più profondo: «l’attuale accordo non ci protegge dal potenziale militare e nucleare iraniano», ha detto il principe saudita Faisal bin Farhan.

 

Anche gli Emirati sono attenti a non farsi cogliere impreparati da qualsiasi evoluzione potranno avere i colloqui in corso a Vienna: in questo senso vanno interpretati i contatti di Sheikh Tahnoon bin Zayed Al Nahyan, fratello del principe ereditario emiratino Mohammed bin Zayed e consigliere per la sicurezza nazionale della Federazione di Emirati, con l’intelligence israeliana e – fatto piuttosto raro – il suo viaggio  in Iran, dove ha incontrato sia il capo del consiglio supremo di sicurezza nazionale iraniano che il presidente della Repubblica Raisi.

 

Una nuova, terribile, uccisione extragiudiziale in Pakistan

 

Priyantha Kumara, un cittadino buddista dello Sri Lanka, manager di una industria di Sialkot (Punjab, Pakistan), è stato linciato da una folla inferocita che ha poi dato alle fiamme il suo corpo. L’accusa, come troppo spesso accade nel Paese asiatico, è quella di blasfemia: Kumara avrebbe infatti rimosso un manifesto di ispirazione religiosa e degli adesivi recanti citazioni del Corano. Come riporta The Observers di France24, alcuni video documentano che la folla, mentre uccideva Kumara, scandiva slogan legati al partito islamista Tehreek-e-Labbaik Pakistan, cui solo poche settimane fa era stata revocata la messa al bando decisa dal governo nell’aprile scorso. TLP è l’organizzazione che alcuni mesi fa si era resta protagonista delle manifestazioni inneggianti al boicottaggio della Francia, di cui avevamo parlato in un vecchio Focus attualità e che nel 2018 era scesa in piazza per protestare contro l’assoluzione di Asia Bibi. Diverse persone sono state arrestate per l’assassinio, ma almeno una di esse ha apertamente confessato, orgoglioso di quanto fatto.

 

Commentando l’accaduto, i siti di The Diplomat e Foreign Policy hanno criticato la legge pakistana sulla blasfemia, ma sulla base di un argomento diverso da quello dei diritti umani che generalmente viene proposto. Purtroppo, nota Umair Jamal su The Diplomat, quello di Kumara si somma ad almeno altri 80 casi di uccisioni extragiudiziali in Pakistan dagli anni ‘90, ma è la prima volta che la vittima è un cittadino di una nazione straniera. Per questo, se il primo ministro pakistano Imran Khan ha a cuore gli investimenti esteri nel Paese e la sua crescita economica deve rendersi conto che omicidi come quello di Kumara danneggiano l’ambiente pakistano, rendendo molto più difficile attrarre persone e capitali dall’estero, ha scritto Kunwar Khuldune Shahid su Foreign Policy.

 

Ancora più preoccupante (e aiuta a cogliere la magnitudo del problema che affronta il Pakistan) è il fatto, sottolineato da Jamal, che sebbene la maggior parte delle autorità pakistane abbia pubblicamente condannato il brutale omicidio, alcune di esse non riconoscano nella radicalizzazione su base religiosa un reale problema. Ciò è evidenziato dalla posizione espressa dal ministro della Difesa Pervez Khattak, che ha definito quanto successo soltanto l’operato di «giovanotti arrabbiati che si sono fatti trascinare dalle emozioni religiose». Ma in fondo, ha proseguito Khattak, «persino io posso agitarmi e compiere errori quando si tratta di religione». “Degna” conclusione del ragionamento di Khattak: sono cose che possono capitare quando si è «mossi dalla passione».

 

Rassegna della stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

 

“Più amici, meno avversari” per la Turchia

 

Questa settimana parte della stampa araba ha dedicato ampio spazio ai cambiamenti che da un anno a questa parte stanno interessando la geopolitica del Medio Oriente. Complice l’elezione di Joe Biden a presidente degli Stati Uniti, che ha segnato la fine dell’era trumpiana e della sua politica estera, e complici anche le conseguenze lasciate dalla pandemia sulle economie nazionali, molti Paesi arabi, oltre all’Iran e alla Turchia hanno dovuto riconsiderare le loro alleanze internazionali e riposizionarsi sullo scacchiere geopolitico.

 

Come ha spiegato il politologo turco Said El-Haj su al-Jazeera, il mondo islamico si sta avviando verso il superamento delle polarizzazioni (rivoluzioni/contro-rivoluzioni, islamisti/anti-islamisti) che hanno caratterizzato la politica mediorientale degli ultimi dieci anni. Uno dei casi più significativi in questo senso è la Turchia, che nell’ultimo anno ha iniziato un processo di avvicinamento al Golfo e all’Egitto. Ankara sembra voler concretizzare lo slogan lanciato nel 2015 «più amici, meno avversari» che, secondo El-Haj, era rimasto lettera morta a causa della «riluttanza dell’asse arabo» ad avvicinarsi alla Turchia. Due settimane fa, Recep Tayyip Erdogan ha incontrato il principe ereditario di Abu Dhabi Mohammad bin Zayyed e, prima di lui, il ministro degli Esteri del Bahrain e il ministro del Commercio dell’Arabia Saudita. Se i rapporti con gli Emirati sembrano essersi distesi in poche settimane, con l’Egitto – ha spiegato El-Haj – il percorso è più difficoltoso e procede a rilento per diverse ragioni. Da un lato, il Cairo è stato al centro della polarizzazione islamisti/anti-islamisti per molti anni, dall’altro Ankara è riluttante a riconoscere il regime di Sisi, oltre al fatto che i rapporti dell’Egitto con la Grecia e con Cipro costituiscono un problema per la Turchia.

 

Poche ore dopo l’incontro tra Erdogan e Mohammed bin Zayed sono arrivati i primi segnali di distensione tra i due Paesi. Le autorità emiratine hanno rilasciato un uomo d’affari turco detenuto dal 2018, mentre prima ancora la Turchia aveva liberato una persona accusata di spionaggio per conto degli Emirati. Più vicini sì, ma come ha scritto ancora Said El-Haj sul sito filo-islamista ‘Arabī21, è altamente improbabile che si verifichino dei cambiamenti radicali nelle loro politiche estere. Soprattutto da parte di Ankara, che non sembra essere disposta a mettere in discussione il suo ruolo in Siria, in Iraq, in Libia e nel Mediterraneo orientale, diventati fondamentali per la sua sicurezza nazionale.

 

Nel frattempo, Ankara continua a curare i suoi rapporti con Doha, che per la Turchia è «la porta di passaggio verso gli assi di quella tendenza [islamista]», come ha scritto il quotidiano londinese Al-Quds al-‘Arabī. A inizio settimana infatti Erdogan è stato in visita ufficiale in Qatar, dove ha co-presieduto insieme all’emiro Tamim bin Hamad Al Thani la settima riunione dell’Alto Comitato strategico Turchia-Qatar. Il Qatar, che si è distinto per il ruolo di mediazione svolto nella questione afghana, secondo al-Quds al-‘Arabī potrebbe presto distinguersi anche come «porta d’accesso alla pace, all’apertura e allo sviluppo». 

 

La normalizzazione con Damasco passa per Teheran

 

Da qualche tempo si parla anche della possibilità di riammettere Damasco nel consesso dei Paesi arabi, nel tentativo di sottrarla all’influenza dell’Iran. A inizio novembre, il ministro degli Esteri emiratino aveva incontrato Bashar al-Asad. Come fa notare però il giornalista siriano Amin al-‘Asi su al-‘Arabī al-Jadīd, dalla capitale siriana arrivano segnali contrastanti. Nelle ultime settimane infatti le visite dei funzionari iraniani a Damasco si sono intensificate mentre mercoledì scorso si è conclusa quella del ministro degli Esteri siriano a Teheran. Per al-‘Asi, queste visite sono un messaggio chiaro dell’Iran agli Emirati: «il riavvicinamento del regime siriano agli arabi non avverrà a spese di Teheran». Anche perché la Siria, come ha spiegato Muhammad Salem – ricercatore presso il Centro di dialogo siriano –, non può fare a meno del sostegno iraniano dal momento che gli iraniani sono penetrati nella maggior parte delle istituzioni sicuritarie e militari siriane.

 

Business first

 

Gli Emirati continuano la loro corsa alla crescita economica. Questa settimana il governo ha annunciato che da gennaio 2022 il fine settimana corrisponderà ai giorni di sabato e domenica, anziché venerdì e sabato com’è stato finora. La ragione? Per essere allineati ai mercati finanziari internazionali e migliorare la posizione del Paese nell’economia globale. Il governo inoltre ha istituito la settimana lavorativa di quattro giorni e mezzo per gli impieghi pubblici, ciò che dovrebbe «incidere positivamente sui rapporti familiari e contribuire ad aumentare la produttività lavorativa».    

  

La decisione di modificare i giorni festivi ha sollevato però una serie di questioni religiose, alle quali hanno prontamente risposto con un video alcuni ulema e giuristi emiratini.  Le autorità religiose hanno spiegato che il Corano non stabilisce espressamente che il venerdì debba essere un giorno festivo, hanno ribadito che fare la preghiera del venerdì in moschea rimane un obbligo e che è possibile conciliare il lavoro con gli adempimenti religiosi compiendo gli atti di culto all’alba del venerdì, prima di andare al lavoro, oppure alla sera.   

 

Ad Abu Dhabi si parla di “cittadinanza inclusiva”

 

Questa settimana, inoltre, la capitale emiratina ha ospitato l’ottavo incontro annuale del Forum per la promozione della pace dedicato al tema della “cittadinanza inclusiva”. Come ha riportato il quotidiano nazionale al-Ittihād, il forum (ribattezzato al termine dei lavori “Forum di Abu Dhabi per la pace”) ha diffuso una serie di raccomandazioni tra cui: formare dei comitati di esperti per rivedere i programmi di educazione religiosa e civica; istituire una sezione del Forum per la promozione della pace e dei valori della cittadinanza globale in alcune regioni del mondo, in particolare nell’Africa subsahariana; favorire l’incontro tra i leader religiosi perché le religioni siano un ponte tra le culture; creare una rivista accademica dedicata al tema della cittadinanza e infine creare delle partnership tra il Forum e le alcune istituzioni religiose e università.

 

Per l’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid, che è un ospite stabile del Forum, l’incontro è stata l’occasione per mettere a confronto i modelli politici del Golfo con quelli del resto del mondo arabo. Sul quotidiano filo-saudita al-Sharq al-Awsat, al-Sayyid ha notato con dispiacere che le espressioni «convivenza e cittadinanza» sono apparse per la prima volta nel linguaggio politico e culturale del Libano e dell’Iraq, i quali però non sono stati capaci di tradurle nella pratica. Anzi, questi e altri Stati arabi, hanno sempre guardato in maniera critica alle monarchie del Golfo ritenendo che il loro modello politico non rispondesse alle ambizioni nazionali. La storia però, ha concluso al-Sayyid (che ha recentemente ricevuto la cittadinanza saudita), ha dato ragione ai Paesi del Golfo, gli unici oggi a godere della stabilità e del progresso, mentre il resto del mondo arabo è caduto nel baratro.

 

In breve

 

Il governo di Addis Abeba ha lanciato una controffensiva nei confronti del TPLF e ha comunicato di aver riconquistato le cittadine strategiche di Kombolcha e Dessie (New York Times).

 

Il 10 dicembre in Bahrein, ad Awali, è stata inaugurata la cattedrale dedicata a Maria regina d’Arabia. Si tratta della più grande chiesa cattolica nella penisola araba (Avvenire).

 

La coalizione internazionale a guida americana per la lotta a Isis in Iraq ha ufficialmente terminato la sua missione di combattimento (BBC News).

 

Accogliendo la richiesta di diversi partiti e organizzazioni il primo ministro del Sudan Abdalla Hamdok ha deciso di riconsiderare tutte le nomine e le rimozioni effettuate nel periodo in cui al potere sedeva il generale Abdel Fattah al-Burhan (al-Monitor).

 

Il consiglio cittadino di Washington ha deciso di intitolare a Jamal Khashoggi, ucciso all’interno del consolato saudita a Istanbul, la strada di fronte all’ambasciata dell’Arabia Saudita (NPR).

 

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