Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 14:36:47

Nel focus attualità di oggi ci soffermiamo sui colloqui tra Turchia ed Egitto, sulla grande diga etiope la cui costruzione scatena la crisi tra Egitto, Sudan ed Etiopia e sul quarto round di colloqui sul nucleare iraniano. Infine, dalla stampa araba, tre approfondimenti sulla storia della moschea-università dell’Azhar, sulla libertà di stampa in Medio Oriente e sul destino della famiglia Bin Laden.

 

Da quando al-Sisi ha spodestato l’ex presidente egiziano Mohammed Morsi, esponente dei Fratelli musulmani e vicino ad Ankara, le relazioni tra Egitto e Turchia sono sprofondate, e quella che divide sostenitori e oppositori dell’islamismo è diventata una delle linee di faglia più importanti in Medio Oriente. Ma qualcosa potrebbe cambiare. Mercoledì e giovedì si sono svolti due giorni di consultazioni politiche al Cairo per cercare di ricucire le relazioni tra i due Paesi, come ha specificato un comunicato congiunto dei ministeri degli Esteri egiziano e turco. I colloqui sono stati definiti «franchi e approfonditi», scrive al-Jazeera. France24 ricorda che a marzo le autorità turche avevano «preparato il terreno» chiedendo agli esuli egiziani Moataz Matar e Mohammed Nasser di abbassare i toni delle polemiche contro al-Sisi nei loro show televisivi, mentre il filo-qatarino Middle East Eye sottolinea la scelta turca di far cadere il veto finora speso contro la possibile partnership tra la NATO e l’Egitto. Secondo il politologo emiratino Abulkhaleq Abdullah, «l’Egitto si è reso conto che è difficile per qualsiasi potenza regionale vincere con un knockout, ma è possibile farlo ai punti», dunque tramite la diplomazia.

 

Inoltre, per la seconda volta in meno di un mese, Erdogan ha parlato al telefono con il Re saudita Salman, alleato dell’Egitto e avversario turco anche a causa dell’affaire Khashoggi. Come spiega Al-Jazeera, questi nuovi colloqui sono il frutto della fine del blocco imposto contro il Qatar. Colloqui diplomatici che come spesso accade sono irti di ostacoli. Lo conferma il fatto che mentre si procede a contatti di alto profilo, l’Arabia Saudita ha scelto di chiudere le scuole turche affiliate al ministero dell’educazione di Ankara in Arabia Saudita (Anadolu – agenzia di stampa pubblica turca).

 

Ma mentre muove le sue pedine diplomatiche, Ankara agisce anche militarmente. Il ministro dell’Interno turco Suleyman Soylu ha infatti annunciato la costruzione di una base militare turca nel Kurdistan iracheno, nella zona di Metina, un’area montagnosa vicino al confine turco da cui Ankara, secondo le parole di Soylu, intende controllare la regione a discapito del PKK. Per l’ennesima volta il governo iracheno ha formalmente protestato contro la violazione della propria sovranità, ma secondo al-Monitor si tratta soprattutto di una rimostranza di facciata, senza reali possibilità di fermare l’offensiva turca. E in effetti il ministro della Difesa turco Hulusi Akar ha affermato che «la nostra lotta contro il terrorismo continuerà finché l’ultimo terrorista [curdo, NdR] sarà neutralizzato». A complicare la situazione è arrivata la notizia, poi smentita dai diretti interessati, secondo cui i peshmerga curdi iracheni starebbero partecipando all’offensiva contro i “cugini” curdi turchi.

 

Ma l’azione regionale della Turchia non si ferma al suo stretto vicinato. Al contrario, come si può leggere su Diwan – Carnegie Middle East Center, Ankara sta vivendo un vero e proprio “momento-Maghreb”. Come scrive Dalia Ghanem, osservando le relazioni turche con Algeria, Libia e altri Paesi del Nord Africa si può comprendere come «la politica militare di Ankara sia legata al suo scopo più ampio di espandere la sua proiezione regionale. La strategia di lungo termine della Turchia è di dominare il mercato africano delle armi».

 

A livello interno turco segnaliamo la presentazione della bozza di una nuova Costituzione (l’attuale è stata modificata nel 2017) ideata dal partito nazionalista MHP, alleato di Erdogan, in vista delle elezioni generali previste per il 2023. Come indica Stratfor, la bozza prevede un ulteriore accentramento del potere nella presidenza e la creazione di una nuova corte che dovrebbe occuparsi di alcune delle questioni appannaggio dall’attuale Corte costituzionale, «inclusa la chiusura dei partiti politici». Verrebbe inoltre aumentato il «potere del Parlamento di selezionare i membri dell’apparato giudiziario», si legge su Reuters.

 

Etiopia-Egitto: la crisi continua

 

The Africa Report ha pubblicato i primi due approfondimenti sulla Grande Diga del Rinascimento in costruzione in Etiopia (GERD). Negli ultimi dieci anni la diga è stato un fattore destabilizzante nella regione, che ha causato l’aumento della tensione tra Etiopia, Egitto e Sudan, al punto che l’ipotesi di «un conflitto militare non può più essere facilmente accantonata». L’obiettivo della diga è quello di creare energia per rispondere ai bisogni etiopi, ma la GERD potrebbe anche regolare il flusso delle acque del Nilo blu al fine di prevenire le inondazioni, a beneficio in particolare del Sudan. Il problema è che il processo di riempimento del bacino, la cui seconda fase inizierà a luglio, ridurrà il flusso di acqua a valle. Qualcosa che Egitto e Sudan non sono disposti ad accettare senza negoziati e assicurazioni.

 

Se da un lato «c’è ancora tempo affinché la ragione prevalga», dall’altro l’impegno nei negoziati e il raggiungimento di un compromesso confliggono con le personalità di al-Sisi in Egitto e Abiy Ahmed in Etiopia: «in quanto governanti autoritari che devono dimostrare la loro forza per rimanere al potere, entrambi si sono arroccati su posizioni inflessibili per ragioni legate anche alla situazione politica e di sicurezza delle rispettive nazioni».

 

Sul tema è intervenuto anche Tawadros II, Papa della Chiesa copta ortodossa egiziana, che in un video messaggio ha espresso il suo sostegno al governo egiziano nella ricerca di una soluzione alla disputa. «Sosteniamo gli sforzi della leadership politica per trovare una soluzione giusta e onnicomprensiva alla crisi dell’acqua; una soluzione che garantisca il diritto divino alla vita per gli egiziani e i loro fratelli in Sudan. […] Preghiamo Dio perché garantisca il successo dei lavori diplomatici così che non si debba fare ricorso ad altri sforzi». Come riporta il quotidiano emiratino The National le dichiarazioni di Tawadros sono particolarmente importanti anche a causa dello storico legame tra i cristiani egiziani ed etiopi.

 

L’Egitto, nel frattempo, si sta preparando a un periodo di scarsità delle risorse idriche: il ministro dell’Agricoltura Al-Sayed al-Quseir ha recentemente comunicato ai contadini egiziani che dovranno limitare le colture ad alta intensità idrica, mentre al contrario è necessario aumentare la produzione di quelle specie che necessitano di poca acqua per crescere. Per comprendere la portata della minaccia a cui va incontro l’Egitto basta considerare che, con una popolazione in costante crescita e attualmente intorno ai 100 milioni, il settore agricolo impiega il 30% della forza lavoro egiziana e contribuisce al 14% del Pil nazionale. Ma contestualmente questo settore assorbe l’85% della disponibilità idrica che il Cairo ottiene dal Nilo, la sua unica fonte d’acqua.

 

Occorre poi ricordare che la disputa con Sudan ed Egitto non è l’unico tema caldo di cui deve occuparsi Addis Abeba. Il conflitto nel Tigray continua a mietere vittime (qui un’utile timeline degli eventi pubblicata questa settimana). Mentre l’Etiopia ha sostituito questa settimana il governatore ad interim del Tigray, nominando Abraham Belay, membro dello stesso partito del premier Abiy Ahmed, il senatore americano Chris Coons in visita ad un campo di rifugiati in Sudan ha condannato sulla continua presenza di soldati eritrei nel confinante Tigray. Del resto, come ha scritto Ethiopia Insight, è stata la stessa rappresentante eritrea all’ONU a confermare il coinvolgimento di Asmara nel conflitto in Tigray. Tuttavia secondo Seeye Abraha Hagos, esponente tigrino ed ex ministro della Difesa etiope, non è intenzione di Isaias Afwerki (presidente eritreo) ritirare le truppe entro i propri confini, anche perché Abiy Ahmed fornirà la copertura politica a garanzia della loro permanenza.

 

Nucleare iraniano e colloqui tra i Paesi del Golfo: l’attività diplomatica si intensifica

 

Comincia oggi a Vienna il quarto round di colloqui sul nucleare iraniano. Come riporta Foreign Policy, circolano voci secondo cui questa sarebbe l’ultima settimana di negoziati prima del raggiungimento di un nuovo accordo. Stando a quanto dichiarato da Abbas Araqchi, capo dei negoziatori di Teheran, le tempistiche «sono imprevedibili», ma l’Iran sta spingendo affinché si arrivi alla conclusione dei negoziati «al più presto».

 

All’inizio della settimana altre indiscrezioni lasciavano presagire l’imminente rilascio di prigionieri da parte dell’Iran a fronte dello scongelamento di fondi da parte americana. Alcune fonti interpellate dall’AP hanno confermato che i colloqui sono in corso, mentre Stati Uniti, Regno Unito ed esponenti iraniani hanno smentito. Come ricorda sempre l’AP, queste voci giungono dopo una settimana in cui le autorità statunitensi, inclusi il presidente Joe Biden, il Segretario di Stato Antony Blinken, Jake Sullivan (National Security Advisor) e Rob Malley (inviato speciale per l’Iran) hanno incontrato a Washington i vertici dell’intelligence israeliana, fermamente contraria a un accordo con Teheran.

 

Quanto finora ricordato evidenzia l’intensificazione dell’attività diplomatica ad alti livelli a margine dei negoziati viennesi. Un’attività che dà speranza ai fautori dell’accordo e al contrario fa crescere la preoccupazione negli oppositori. Anche il Qatar ha preso posizione attraverso il suo ministro degli Esteri, il quale ha dichiarato il sostegno dell’emirato a una positiva interlocuzione tra Washington e Teheran, sottolineando che Doha intrattiene relazioni strategiche con gli Stati Uniti ma anche buone relazioni con l’Iran (Al-Jazeera).

 

Avevamo parlato dell’audio del ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif reso pubblico la settimana scorsa. Secondo Mehdi Khalaji le rimostranze di Zarif sul ruolo dei guardiani della Rivoluzione sono interpretabili come un avvertimento per il futuro e allo stesso tempo come una lamentela circa la situazione attuale. Questo lascerebbe intendere che con una vittoria ultraconservatrice alle prossime elezioni presidenziali (previste in giugno) i pasdaran accrescerebbero ulteriormente il proprio potere. Secondo Khalaji dunque la pubblicazione della registrazione potrebbe essere «l’inizio della fine della lotta di potere tra politici civili e forze militari in Iran».

 

Non a caso in Iran prendono vigore gli attacchi dei conservatori contro i negoziati sul nucleare e, secondo Ali Vaez, questo è in parte dovuto proprio all’avvicinarsi delle elezioni: il timore dei conservatori è che il successo dei negoziati possa far crescere i consensi del fronte pragmatico-moderato e magari spingere una figura come Zarif a candidarsi.

 

Anche i contatti tra i Paesi del Golfo sono intensi: come ricorda Hussein Ibish, già un anno fa l’Arabia Saudita iniziò a mostrare minime aperture diplomatiche verso l’Iran, proseguite in questi mesi (in settimana il presidente iracheno Barnham Salih ha confermato che in Iraq si è svolto «più di un colloquio» tra Iran e Arabia Saudita), in parte a causa di «una reale ansia per quanto pericolose fossero diventate le tensioni» dopo l’attacco missilistico e con droni subito da Riyadh a settembre 2019. Ma nell’ultimo periodo le aperture si sono intensificate, come mostrato dall’intervista di Mohammed bin Salman, nella quale il principe ereditario ha dichiarato che il suo governo è alla ricerca di buone relazioni con il vicino persiano. Martedì poi, subito dopo l’annuncio della telefonata tra Mohammed bin Zayed (de facto leader emiratino) e Biden, il sito amwaj.media ha pubblicato lo “scoop” secondo  il quale il ministro degli Esteri iraniano Zarif sarebbe atteso ad Abu Dhabi dopo la festa dell’Eid al-Fitr. Una notizia che secondo Trita Parsi conferma una tendenza: più gli Stati Uniti si allontanano militarmente da questi dossier più gli Stati della regione sono incentivati a cercare soluzioni diplomatiche. Kirsten Fontenrose sottolinea che «guardando con la lente dell’interesse nazionale, sembra che la détente, con la prospettiva della normalizzazione, porterebbe sostanziali benefici per tutte le parti» coinvolte. Inoltre, la distensione dei rapporti tra i Paesi del Golfo è anche nell’interesse americano, perché alleggerirebbe gli Stati Uniti dalla necessità di provvedere alla sicurezza dei suoi alleati arabi.

 

Approfondimento dalla stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

 

Al-Azhar alla ricerca dell’indipendenza perduta

 

Il 3 maggio al-Jazeera ha pubblicato un’analisi di come sono cambiati nei secoli il ruolo e l’amministrazione della moschea di al-Azhar. Fondata circa mille anni fa dai Fatimidi, per diversi secoli al-Azhar ha goduto di un ampio grado di indipendenza dal potere politico. Essa infatti si autofinanziava attraverso i beni di manomorta (waqf) in suo possesso ed eleggeva e nominava autonomamente l’imam che doveva ricoprire la carica di shaykh al-Azhar, nata in epoca ottomana.

 

Come spiega nel suo articolo Khalīl al-‘Anānī, esperto di movimenti islamisti e politica egiziana, in origine lo shaykh al-Azhar giocava un ruolo di primo piano a livello religioso e spirituale ma anche politico, fungendo da collegamento tra lo Stato e il popolo. Storicamente, infatti, lo shaykh era membro del consiglio del Cairo, che ogni settimana si riuniva sotto la presidenza del sultano per discutere delle condizioni politiche ed economiche del Paese.

 

Con la campagna napoleonica d’Egitto del 1798 e la fine del potere mamelucco, lo shaykh al-Azhar è diventato la figura politica più importante d’Egitto. Gli imam che si sono succeduti in questa carica hanno svolto infatti un ruolo di primo piano nella resistenza contro i francesi e nella nomina di Muhammad ‘Ali quale governatore d’Egitto all’inizio del Novecento.

 

La nascita dello Stato moderno, spiega al-‘Anānī, segna l’inizio della decadenza dell’Azhar. La nomina dello shaykh al-Azhar diventa una prerogativa del potere politico. Tutti i tentativi effettuati tra la prima e la seconda guerra mondiale per cambiare la situazione falliscono e la legge del 1961 sulla riorganizzazione dell’Azhar decreta la fine della sua indipendenza. L’organo deputato a eleggere lo shaykh viene soppresso e alcune sue prerogative sono trasferite al ministro degli Affari religiosi. Le tensioni tra la moschea-università e lo Stato si inaspriscono, soprattutto durante le presidenze di Gamal Abdel Nasser e Anwar Sadat, mentre con Hosni Mubarak la moschea-università passa sotto il completo controllo dello Stato.

 

Secondo l’autore, la parabola si inverte dopo la rivoluzione del 2011, quando l’Azhar riesce a riconquistare parte della sua indipendenza grazie a un decreto emanato dal Consiglio militare per modificare la legge del 1961. Tale decreto riconosceva l’Azhar quale “organo indipendente” e conferiva al Consiglio degli ulema la prerogativa di eleggere lo shaykh, successivamente nominato a vita dal Presidente. Per al-‘Anānī è questa ritrovata indipendenza della moschea-università a spiegare le tensioni tra ‘Abd al-Fattah al-Sisi e il Grande imam Ahmad al-Tayyib.

 

SOS libertà di stampa

 

In occasione della Giornata internazionale per la libertà di stampa (3 maggio), il poeta marocchino Muhammad Ahmad Bannīs ha scritto una riflessione sul peggioramento della libertà di stampa nel mondo arabo, pubblicata, non a caso, sul quotidiano liberale al-‘Arabī al-Jadīd. Secondo il rapporto diffuso da Reporter Senza Frontiere, l’informazione è sottoposta a censura nel 73% dei Paesi del mondo. Nella classica del 2021, il Paese arabo con il dato migliore è la Tunisia, che si colloca al 73° posto, mentre quello con il dato peggiore è la Siria, al 173° posto su 180 Paesi. Secondo l’autore, la pandemia e la contro-rivoluzione seguita alle Primavere arabe hanno inflitto il colpo mortale alla libertà di stampa nel mondo arabo. Visti con sospetto dalle autorità, i media sono diventati, più che in passato, uno strumento in mano ai regimi tirannici per consolidare il loro potere ed esercitare il controllo sulla società. Nell’ultimo anno i regimi avrebbero infatti costretto i media nazionali a farsi portavoce della narrazione creata dall’alto in merito all’andamento dell’epidemia e all’acquisto e somministrazione dei vaccini.

 

In poche righe, Michelle Tueini – giornalista del quotidiano libanese al-Nahār – racconta il dramma del suo Paese, in cui la libertà di espressione e di stampa sono fortemente a rischio. E ricorda i «martiri della stampa libanese» tra cui suo padre Gebran Tueni, ex direttore di al-Nahār, il giornalista e attivista libanese Samir Kassir, entrambi uccisi durante la Rivoluzione dei cedri nel 2005, e Lokman Slim intellettuale assassinato a febbraio 2021.

 

Ascesa e declino dell’impero Bin Laden

 

In occasione del decimo anniversario dell’uccisione di Osama Bin Laden (2 maggio 2011), al-Hurra (canale televisivo satellitare finanziato dagli USA) ha pubblicato un rapporto intitolato “L’impero Bin Laden” in Arabia Saudita è sopravvissuto all’11 settembre ma si è deteriorato con l’ascesa di Bin Salman.

 

Il gruppo Bin Laden è una delle più importanti multinazionali del Medio Oriente nel settore edile. Fondata nel 1931 dal padre di Osama, un immigrato yemenita, la società ha fatto fortune immense grazie all’amicizia che legava il fondatore del gruppo alla famiglia reale saudita, che negli anni gli ha garantito commesse da svariati milioni di dollari per la costruzione di palazzi, moschee, università e autostrade. La crisi della multinazionale è iniziata nel 2014 con il calo dei prezzi del petrolio, la riduzione delle entrate statali e la conseguente diminuzione delle commesse. Il 2015 è stato un altro anno nero: una gru del gruppo cade nella Grande moschea di Mecca uccidendo più di cento persone. Tuttavia, si legge nell’articolo, a compromettere definitivamente la relazione speciale con la famiglia reale è l’ascesa di Mohammad Bin Salman. Nel settembre 2017 l’ex presidente del gruppo, Bakr bin Laden, fratellastro di Osama, viene arrestato e detenuto all’hotel Ritz-Carlton di Riyadh insieme ad altri principi e uomini d’affari nella campagna anticorruzione lanciata dall’erede al trono. Oggi, sebbene abbia consegnato allo Stato miliardi di dollari sotto forma di beni e azioni, Bakr Bin Laden sarebbe ancora detenuto in un luogo sconosciuto. Nel frattempo, il governo avrebbe acquisito il 36% della proprietà del gruppo. L’impero Bin Laden ha superato indenne gli eventi dell’11 settembre, in seguito ai quali è stato per lungo tempo un sorvegliato speciale, ma è stato messo in crisi da MBS.

 

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