L’intellettuale libanese, ritrovato assassinato il 4 febbraio scorso, lascia in eredità un’impressionante opera culturale, che continuerà a parlare per lui e a richiamare il Libano al dovere della memoria

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:03:30

Benché l’uccisione di Lokman Slim sia stata riportata da qualche giornale italiano, è un peccato che, su questa sponda del Mediterraneo, voci arabe così importanti arrivino spesso solamente post mortem, raccontate, come ha scritto Christian Elia, solo quando smettono di parlare.

 

Slim non era un semplice “attivista politico contro Hezbollah” come è stato molte volte, troppo brevemente, riportato. Era quello, ma anche molto di più. Era un intellettuale a tutto tondo: scrittore, editore, ricercatore, giornalista, archivista e attivista politico e culturale, fondatore e direttore di un’importante organizzazione non governativa libanese (Hayya Bina).

 

Su chi e perché l’abbia ucciso, perché l’abbia fatto proprio ora e sul profilo (più o meno) “politico” di Lokman Slim molto è stato ipotizzato e molto altro sarà scritto. Tanti articoli si sono già occupati nel dettaglio della morte, delle reazioni internazionali, delle proteste fuori dalle ambasciate, di alcuni tweet poco simpatici e dei possibili parallelismi con figure come Samir Kassir, l’autore de L’infelicità araba ucciso nel 2005 e Hishām al-Hāshimī lo studioso iracheno assassinato nel 2020.

 

Allargando lo sguardo, qualcuno parla di un canto del cigno, degli ultimi atti estremi prima di un cambiamento politico iniziato ad ottobre 2019 e ormai prossimo a realizzarsi. Altri, meno speranzosi, temono si tratti di un avant-goût amaro di quello che attende il Libano, con un ritorno agli omicidi politici. Su un punto però sono tutti d’accordo: l’assoluta mancanza di fiducia nel sistema giudiziario libanese e in parte pure in quello internazionale, complice la generale impunità che sembra caratterizzare i gravi crimini degli ultimi decenni (ma anche, più recentemente, l’esplosione del porto di Beirut).

 

Più che soffermarsi sulle responsabilità dell’omicidio, questo articolo desidera aprire qualche scorcio più “culturale” della vita di Lokman Slim, che rischia altrimenti di perdersi nella brevità della cronaca nera. Sperando che presto la sua eredità intellettuale possa essere esplorata più a fondo, soprattutto, ma non solo, in Libano.

 

Urbanistica periferica della memoria

 

Partiamo dalla geografia urbana. Per tutta la sua vita, Lokman Slim è rimasto attaccato al luogo dove era nato nel 1962, la municipalità di Haret Hreik, nella periferia Sud di Beirut. Se tanti decenni fa si trattava di una distesa di campi adiacente all’ancor modesta capitale libanese, oggi il quartiere è una distesa di palazzi di cemento, in linea con tutti i quartieri vicini e in continuità con la città di Beirut, quest’ultima raggiungibile senza traffico in quindici minuti, che diventano quaranta quando – ed è pressoché la regola – la strada si congestiona. Il quartiere è spesso indicato come la roccaforte di Hezbollah, e soprattutto per questa ragione fu in parte raso al suolo durante i bombardamenti nella guerra israelo-libanese del 2006. A contestare la furiosa ricostruzione del quartiere secondo piani urbanistici chiaramente funzionali al Partito di Dio si erge, tra le altre cose, Villa Slim.

 

Ne passa di differenza tra il caos dell’incrocio di Imam Mūsā al-Sadr e, superati degli imponenti archi, l’apparente calma dei frondosi alberi del giardino Slim, le bouganville e la stradina circolare che porta al “maniero”, con i suoi eleganti mandalūn, le bifore dell’architettura tradizionale libanese. Da circa 150 anni la casa è abitata dalla famiglia Slim, benché, da qualche decennio, la Villa non abbia solo funzione residenziale, ma sia anche l’epicentro di numerose attività culturali, con buona pace di qualche intellettuale beirut-centrico, che deve invece sorbirsi il traffico della suddetta strada per raggiungere un quartiere che una certa parte di libanesi non vuole nemmeno sentire nominare. Ma torniamo alla famiglia: senza andar troppo indietro, il padre di Lokman era un avvocato e parlamentare beirutino sciita ben conosciuto, mentre la madre è un’intellettuale egiziana cristiana. Un dettaglio biografico che l’anno scorso ha preso in qualche modo forma nell’esposizione organizzata da Lokman e intitolata “Elogio del meticciato libanese” sulle grandi personalità anche libanesi, ma non solo, che hanno contribuito alla ricchezza culturale del Paese. Un tentativo di interrogarsi sulla “libanesità” – anche quella di Fairuz! – e di scardinare una certa retorica del “libanese purosangue” che può facilmente sfociare in un palese razzismo verso altri vicini, arabi e non. Ad ogni modo, la decisione di Lokman di “abitare” Villa Slim, di conservarla così com’è, di lasciarla sempre “aperta” rappresenta la silenziosa critica di una pacifica diversità: diverse narrazioni passate, diverse funzioni presenti, diversi progetti futuri.

 

Dal lavoro nell’ombra al pensiero del nuovo

 

Dopo l’infanzia a Haret Hreik, c’è la parentesi parigina. Lasciato il Libano dei turbolenti anni della guerra civile, Lokman capisce che studiare filosofia alla Sorbonne non fa per lui, e diventa, per sei anni, lo scrittore ombra di alcuni autori arabi, proprio lui che ora è ricordato per “aver sempre messo la firma” (e la vita) su ciò che diceva[1]. A suo dire, fu proprio il suo essere prête-plume ad abituarlo a stili, idee e direzioni a cui non aveva mai pensato: in effetti, dev’esser stato arricchente scrivere per l’iracheno ‘Abd al-Qādir al-Janābī (Abdel Kader al-Janabi), del circolo surrealista arabo degli anni ’70, radicale nella sua volontà di ribellione per la libertà, la poesia e i diritti umani. Ed è proprio con questo spirito di novità che Lokman torna a Beirut e fonda nel 1990 Dār al-Jadīd, la “Casa (editrice) del Nuovo”, dando spazio a «prototipi di libri di alta qualità in arabo, dal contenuto al processo redazionale, dalla grafica alla stampa»[2].

 

Non c’è dubbio che Dār al-Jadīd, oggi gestita dalla sorella di Lokman, la scrittrice Rasha al-Ameer, ha consegnato al pubblico arabofono libri visionari e coraggiosi. Alcuni articoli citano giustamente gli scritti politici di Mohammad Khatami (Muhammad Khātamī), il filosofo ed ex-presidente riformista iraniano. Ma la lista è molto più lunga: dagli studi dell’egiziano Taha Hussein sul cosiddetto periodo della jāhiliyya, alle poesie di Mahmoud Darwish o Ahmed Zaki Abu Shadi, passando per Ounsi el-Hajj e la sua prosa poetica, i romanzi iracheni di Inaam Kachachi, la filosofia politico-religiosa di Abdel-Karim Shoroush, etc. Tra i nomi “stranieri”, spiccano quello di Aleksandr Solzhenitsyn, Emile Cioran e un italiano, Nuccio Ordine: Dār al-Jadīd ha tradotto il suo manifesto umanista “L’utilità dell’inutile” che si interroga su come non dimenticarsi, soprattutto in tempo di crisi, dei saperi apparentemente “inutili” ma fondamentali per (ri-)generare dignità umana, amore e verità. E proprio per far fruttificare questi saperi inutili, l’ultimo romanzo di Rasha al-Ameer (tradotto anche in italiano) è scaricabile gratuitamente. Una scelta che può sembrare assurda, se si pensa che il Libano è nella sua più grave crisi economica, e che le case editrici lottano per sopravvivere. Oppure una scelta logica e coraggiosa, se chi la compie crede fermamente nell’indispensabilità del libro, o nell’utilità dell’inutile.

 

Polvere d’archivio

 

Senza dubbio, il contributo più importante che Lokman Slim ha dato al Libano è però quello della memoria. Insieme alla moglie Monika Borgmann, fonda nei primi anni duemila UMAM (“Nazioni”), che porta avanti un prezioso e instancabile lavoro di archiviazione storica da tutti consultabile, tappa necessaria per chiunque sia interessato alla storia moderna del Levante arabo e ancora di più, tappa imprescindibile per il Libano stesso, che fatica a fare i conti con il passato. Su questa più o meno voluta amnesia collettiva, merita una menzione particolare la profonda e dolorosa elegia di Wissam Saade (un giornalista che a sua volta ha vissuto omicidi e intimidazioni da vicino),[3] che ammette tristemente di essersi tenuto lontano da quello che definisce un laboratorio professionale di documentazione della guerra di Lokman, bramando piuttosto l’oblio e sperando negli inciampi della memoria.

 

Un desiderio inconscio di molti libanesi, che fa risaltare l’opposta, ostinata volontà di UMAM di conservare la memoria collettiva, di far dialogare le narrazioni, i ricordi, i volti. Anche a questo scopo nasce qualche anno dopo lo spazio espositivo The Hangar, dedicato in particolare a dar voce, attraverso l’arte, a grandi temi irrisolti e controversi, nella convinzione che solo l’accettazione del passato permetterà di scacciare spettri presenti e minacce future, raggiungendo la tanto millantata “riconciliazione nazionale”. Infine, è sempre nella stessa dolorosa operazione di ricostruzione della memoria più o meno recente che si devono leggere i due più importanti prodotti cinematografici di Monika e Lokman, Massaker (2005) e Tadmor (2016). Nel primo, sei miliziani cristiani rivivono il loro ruolo nel massacro di Sabra e Shatila (1982); nel secondo, si dà voce alle brutali detenzioni nella prigione siriana di Palmira, un tassello fondamentale di quel progetto che è il MENA Prison Forum.

 

Se questa carrellata di sforzi personali per esercitare la memoria, questi archivi polverosi e paroloni come “riconciliazione nazionale” risultano un po’ troppo intellettuali e un po’ troppo teorici, consiglio di visitare una sezione in particolare del progetto UMAM che si chiama “Chi ha ucciso chi?”. Un dīwān (registro ufficiale) volto a documentare gli omicidi che hanno preso di mira figure politiche e mediatiche libanesi, dall’assassinio del politico Maarouf Saad il 6 marzo 1975, all’omicidio del fotografo freelance trentaseienne Joe Bejjani il 21 dicembre 2020, fino a oggi, all’uccisione di Lokman Slim il 4 febbraio 2021. Come ricorda Rāmī al-Amīn, l’assassinio politico era uno degli argomenti di ricerca che più interessava Lokman. Credeva infatti che fosse necessario documentare ogni possibile pezzo di carta per cercare di scoprire “chi c’era dietro”. In questo registro ufficiale curato da UMAM, ogni persona uccisa ha la sua voce consultabile, con gli articoli di giornale ad essa relativi. Nella voce dedicata a Bejjani, un articolo del quotidiano Nidā’ al-Watan si chiedeva: ‘Chi sarà il prossimo?’.

 

Come è chiaro da questi brevi paragrafi, che fanno veramente poca giustizia a un lavoro pluridecennale, Lokman Slim aveva la preoccupazione “senza moderazione” di costruire un magazzino della memoria, con la certezza che anche la più polverosa delle riviste aveva qualcosa a che fare con la costruzione di uno stato laico e neutrale di cittadini liberi.

 

Un retore arabo, una vita “retorica”

 

Questa considerazione richiama parole importanti, spesso riecheggiate nelle proteste libanesi dell’ottobre 2019: laicità, cittadinanza, libertà intellettuale, neutralità. Proprio quest’ultimo tema, la neutralità libanese, scatenò uno dei più famosi episodi di intimidazione nei confronti di Lokman: la tenda The Hub allestista in Piazza dei Martiri durante le rivolte dell’ottobre 2019, sotto la quale lui e altri conferenzieri stavano dibattendo, è stata attaccata e bruciata, seguita da altre tende, in uno dei diversi moti di contro-protesta.

 

Di intimidazioni simili Lokman Slim ne riceveva già da 15 anni, tra cartelli affissi alla sua Villa e minacce più concrete. A queste, rispondeva con qualche battuta, senza mai abbandonare la sua proverbiale padronanza dell’arabo fushā, la sua ars retorica (‘ilm al-balāgha).

 

La balāgha (eloquenza e retorica) è un aspetto fondamentale della cultura araba e possiede un sostrato etimologico interessante: il sostantivo deriva dall’idea di “raggiungere” un certo obiettivo, di “arrivare a maturità”, di “fare un certo sforzo per ottenere qualcosa” (tant’è che balighān mā balagha significa “a tutti i costi”). Infine, l’aggettivo balīgh non indica solo una persona “eloquente”, ma anche una parola “penetrante”, “profonda”, “intensa”.

 

Poco più di un anno fa, in un comunicato con cui rispondeva alle minacce ricevute, Lokman rilasciò una dichiarazione molto “retorica”: non solo descriveva in un arabo impeccabile gli aggressori come «pipistrelli delle tenebre», ma ne indicava anche nome e cognome, un esercizio totalmente “retorico”, appunto, considerando che tutto il Libano sapeva chi stava dalla parte di chi.

 

Il comunicato terminava con una formula di chiusura tipica dello stile epistolare dell’arabo classico: Allāhumma qad ballaghtu, letteralmente, “Dio [ne è testimone], ho fatto pervenire [il mio messaggio]”, traducibile con un semplice: “Giuro, ho detto tutto”. Forse Lokman non è morto solo per le sue idee, che non cessava di esprimere da decenni. Forse Lockman non è mai stato un riferimento politico-culturale per molti dei suoi connazionali e il suo lavoro, volente o nolente, è rimasto di nicchia. Però Lokman qad ballagha, “ha detto tutto”, “a tutti i costi” e la sua eredità continuerà a farlo per lui. È pur sempre una speranza integra, in un Libano frantumato che di speranza non sembra averne più molta.

 

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[1] Segnaliamo qui i suoi “pseudonimi” scherzosi degli ultimi anni con cui amava firmarsi soprattutto su Facebook e Twitter: “il signor Jin” e “la mia ragazza cattiva”.
[2] Si veda l’interessante intervista a Lokman Slim: https://www.lesclesdumoyenorient.com/Portrait-de-Lokman-Slim.html.
[3] Si veda: Sarah El Richani, The Lebanese Media: Anatomy of a System in Perpetual Crisis, Palgrave Macmillan, London 2016, p. 155.

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