Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:49:32
«Una parola comune tra noi e voi»: E’ con questo titolo che 138 rappresentanti dell’Islam contemporaneo, riuniti nel quadro dell’Accademia giordana di Amman per le Ricerche relative alla Civiltà Islamica, hanno indirizzato, il 13 ottobre 2007, una «Lettera aperta» ai capi religiosi della diverse comunità cristiane del mondo intero, in occasione della festa della Rottura del Digiuno del Ramadan e del primo anniversario della «Lettera aperta» dei 38 «sapienti musulmani» a S.S. Benedetto XVI. Questo titolo è specificamente coranico, in quanto [i musulmani] sono invitati dal loro libro sacro a dire: «O Gente del Libro, venite a una parola comune tra noi e voi» (3,64).
È noto che in seguito alla conferenza teologica di Ratisbona del 12 settembre 2006 e ad una malaugurata citazione dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo, parecchi musulmani avevano protestato, pacatamente o rabbiosamente, prima di essere finalmente rassicurati sulle intenzioni di Benedetto XVI, come ha dimostrato la riuscita della sua visita in Turchia alla fine del novembre 2006: il dialogo interreligioso rimane una delle sue priorità e [il Papa] ne ha ancora dimostrato l’importanza e l’urgenza partecipando a Napoli all’«Incontro delle Religioni per la pace» organizzato, dopo Assisi 1986, dalla Comunità di Sant’Egidio.
La «Lettera aperta» dei 38 «sapienti musulmani» del 15 ottobre 2006, che sviluppava la loro riflessione in otto importanti paragrafi, ha suscitato molti apprezzamenti che si possono trovare in La conférence de Ratisbonne. Enjeux et controverses di Jean Bollack, Christian Jambet e Abdelwahab Meddeb (Paris, Bayard, 2007) e in Dio salvi la ragione con i testi di Benedetto XVI e le riflessioni di Glucksman, Farouq, Nusseibeh, Spaemann e Weiler (Siena, Cantagalli, 2007).
La presente «Lettera dei 138» si presenta dunque come l’espressione di un consenso allargato quanto ai firmatari e di una ripresa dell’uno o dell’altro dei passi essenziali della «Lettera dei 38». La sua novità sta in una ridefinizione del monoteismo affermato, in forme diverse, da musulmani, ebrei e cristiani, avendo come tema primordiale la medesima confessione del Dio vivente, uno e unico, nel quadro del duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo, caro alla tradizione giudeo-cristiana. Non sarebbe dunque esagerato insistere sullo «spirito di apertura» che questa «Lettera» rappresenta per il dialogo islamo-cristiano, ed è per questo che vale la pena comprenderne con intelligenza il tenore e apprezzarne in positivo le affermazioni, non senza interrogarsi anche su certi silenzi quanto ai versetti coranici che ai cristiani fanno ancora problema.
Espressione di un «consenso» allargato (ijmâ‘)
I firmatari della «Lettera», in numero di 138, rappresentano 43 nazioni, di tradizione islamica o di contesto occidentale: ‘ulamâ’, muftî-s, teologi, giuristi, intellettuali, essi appartengono per la maggiornaza al mondo sunnita, ma vi si contano dei rappresentanti dello sciismo come pure di altri gruppi minoritari. Si sa l’importanza che ha per i musulmani l’espressione del loro «consenso» (ijmâ‘), terza fonte dell’ortodossia dopo lo stesso Corano e la Tradizione (Sunna) del Profeta. Tutti sono stati sollecitati dall’Accademia giordana Âl al-Bayt (Le genti della Casa del Profeta) per le ricerche sulla civiltà islamica, [accademia] che, grazie all’interesse rivoltole dal defunto re Hussein come pure da suo fratello, il principe Hassan, si è impegnata da quasi vent’anni, in numerosi colloqui islamo-cristiani, tanto con gli anglicani quanto con gli ortodossi, i cattolici e i luterani.
Tutti hanno potuto prendere visione del testo e apportarvi osservazioni, suggerimenti e cambiamenti. Tra i firmatari – secondo l’ortografia della versione inglese – spicca particolarmente la presenza degli algerini Mustafa Chérif, ex ministro ed ambasciatore, il quale ebbe l’onore di essere invitato, l’11 novembre 2006, alla tavola di Benedetto XVI per un colloquio dei più franchi, e di Bu Abd Allah Ghulam Allah, ministro degli Affari religiosi ad Algeri, del turco Ekmeleddin Ihsanoglu, segretario generale dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, del saudita Abd Al-Aziz bin ‘Uthman Al-Tweijiri, direttore generale dell’ISESCO (Organizzazione Educativa. Scientifica e Culturale Islamica), del libanese Muhammad Al-Sammak, segretario generale del Consiglio nazionale per il Dialogo Islamo-cristiano, e di Hisham Nashabeh, presidente dell’Associazione libanese di Maqâsid, dei siriani Shakir Al-Fahham, presidente delll’Accademia della Lingua Araba, e Muhammad Sa‘id Ramadan Al-Buti, decano della facoltà di Sharî‘a di Damasco, degli egiziani ‘Ali Jum‘a, gran muftî della Repubblica d’Egitto, Ahmad Muhammad Al-Tayeb, rettore dell’Università di Al-Azhar, Hasan Hanafi, professore di filosofia all’Università del Cairo, e ‘Izz Al-Din Ibrahim, consigliere accanto al primo Ministro degli Emirati Arabi Uniti, del libanese Aref Ali Nayed, ex professore al PISAI di Roma e all’università di Kulua Lumpur, Malesia, dell’iraniano-americano Seyyed Hossein Nasr, professore alla George Washington University, del bosniaco Mustafa Cerish, gran muftî a Sarajevo, del marocchino Abdel-Kabeer al-Alawi Al-Madghari, ex ministro degli Affari religiosi a Rabat, e infine del principe giordano Ghazi bin Muhammad bin Talal, presidente dell’Accademia di Amman.
Struttura della «Lettera dei 138»
Sulla base della traduzione francese proposta dal sito internet dell’Accademia, due pagine d’introduzione rimandano musulmani, cristiani ed ebrei al loro comune monoteismo. Ai primi il Corano ricorda: «E’ Lui Dio, L’Uno, l’Autosufficiente» (112,1-2) e «Invoca dunque il Nome del Signore e chinati (tabattal) di reverenza a Lui» (73,9). Ai secondi Gesù insegna: « “Ascolta Israele, Il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno. Amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”.
Questo è il primo comandamento. Il secondo gli è simile: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Non c’è comandamento più importante di questi» (Mc 12, 29-31). Questo duplice comandamento è, nella Lettera, dedotto dal versetto già citato ma così sviluppato: «O Gente del Libro, veniamo a una parola comune tra noi e voi: [cioè] che noi non adoriamo che Dio, senza niente associargli, e che tra noi nessuno si prende altri come signori al di fuori di Dio. Poi, se essi voltano le spalle, ebbene allora dite: Siate testimoni che, sì, siamo noi che siamo i Sottomessi «O Gente del Libro! veniamo a un accordo equo tra noi e voi: decidiamo cioè di non adorare che Dio, e di non associare a Lui alcuna cosa, di non sceglierci fra noi padrone alcuno che non sia Dio. Se poi non accettsano, dite loro: “testimoniate almeno ch noi ci siam dati tuti a Dio!” O Genti del Libro! Venite a una parola comune tra noi e voi: che non adoriamo altri che Dio, e non associamo a Lui cosa alcuna, e che nessuno di noi scelga altri signori accanto a Dio.
E se essi non accettano dite loro: Testimoniate che siamo coloro che si sono dati completamente a Lui. (3, 64). Ricordano allora che il Corano invita Maometto e i musulmani al dialogo come segue: «Chiama a seguire la Via del tuo Signore con la saggezza e la buona esortazione, e non discutere con loro se non nel modo migliore. E’ il tuo Signore che conosce al meglio colui che si smarrisce dalla Sua via, come Egli conosce al meglio coloro che sono ben guidati » (16, 125).
Chiama gli uomini alla Via del Signore con saggi ammonimenti e buoni, e discuti con loro nel modo migliore, ché il tuo Signore meglio di chiunque conosce chi dalla Sua via si allontana, meglio di chiunque conosce i diritti.
Chiama gli uomini alla Via del Signore con la saggezza e i buoni ammonimenti e discuti con loro nel modo migliore, perché il tuo Signore meglio di chiunque conosce chi si allontana dalla Sua via, meglio di chiunque conosce chi è ben guidato. La Lettera sviluppa le sue argomentazioni in tre sezioni.
La prima sezione considera «l’amore di Dio» (hubb Allâh), dapprima in Isaia (5 pagine), poi nella Bibbia (2 pagine). Partendo dalla shahâda (testimonianza di fede) e mantenendone solo la prima parte, la grande shahâda, «non c’è altro dio che Dio», il testo sviluppa il monoteismo (tawhîd) a partire da un «detto» (hadîth) di Maometto che afferma che «la miglior cosa che noi abbiamo detto, io e i profeti, che mi hanno preceduto, è la parola: « “Non c’è altro dio che Dio, l’Unico, senza associati, a lui il potere (mulk), così come la lode (hamd), Egli è potente sopra ogni cosa”» ‘non c’è dio se non Iddio, l’Unico, senza associati, Suo è il Regno, Sua è la lode ed Egli è Potente su tutte le cose’ IIlustrando ciascuna delle affermazioni di questa hadîth con numerose citazioni del Corano (33, 4; 2,165; 39,23; 67,1; 29,61-63; 14,32-34; 1,1-7; 19,96; 2,94-196; 9,38-39; 64,1; 64,4; 64, 16; 6,162-164; 3,31; 73,8), spesso corroborate da altre hadîth-s.
Bisogna qui segnalare che il solo versetto coranico dove si tratta dell’«amore di Dio» non si presenta sotto la forma di un comandamento, ma anzi piuttosto in un contesto di polemica: «E si tratta di genti che adottano, al di fuori di Dio, dei rivali, li amano come di un amore di Dio. O quelli che credono di essere più forti nell’amore di Dio» (2,165). La Lettera non menziona affatto, e pour cause, il versetto dove si dice che «Dio susciterà un popolo che Egli ama e che Lo ama susciterà uomini che Egli amerà come essi ameranno Lui» (5,54), perché si è dapprima parlato dell’apostasia di certi, poi di una comunità «umile coi credenti e fiera coi miscredenti»! Le due pagine che trattano dell’amore di Dio nella Bibbia riprendono l’«Ascolta Israele» del Deuteronomio (6,4-5) come Gesù Cristo lo ripetee nel suo insegnamento dei due comandamenti che si fondono in uno (Mt 22,34-40; Mc 12,28-31), eco evangelico di Dt 4,29; 10,122; 11,13; 13,3; 26,26; 30,2; 30,6; 30,10; e di Jo 22,5, ripreso da Mc 12,32-33 e Lc 10,27-28. La Lettera precisa, in Mt 22,37 e in Mc 12,30-34, come pure in Lc 10,27-28, i rispettivi sensi delle parole greche «cuore», «anima», «intelligenza» e «forza». Tutte citazioni o riferimenti che, in definitiva, confermerebbero l’insegnamento della hadîth profetica citata sopra.
La seconda sezione tratta dell’«amore del prossimo (o del vicino)» (hubb al-jâr) in meno di due pagine. Nell’Islam, secondo la hadîth profetica, «Nessuno tra di voi è credente fintanto che non ama per suo fratello (o il suo vicino) ciò che ama per se stesso», da cui l’insistenza sulla «pietà (birr), [che] è donare dei propri averi, per l’amore che gli si porta, ai parenti, agli orfani, ai poveri, ai viandanti e ai mendicanti; la pietà è anche riscattar prigionieri, compiere la preghiera, pagare la decima, restare fedele ai Suoi insegnamenti, mostrarsi paziente nelle avversità, nella sfortuna e di fronte al pericolo. Tali sono le virtù che caratterizzano i credenti pii e sinceri» (2,177), pietà di cui Dio è sempre il primo e l’ultimo testimone (3,92). Trattandosi della Bibbia, il testo rinvia a Mt 22,38-40 e a Mc 12,31, il cui dettaglio è già fornito dal Levitico (19,17-18). In conclusione si dice che «da questi due comandamenti dipende tutta la Legge (Nâmûs) e i Profeti» (Mt 22,40).
La terza sezione commenta infine, in quattro pagine, il «Veniamo a una parola comune tra noi e voi» (3,64). La «parola comune» consiste nel duplice comandamento dell’amore del l’unico Dio e del prossimo, con ripresa delle citazioni precedenti (Dt 6,4; Mc 12,29 ; Mt 22,40 ; Coran 112,1-2), prova che Maometto non ha apportato niente di nuovo (Corano 41,43 ; 46,9), da cui il rifiuto degli idoli e il compimento di ogni giustizia (Corano 16,36; 57,25). E il «Veniamo » che invita a «non associare a Lui cosa alcuna e non sceglierci [fra noi] padrone alcuno che non sia Dio» (3,64) intende significare, secondo il grande commentatore Tabarî, che «musulmani, cristiani ed ebrei dovrebbero essere liberi di seguire quello che Dio ordina loro, senza avere da ‘prosternarsi davanti a re od altri’», il che si collega allora col «Non vi sia costrizione nella fede» (2, 256), che garantisce una libertà religiosa «sotto condizione» (60,8): « In quanto musulmani, noi diciamo ai cristiani che noi non siamo contro di loro e che l’Islam non è contro di loro, fintanto che essi non dichiarano la guerra ai musulmani a a causa della loro religione, che non li opprimono e non li scacciano dalle loro case».
La Lettera rinvia i cristiani alla loro Bibbia (Mc 12,29-31; Mt 12,30; Mc 9,40; Lc 9,50) dove Gesù dichiara: «Chi non è contro di noi è per noi» (Mc 9,40). Ora, afferma la Lettera, i musulmani credono in Gesù «inviato da Dio, suo verbo deposto nel seno di Maria, spirito emanante da Lui» Ché il Cristo Gesù figlio di Maria non è che il messaggero di Dio, il Suo Verbo che egli depose in Maria, uno Spirito da Lui esaltato (4,171): vi sarebbe dunque là una «credenza comune», anche se la fede dei cristiani riguardo Gesù è molto diversa: non è Yasû‘ (Dio salva) per questi ultimi mentre è‘Îsâ per i musulmani? La stessa Lettera riconosce che, tra la Gente del Libro, c’è una «comunità retta che recita i versetti di Dio ve n’ha di retti che recitano i Segni di Dio» (3,113-115), pur affermando che i musulmani credono ugualmente in tutti profeti della storia (2,136-137). Il «tra noi e voi» è infine un appello ad unire le testimonianze dei credenti («essi sono il 55 % della popolazione mondiale») di fronte ai pericoli dell’ora, perché le tre religioni monoteiste dovrebbero garantire la pace agli uomini d’oggi. Referimenti vengono fatti al Corano (16,90) e al Vangelo (Mt 5,9; 16,26).
E la Lettera va a citare in conclusione il versetto del «pluralismo religioso»: «Se Dio l’avesse voluto, Egli avrebbe fatto di voi una comunità unica (umma). Ma non l’ha fatto, per mettervi alla prova in quello che Egli vi dona; gareggiate dunque nelle buone opere (fa-stabiqû l-khayrât): verso Dio è il vostro ritorno per tutti» (5,48).
Se Iddio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una Comunità Unica, ma ciò non ha fatto per provarvi in quel che vi ha dato. Gareggiate dunque nelle opere buone, ché a Dio tutti tornerete
Testo innovatore e tradizionalista al tempo stesso
I firmatari della Lettera hanno anche voluto rileggere i migliori testi del Corano e della Sunna alla luce del duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo che è al cuore del credo ebraico e della fede cristiana. Insistendo solo sulla prima parte della shahâda, essi intendono definire appunto il monoteismo attraverso questo duplice amore di Dio e del prossimo, conferendo anche alla loro lettura del Corano questa cura di interiorizzazione spirituale che rivela già la «Lettera dei 38»: questa insiste sulla «vicinanza di Dio» di fronte ad ogni credente.
Una hadîth riferita da Ghazâlî non dice forse che «Chiunque dice ‘Non c’è altro dio che Dio’ ha diritto di entrare in paradiso»? Agli atteggiamenti classici di obbedienza, di sottomissione e di adorazione si sostituisce un lessico che può sembrare comune a musulmani, ad ebrei e cristiani: si tratta di amare, ed è vero che il Corano afferma che Dio ama «i pii» (3,76; 9,4; 9,7), «chi fa il bene» (3,134; 3,148; 5,13; 5,93), «i pazienti» (3,146), «i giusti» (5,42; 49,9; 60,8), «i puri» (9,108) e «quelli che confidano in lui» (3,159), anche se i suoi 99 Bei Nomi non dicono affatto che egli sia «amante» (muhibb). Ed ecco che l’amore di Dio e l’amore del prossimo sono così strettamente legati nella Lettera che sembrano essere inseparabili l’uno dall’altro: nessuno potrebbe pretendere di amare Dio se non ama il suo prossimo!
Affermazione che sembra del tutto naturale ai cristiani, in quanto fa parte dei principî stessi della loro fede e della loro pratica, ma affermazione stranamente nuova per molti musulmani, i quali coniugano volentieri islam con adorazione rispettosa e sottomissione fiduciosa. Per di più, i testi della Bibbia sono spesso citati dalla Lettera senza il minimo sospetto di «falsificazione» (tahrîf) verso di loro e una delle 23 note che la commentano fa addiritttura riferimento a un testo di San Paolo (nota 4). Queste note costituiscono d’altra parte, già di per sé, altri sforzi leali per trovare dei valori comuni ai tre monoteismi. Cosa rappresenta esattamente di questa Lettera dagli accenti inattesi e quale ne è in realtà il testo di riferimento? È quello pubblicato in arabo o piuttosto quello trasmesso in inglese? Parrebbe fosse quest’ultimo.
Effettivamente, se questo parla dell’«amore di Dio nella Bibbia» («in the Bible»), il testo arabo dice «nel Vangelo» (ciò che fa attribuire a questo un Antico Testamento!), e se cita Gesù Cristo, la versione araba parla di « ‘Îsâ l-Masîh », espressione che non è né coranica (al-Masîh tout court, o ‘Îsâ ibn Maryam) né cristiana (Yasû‘ al-Masîh), ma che traduce esattamente il Jesus Christ dell’inglese. Ma altri dettagli sembrano far propendere a conferire una certa priorità. Ed ecco che il lettore ne sa quanto prima! Stupisce anche questo, che una bellissima hadîth citata nel testo arabo non sia stata tradotta nelle versioni inglese, francese e italiana: «Gli esseri umani, essa dice, costituiscono la famiglia di Dio (‘Iyâl Allâh): colui che è il più amato da Dio è colui che è il più utile alla sua famiglia».
Comunque sia, la Lettera non si allontana da una presentazione tradizionale, accumulando citazioni coraniche e hadîth-s profetiche, pur isolandole dal loro contesto, il che permette di dare loro un’interpretazione allargata e dialogica. Uno sforzo lessicale è ugualmente mantenuto perché si fa ancora menzione della «Gente del Libro» (ebrei e cristiani), vi si parla anche di ebrei e di cristiani come tali, chiamando questi ultimi Masîhiyyûn e non Nasârâ. Di più, i testi inglese, francese e italiano non traducono mai il termine coranico muslim con «musulmano» (cosa che fanno, di contro, numerose traduzioni islamiche) ma piuttosto con «soumis à Dieu», «surrendering unto God», «sottomesso a Dio», il che vale per ogni monoteista, che egli sia musulmano, ebreo o cristiano. Tutti elementi che indicano uno sforzo per adattarsi agli interlocutori, anche se la Lettera comincia con la formula classica «Nel Nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso» e si conclude con l’augurio della pace (wa-l-salâmu ‘alay-kum).
Per un corretto discernimento di questa Lettera promettente
Non si possono certo comprendere le intenzioni e il contenuto di questa Lettera se non situandole nella prospettiva della «Lettera dei 38» dell’ottobre 2006, la quale non era malauguratamente senza accento polemico: redatta in fretta, a quanto pare, essa intendeva pronunciarsi in rapporto al discorso della conferenza di Ratisbona. Essa situava il contesto storico di «Non vi sia costrizione nella fede», attenuava la sola trascendenza di Dio affermando che Egli è anche prossimo della sua creatura, affermava l’uso armonioso della fede e della ragione nell’islam, precisava che ne è delle diverse forme di jihâd, ricordava che le conquiste islamiche hanno rispettato la religione delle popolazioni sottomesse, concedendo loro uno statuto de «protetti» (statuto di dhimma), diceva che Maometto non ha mai preteso di apportare alcunché di nuovo, contestava la scelta fatta da Benedetto XVI dei suoi esperti, essa si appellava infine al dialogo e alla collaborazione citando ampiamente i testi del Vaticano II e le dichiarazioni di Giovanni Paolo II. Essa era indirizzata al solo Benedetto XVI, mentre la presente Lettera è inviata a tutti i responsabili delle comunità cristiane e nell’esatto rispetto una certa gerarchia di prestigio o di titolatura, sollecitando da loro, in qualche modo, una risposta ecumenica al contenuto della Lettera. Il suo tono è dei più irenici, anche se certe citazioni coraniche sarebbero da precisare, mentre altre, non richiamate, solliciterebbero proprio dei chiarimenti, come suggeriva già Abdelwahab Meddeb nel suo commento alla «Lettera dei 38» (cf. La conférence de Ratisbonne: enjeux et controverses, Paris, Bayard, 2007, pp. 63-100).
Ecco dunque un testo che raccoglie un gran numero di responsabili musulmani di tutte le scuole e sensibilità, e che si indirizza all’insieme dei capi delle comunità cristiane del mondo intero, rammentando agli uni e agli altri la loro comune responsabilità di fronte a un’umanità che non finisce mai di conoscere malintesi, conflitti e divisioni di ogni sorta. Paradossalmente, l’invito qui rivolto a tutti si iscrive nella retta linea di ciò che auspicava la Dichiarazione conciliare sulle Relazioni della Chiesa con le altre religioni: «Promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà». Si tratta così di forme moderne dell’amore del prossimo che la presente Lettera intende collegare strettamente all’amore di Dio, espressione allora perfetta di un monoteismo «amoroso», persino « saporoso » come lo contempla un Ibn Khaldûn ai suoi tempi (tawhîd dhawqî). I testi coranici da essa utilizzati non sono forse stati instancabilmente richiamati e meditati nei numerosi incontri islamo-cristiani che hanno conosciuto gli ultimi quattro decenni? Tutti i partners del dialogo li conoscono benissimo, mentre altri testi (dagli accenti bellicosi o con disposizioni discriminatorie), attendono ancora una ri-lettura che ne contestualizzi il contenuto. Conviene dunque rallegrarsi che questo ijmâ‘ contemporaneo voglia privilegiarli nel quadro di un rinnovato dialogo, in cui il duplice amore di Dio e del prossimo appare come l’espressione perfettta della fede in un Dio unico, Creatore e Misericordioso. La prima enciclica di Benedetto XVI non aveva forse per titolo «Dio è amore»? La tradizione musulmana non ha sempre ripetuto che la fede senza le opere non basterebbe per il buon esito del credente? L’invito a «gareggiare nelle opere buone» sembra proprio dover corrispondere alle urgenze dell’ora, in un mondo minacciato dallo «scontro di civiltà» e dai rischi della globalizzazione. Senza che per questo occorra aderire alle proposte concrete, di sfumatura politica o strategica, della conclusione della terza sezione, e pur respingendo [il fatto] che la Lettera non denuncia in alcuna delle sue pagine gli atti di violenza o di terrorismo che certi gruppi di musulmani commettono al giorno d’oggi «in nome di Dio», ammesso che ci sia una ragione, bisogna purtuttavia accogliere con interesse i suggerimenti che essa prende in considerazione per il dialogo di domani, perché, «se i musulmani e i cristiani non vivono in pace tra di loro, il mondo non può essere in pace». La loro «parola comune» dovrebbe dunque comprendere tutte le forme attuali del duplice amore di Dio e del prossimo: i loro dialoghi dovrebbero intrecciarsi sulle loro esperienze spirituali e sui loro rinnovamenti teologici, così come il «loro prossimo» non dovrebbe essere limitato ai soli orizzonti dei loro correligionari, perché si tratta né più né meno di pensare a tutto e a tutti; si tratta delle «nostre anime eterne» di cui è in gioco il destino.
La Lettera non dice forse che «le stesse verità eterne che sono l’unicità di Dio, la necessità di amare e di adorare Dio totalmente (escludendo ogni falsa divinità) e la necessità di amare tutti gli esseri umani, nostri simili (e dunque la giustizia) sottendono ogni religione vera»? E’ proprio quello che affermano i cristiani da quasi venti secoli, riprendendo così e precisando meglio la testimonianza-messaggio confidata un tempo ad Israele, il popolo della prima alleanza: credere in Dio, l’Unico, significa conoscerlo ed amarlo, e riconoscere anche che tutti gli esseri umani, creati a sua immagine e somiglianza, sono degni di essere amati da tutti dell’amore stesso di cui Egli è amato.
Converrebbe dunque accogliere questa Lettera come l’alba di una tappa nuova nel dialogo islamo-cristiano, che permetterebbe ai partners di discutere finalmente dei problemi fondamentali che li differenziano, li dividono, li oppongono, allo scopo di lavorare insieme per l’applicazione concreta di quei Diritti dell’Uomo, definiti nel 1948, che corrispondono tanto alle esigenze del diritto naturale, caro ai cristiani, che ai principi della Sharî‘a che i musulmani privilegiano, anche se i loro antropologi e i loro teologi ne danno una diversa giustificazione. L’esperienza acquisita da quarant’anni in occasione di molteplici incontri islamo-cristiani e l’accoglienza positiva che hanno riservato a questa Lettera numerose personalità e istituzioni cristiane dovrebbero permettere nuovi sforzi che, associando ebrei e uomini di buona volontà, conferirebbero tutta la sua ampiezza e la sua efficacia al duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo che questa «Lettera dei 138» ha voluto presentare come «parola comune» a tutti i monoteisti che fanno riferimento ad Abramo, ed anche ad Adamo prima di lui. Effettivamente, «tutti gli esseri umani costituiscono la famiglia di Dio: colui che è il più amato da Dio è colui che è il più utile alla sua famiglia».