Il multiculturalismo britannico è sempre più in discussione. Gli Sharia councils rischiano di portare al separatismo sociale, ma al tempo stesso forniscono importanti servizi per i musulmani inglesi. La storia di un dibattito
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:59:19
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A partire dal 2001, la gestione del Regno Unito come società multietnica e multiculturale è sembrata sempre più problematica, mentre i principi sui quali essa si fondava negli anni ‘60 sono stati messi ampiamente in discussione. Ciò è dovuto in parte alla varietà delle popolazioni con cui i governi, nazionali e locali, hanno avuto a che fare: negli anni ’50 gli immigrati dai Caraibi; negli anni ’60 e ’70 quelli dall’Asia meridionale, con culture e lingue specifiche; negli anni ’90 e 2000 i migranti economici dall’Europa orientale e dall’Africa subsahariana e i rifugiati provenienti da tutto il mondo. Città come Londra sono diventate “iper-diversificate”, e questo ha creato molti problemi di amministrazione. Allo stesso tempo, la vita dei discendenti delle prime ondate di immigrati, nati e cresciuti in Gran Bretagna, hanno subito profondi cambiamenti.
Questi sviluppi si riflettono nel modo in cui la diversità è stata concettualizzata in Gran Bretagna. Se negli anni ’50 e ’60 l’alterità delle minoranze provenienti dall’Asia meridionale era rappresentata attraverso il linguaggio della “razza” o del “colore” (per esempio parlando di “relazioni razziali”), negli anni ’70 e ’80 attraverso l’“etnia” e la “cultura”, dagli anni ’90 in poi la “religione” è diventata sempre più predominante. In una complessa relazione dialettica con la realtà della vita quotidiana, la politica del governo ha posto l’accento sulla “fede” quale modalità di riconoscimento e interazione con le minoranze. La nozione di “fede” tuttavia è ambigua, soprattutto quando questa significa “Islam”, considerato spesso una forza aggressiva e conservatrice, di fatto una minaccia esistenziale, promotore di valori in contrasto con la democrazia liberale laica. Dopo il 2001, sono stati proprio l’Islam e la radicalizzazione della gioventù musulmana a diventare fonte di preoccupazione per la gestione dell’alterità, alimentando crescenti timori sulla portata e la natura della diversità, e spesso un’ostilità aperta verso il multiculturalismo.
Gli immigrati e i gruppi etnici minoritari sarebbero stati «Qui ma Diversi»
A partire dagli anni ’60, il multiculturalismo britannico ha seguito la cosiddetta “Formula Jenkins”, dal nome dell’allora ministro laburista degli Interni Roy Jenkins, che prevedeva la limitazione e il controllo dell’immigrazione, la ridefinizione della nazionalità britannica, la regolazione delle “relazioni razziali” attraverso leggi per combattere la discriminazione e una spinta verso l’“integrazione”, definita come «l’insieme di pari opportunità e diversità culturale, in un clima di reciproca tolleranza»[1]. Il futuro degli immigrati e dei loro discendenti si giocava all’interno di una sfera pubblica comune di norme e valori condivisi, con pari opportunità di occupazione, alloggio, istruzione, salute e welfare, uguaglianza davanti alla legge e protezione dal razzismo. Credenze, pratiche religiose, lingue e valori specifici rientravano nella sfera privata. Gli immigrati e i gruppi etnici minoritari sarebbero stati «Qui ma Diversi». Nonostante il progresso non sia stato né uniforme né incontestato, e diverse relazioni abbiano continuato a documentare i molti problemi delle minoranze, c’è stato un graduale passaggio verso una Gran Bretagna più plurale e più equa.
All’alba del nuovo millennio però, e poi sempre di più, il multiculturalismo è stato messo in discussione: si pensava che fosse diventato troppo “forte” e stesse portando al separatismo sociale, economico, culturale, religioso ed educativo. Il 2001 è stato un anno cruciale nella mobilitazione dell’opinione pubblica, in primo luogo a causa dei disordini scoppiati nelle città etnicamente miste nel Nord della Gran Bretagna, che sono stati all’origine di profonde riflessioni sull’alienazione delle minoranze e in particolare dei giovani musulmani, e poi per l’11 settembre. Un rapporto sui disordini del 2001[2], per esempio, ha registrato i timori che molte comunità conducessero sempre più «vite parallele», in uno sviluppo che il governo ha ritenuto intollerabile. Oltre all’allarme sulla ghettizzazione, il multiculturalismo veniva accusato di trasgredire i principi della democrazia liberale, di essenzialismo, di trattare le culture come blocchi etnolinguistici statici e definiti, di privilegiare la cultura patriarcale e l’autorità religiosa ostacolando l’emancipazione delle donne e di consentire all’attenzione per la “cultura” di prevalere sulle questioni sociali tradizionali e al razzismo. Si sono ribaditi i valori “britannici” contro i pensieri che li contraddicevano, ed è stato chiesto alle minoranze di dichiarare la loro lealtà allo Stato-nazione in cui risiedono piuttosto che a quello da cui provengono e con cui molti hanno mantenuto legami transnazionali significativi.
Il «caso Islam»
Il caso dell’Islam è emblematico. Esiste un ventaglio di opinioni circa la questione se la società britannica debba accogliere le credenze e le pratiche “altrui”. Per quanto riguarda l’Islam, ad esempio, alcuni negherebbero qualsiasi spazio pubblico alle norme giuridiche ed etiche contenute nella legge e nelle pratiche islamiche, cioè la sharī‘a. Agli antipodi si collocano quei musulmani che insistono sulla sharī‘a nella sua forma incontaminata (secondo la loro interpretazione). Molti altri, tuttavia, musulmani e non-musulmani, prendono le distanze dall’interpretazione della sharī‘a seguita in alcuni Paesi a maggioranza musulmana (le pene hudūd, il riconoscimento del talāq come modalità di divorzio...), ma concedendo qualche spazio ai principi islamici.
A livello internazionale molte persone hanno iniziato a cercare nella religione un orientamento per la propria condotta
Durante gli anni ’90 e 2000 gli appelli al riconoscimento di quei principi si sono fatti insistenti, riflettendo il modo in cui, a partire dagli anni ’70, l’insediamento di migranti di fede islamica aveva coinvolto sempre più le famiglie. È cresciuta l’importanza delle questioni relative alla vita famigliare e alle relazioni di genere e intergenerazionali: la nascita, il matrimonio, il divorzio, la morte, l’eredità, l’educazione dei figli e l’interazione con le scuole, con il welfare e i servizi sociali, con le commissioni edilizie, i consigli locali e via dicendo. Ciò è accaduto nel momento in cui a livello internazionale molte persone (non solo i musulmani) hanno iniziato a cercare nella religione un orientamento per la propria condotta, e a chiedere consiglio su come comportarsi in società che molti consideravano laiche, individualiste e immorali.
Le richieste di riconoscimento del diritto islamico di famiglia, avanzate dai musulmani nel Regno Unito e altrove in Europa e nel Nord America, sono molto controverse, come è emerso dalla risposta a una proposta presentata nel 2008 dall’allora Arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, che chiedeva al Regno Unito di garantire uno spazio a «giurisdizioni supplementari», come i Consigli della Sharī‘a [Sharia councils] – organi semi-giuridici che operano a fianco del sistema giudiziario britannico, ai quali i musulmani si possono rivolgere per le questioni familiari, e che sono stati paragonati, in maniera non sempre corretta, al tribunale rabbinico. La reazione alla sua proposta è stata in generale la richiesta di dimissioni se non di impeachment per tradimento.
Gli Sharia councils
Sebbene in Gran Bretagna la sharī‘a sia diventata tema di dibattito alla fine degli anni 2000, in realtà questi Consigli esistevano fin dai primi anni ’80 e offrivano un parere ai musulmani del Regno Unito sull’applicazione dei principi islamici relativamente ai prodotti halāl, alle pratiche di sepoltura religiosamente corrette o alle transazioni finanziarie. In effetti, la legislazione britannica ha spesso lasciato spazio a queste pratiche, per esempio autorizzando strumenti finanziari conformi alla sharī‘a. Strettamente legati alle moschee, i Consigli avevano destato scarsa attenzione, ma dopo l’intervento dell’Arcivescovo sono emersi diversi gruppi contrari al riconoscimento della sharī‘a in qualsiasi sua forma. Tra questi c’erano movimenti di estrema destra, think tank neo-liberali o neo-conservatori, femministe e attiviste per i diritti umani (musulmane e non), che si opponevano al trattamento riservato dall’Islam alle donne, umanisti e laicisti per i quali la religione non doveva trovare spazio nella sfera pubblica. Secondo alcuni, il riconoscimento della sharī‘a sarebbe la punta di lancia di un islamismo che minaccia i valori britannici: in una società laica dovrebbe esistere “un’unica legge per tutti” e i musulmani dovrebbero attenersi alle regole del loro Paese di residenza.
Prima della controversia sulla sharī‘a, le minoranze, in particolare le famiglie di origine sud-asiatica, sono state messe sempre più sotto esame per le loro pratiche matrimoniali e di divorzio. Nel Regno Unito, così come in Europa, vi è un assunto normativo secondo il quale il matrimonio è una relazione pubblicamente riconosciuta – storicamente tra un uomo e una donna, anche se questo è cambiato – liberamente contratta dagli sposi. Di conseguenza, l’attenzione si è concentrata sui matrimoni organizzati, su quelli che erano considerati matrimoni forzati, e sulle relazioni di genere che questi implicano (a volte si crede erroneamente che questi siano giustificati dall’Islam, in un complesso culturale che comprende la violenza domestica e i cosiddetti “delitti d’onore”).
La preoccupazione pubblica montò alla fine degli anni ’90, quando l’allora governo laburista istituì un comitato il cui rapporto, A Choice by Right, sosteneva che benché ci fosse una differenza tra matrimoni “organizzati” e “forzati”, e nonostante una società multiculturale debba «valorizzare e celebrare la nostra diversità», le pratiche che «compromettono o minano i diritti fondamentali concessi a tutti» non possono essere tollerate[3]. Le misure successive includevano la creazione in seno al Ministero dell’Interno di un’Unità di protezione dal matrimonio forzato e, nel 2006, il varo di una legge che rendeva questa pratica un illecito contro il quale la vittima poteva ricorrere ai tribunali civili. Più tardi, nel 2014, costringere qualcuno a sposarsi è diventato un reato.
Un’altra controversia ha riguardato il fatto se le coppie musulmane dovessero registrare formalmente il loro matrimonio presso le autorità civili oltre a celebrare una cerimonia religiosa (islamica), il nikāh. Il nikāh, che può svolgersi in una moschea o in una casa privata, non produce un matrimonio giuridicamente valido nel Regno Unito. Perché sia valido è necessaria un’altra cerimonia civile, in un edificio registrato, officiata da una persona autorizzata, diversamente dai matrimoni cristiani ed ebrei ma similmente a quelli dei sikh o degli indù. Coloro che non sono passati attraverso una cerimonia civile o religiosa riconosciuta sono semplicemente “conviventi”. Ciò dà ai partner una scarsa tutela giuridica, con conseguenze sui diritti al mantenimento, alla pensione e all’eredità. Le donne in particolare, musulmane e non, possono perciò subire la rottura di una relazione, specialmente se hanno a che fare con un coniuge recalcitrante. Tale questione, così come la questione del divorzio islamico, è stata trattata nel rapporto del Comitato Siddiqui[4], che passiamo ora ad esaminare.
Uno dei compiti principali dei Consigli della Sharī‘a è deliberare sulle domande di divorzio religioso presentate principalmente dalle donne
Uno dei compiti principali dei Consigli della Sharī‘a, e anzi la loro ragion d’essere, è deliberare sulle domande di divorzio religioso (non civile) presentate principalmente dalle donne, per confermare il loro status di musulmane devote e metterle nella condizione di potersi risposare. A differenza della tradizione accusatoria dei tribunali inglesi, i Consigli della Sharī‘a cercano di indagare le circostanze della disputa coniugale e, ove possibile, favorire la riconciliazione. La riconciliazione infatti è un principio fondamentale dei procedimenti dei Consigli, anche se questo non è ciò che vuole una donna che si rivolge alla corte per avere un divorzio religioso.
Il «panel Siddiqui» e la compatibilità con le leggi britanniche
Benché i Consigli evitino di formulare raccomandazioni che potrebbero porli in conflitto con i tribunali civili, per esempio in materia di custodia dei bambini, il loro ruolo nel divorzio religioso e nelle questioni inerenti al diritto di famiglia è molto controverso. Un membro di spicco della Camera dei Lord ha cercato di introdurre una legge che limitasse, e anzi criminalizzasse, le loro attività, con il sostegno di un consorzio di organizzazioni e opinioni di tutto il panorama politico che altrimenti non si parlerebbero: i cristiani, la National Secular Society, le Southall Black Sisters (un gruppo femminista radicale), il Partito per l’indipendenza del Regno Unito, la English Defence League, e think tank di centro-destra. Il tentativo è fallito, ma in quel contesto del 2016 l’allora ministro degli Interni (Theresa May) ha nominato un comitato presieduto da Mona Siddiqui, professoressa di Studi islamici e interreligiosi all’Università di Edimburgo, «per valutare se e in quale misura l’applicazione della sharī‘a potesse essere incompatibile con il diritto vigente in Inghilterra e in Galles, per esempio con la legislazione sull’uguaglianza». Poco dopo, la Commissione Affari interni della Camera dei Comuni ha avviato un’altra indagine per «esaminare come i Consigli della Sharī‘a operano nella pratica, come risolvono le controversie familiari e relative al divorzio e quale sia la loro relazione con il sistema giuridico britannico». Entrambe le indagini hanno svolto un’ampia consultazione, con interviste a esperti e attivisti. La Commissione Affari interni, composta da dieci parlamentari dei principali partiti politici, ha ricevuto oltre quaranta candidature e nel novembre 2016 ha condotto una giornata di interviste: le proposte e la trascrizione si trovano online. Ad oggi, la Commissione non ha prodotto alcuna relazione e, stando a quanto ha sostenuto il Comitato Siddiqui nel febbraio 2018, è improbabile che lo faccia.
Oltre alla professoressa Siddiqui, il Comitato includeva due avvocati specializzati nel diritto di famiglia, un giudice della Corte suprema in pensione e due imam nella veste di consiglieri religiosi. Il suo lavoro si è concentrato sui «modi in cui il ricorso alla sharī‘a potrebbe nuocere alle comunità», sul trattamento delle donne «in particolare nel divorzio, nella violenza domestica e nei casi di affidamento», e sugli esempi di buone pratiche di governo e compatibilità con la legge del Regno Unito. Il Comitato ha iniziato formulando un invito a presentare della documentazione che però è stato rifiutato e boicottato da alcuni oppositori della sharī‘a. In una lettera aperta indirizzata al ministro dell’Interno, 200 «attivisti e organizzazioni per i diritti umani delle donne» affermavano che, benché essi accogliessero favorevolmente questa indagine, i suoi termini di riferimento e le persone coinvolte rischiavano di «comprometterla seriamente». Il governo, sostenevano, aveva «costituito un comitato adatto a una discussione di teologia più che a rispondere ai bisogni delle vittime ed essere capace di indagare tutta l’ampiezza dei danni causati dai Consigli della Sharī‘a, in particolare alle donne». Le obiezioni riguardavano in particolare i due esperti musulmani in ragione della loro partecipazione a un forum online, Imams Online, accusato di assumere «posizioni estremamente problematiche […] su una serie di questioni che dovrebbero senz’altro rientrare nell’indagine». Queste affermazioni sono state contestate da un’altra lettera, redatta dal Muslim Women’s Network UK, che ha raccolto oltre 100 firme:
Quando si tratta di questioni di fede, le donne musulmane dovrebbero poter parlare per loro stesse. Tuttavia, sembra che proprio le voci di queste donne, che i ricercatori dovrebbero ascoltare, vengano marginalizzate. Da un lato, i conservatori religiosi affermano che la discriminazione non c’è, dall’altro, alcuni attivisti considerano discriminatorie tutte le pratiche di fede, e confondono la misoginia con la cultura patriarcale[5].
Effettivamente, il comitato ha ricevuto un’ampia gamma di contributi dai Consigli della Sharī‘a e dai loro utenti, da accademici, gruppi di donne e rappresentanti di altri organismi religiosi, tra cui il tribunale rabbinico, e ha organizzato interviste e visite in loco. Sebbene il numero dei Consigli sia dibattuto da tempo (si pensa siano tra i 30 e gli 85), il Comitato ne ha identificati dieci, presenti online e di cui ha prova orale e scritta.
Un ente statale per regolamentare i consigli
In breve, sono state formulate tre raccomandazioni principali: cambiare la legge in modo che i matrimoni civili siano celebrati prima del matrimonio islamico o in contemporanea ad esso; sviluppare programmi che incoraggino la registrazione civile; regolamentare i Consigli della Sharī‘a attraverso un ente statale che crei un codice di condotta. Le prime due raccomandazioni seguono l’approccio suggerito dagli attivisti di Register Our Marriage. Il Governo ha annunciato che avrebbe esaminato le implicazioni giuridiche di una riforma del diritto matrimoniale e delle cerimonie religiose, e sostenuto le campagne di gruppi come Register Our Marriage evidenziando i benefici della registrazione civile[6]. La terza raccomandazione richiede un commento aggiuntivo.
Il Rapporto ha riconosciuto i Consigli come organizzazioni volontarie prive di «status giuridico e di autorità giuridica vincolante per il diritto civile»
Il Rapporto ha riconosciuto i Consigli come organizzazioni volontarie prive di «status giuridico e di autorità giuridica vincolante per il diritto civile», che svolgono un ruolo importante per i musulmani. Sebbene alcune pratiche dei Consigli siano elogiate (ad esempio il fatto di delegare ai tribunali civili le questioni legate alla custodia dei bambini o al mantenimento), altre vengono identificate come «cattive» pratiche. Tra queste, il fatto di convincere le donne a fare concessioni ai loro mariti per ottenere il divorzio, di non includere donne nei Consigli, e di sostenere «interpretazioni diverse e contrastanti del diritto islamico». Il Comitato concludeva perciò affermando che c’erano «prove del fatto che i diritti e le libertà di alcune donne fossero stati effettivamente violati nei procedimenti di alcuni Consigli». Pur rifiutando la chiusura dei Consigli auspicata da alcuni attivisti anti-Sharī‘a (dal momento che questo li avrebbe messi nella condizione di operare clandestinamente), il Comitato ha proposto al governo di istituire un organismo incaricato di identificare e poi «monitorare e verificare» un codice di condotta per regolare le loro attività. Un precedente tentativo di autoregolamentazione tramite un Comitato dei Consigli della Sharī‘a del Regno Unito aveva portato a un nulla di fatto. Il Governo però ha risposto che uno schema «facilitato dallo Stato» (una questione sulla quale il Comitato era in realtà diviso) avrebbe conferito ai tribunali una «legittimità come forma alternativa di risoluzione delle controversie» e «legittimato ulteriormente la percezione dell’esistenza di un sistema giuridico parallelo». Inoltre,
il Governo non ritiene che lo Stato debba avere un ruolo in questo senso. La Gran Bretagna ha una lunga tradizione di libertà di culto e tolleranza religiosa... Molte persone di fedi diverse seguono codici e pratiche religiose e traggono beneficio dalla loro guida. Il governo non ha intenzione di cambiare questa posizione.
Questo approccio di non ingerenza riflette la posizione assunta precedentemente sulle proposte di legiferare contro i Consigli. Per quanto riguarda la discriminazione nei confronti delle donne, là dove fosse riscontrata il governo «lavorerà con le autorità competenti per garantire che la legislazione [anti-discriminatoria] e le garanzie che essa stabilisce trovino piena ed efficace applicazione».
La Sharī‘a nel Regno Unito sembrerebbe essere uno dei maggiori fattori di conflitto tra credenze, valori e pratiche molto diversi, uno «scontro di civiltà»
A prima vista, la Sharī‘a nel Regno Unito sembrerebbe essere uno dei maggiori fattori di conflitto tra credenze, valori e pratiche molto diversi, uno «scontro di civiltà» come direbbe Huntington. Sebbene ci siano indubbiamente musulmani e non-musulmani che vedono le cose in questo modo, sarebbe fuorviante presentare la situazione contemporanea unicamente come un confronto tra due parti, vedendo il peggio l’uno nell’altro. Molti musulmani e non-musulmani hanno infatti una posizione mediana, e sono impegnati a riunire fedi diverse e a «Costruire ponti», come recita il titolo di un premio annuale assegnato dall’Association of Muslim Social Scientists.
Come mostrano gli studi delle reti e dei gruppi interreligiosi, per quanto le differenze sembrino sostanziali, ci sono molti seguaci dell’Islam da un lato, e del Cristianesimo o dell’Ebraismo dall’altro, preparati per entrare in dialogo, a volte teologico, a volte accademico, e a volte pratico. Questo punto è centrale nel pensiero di quelli che possono essere definiti “amici critici” di istituzioni come i Consigli della Sharī‘a. Molti giuristi sono sensibili a questo tema: la necessità del dialogo era la logica alla base della serie di conferenze tenutesi nel 2008 su “L’Islam nel diritto inglese”[7], che includeva anche il controverso intervento dell’Arcivescovo. Infatti, alla fine degli anni 2000, musulmani, associazioni religiose e della società civile, membri della professione forense e giuristi accademici hanno preso parte a diversi incontri e tavole rotonde per discutere le differenze tra il diritto islamico e il diritto inglese e le possibilità di conciliare gli approcci giuridici alle questioni familiari, in particolare per in materia di matrimonio e divorzio.
I leader politici e religiosi (come l’Arcivescovo di Canterbury e i vari ministri degli Interni) svolgono un ruolo di primo piano nei dibattiti sull’Islam (a favore e contro), così come i giuristi e gli avvocati, e i sociologi con i loro studi sui musulmani in Gran Bretagna. Oltre a questi ci sono molti gruppi della società civile, specialmente quelli che si occupano di questioni di genere e dei diritti umani da una prospettiva laica o religiosa (musulmana e non-musulmana), alle cui campagne i leader politici e religiosi spesso rispondono. Ne sono un esempio i firmatari delle lettere aperte a favore e contro l’Inchiesta Siddiqui, e altri gruppi il cui intervento è stato importante nelle campagne contro il matrimonio forzato e la violenza domestica. Queste associazioni e la loro leadership sono anche indicative della crescente partecipazione alla vita pubblica britannica di giovani donne in carriera, con un elevato livello di istruzione, appartenenti a una minoranza.
Tutti quanti sono impegnati in un complesso, multiforme e sfaccettato incontro interculturale, al centro del quale si trovano le famiglie musulmane
Oltre a queste ci sono le associazioni che rappresentato i musulmani, come il Muslim Council of Britain e, non ultimi, i media. Tutti quanti sono impegnati in un complesso, multiforme e sfaccettato incontro interculturale, al centro del quale si trovano le famiglie musulmane che sono diventate un luogo di dialogo sulla comprensione e la conoscenza reciproca. Ciò che effettivamente accade nei matrimoni musulmani o nei procedimenti dei Consigli della Sharī‘a, e come questi debbano essere interpretati, è oggetto di grande dibattito, così come lo sono le giustificazioni teologiche e filosofiche soggiacenti alle varie credenze e pratiche. La complessità della teoria e della pratica islamica del divorzio (talāq, khul‘ e altre varianti), o l’enfasi sulla riconciliazione come obiettivo fondamentale ogni volta che ciò sia possibile non sono sempre ben comprese; le scuole giuridiche islamiche e le controversie sullo statuto ontologico della Sharī‘a non fanno che aumentare la confusione.
In effetti, gli studi accademici hanno prodotto molto materiale sui matrimoni musulmani e i Consigli della Sharī‘a, ma quale opinione abbia davvero un peso e quali conclusioni si debbano trarre è troppo spesso determinato dalla forza dei gruppi coinvolti e dalle risorse di cui dispongono. Gli attivisti anti- sharī‘a, per esempio, sono buoni oratori e lobbisti molto abili nell’uso media, e sanno mobilitare i loro sostenitori per influenzare l’opinione pubblica e il Parlamento, promuovendo la loro letteratura, i propri studi e la loro interpretazione di quanto i documenti dicono. Così facendo riescono a dominare la pubblica piazza, lasciando alle contro-narrazioni uno spazio molto limitato.
Tuttavia, se entrambe le parti stanno assumendo una mentalità sempre più inflessibile, con gravi ripercussioni sulla Gran Bretagna come società multireligiosa e multiculturale, ci sono ancora musulmani e non-musulmani disposti ad affrontare questioni difficili e a impegnarsi in un dialogo costruttivo che preveda la negoziazione e il compromesso.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Testo tradotto dall'inglese
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[1] Roy Jenkins, Essays and Speeches, Collins, London 1967, p. 267.
[2] Cantle Report, Community Cohesion, Ministero degli Interni, London 2001.
[3] Ministero degli Interni, A Choice by Right: The Report of the Working Party on Forced Marriages, Ministero degli Interni, London 2000, p. 10.
[4] Siddiqui Report, The independent review into the application of sharia law in England and Wales, Cm 9560, Ministero degli Interni, London 2018.
[5] Siddiqui Report, pp. 35-38.
[6] HM Government, Integrated Communities Action Plan, Ministero degli Alloggi, delle Comunità e delle Amministrazioni locali, London 2019, pp. 18-19.
[7] Robin Griffith-Jones (a cura di), Islam and English Law: Rights, Responsibilities and the Place of Shari'a, Cambridge University Press, Cambridge 2013.