Il confronto tra i processi costituzionali in corso nei Paesi arabi e i modelli europei evidenzia il punto cruciale delle dinamiche democrazie moderne: trovare l’equilibrio tra volontà della maggioranza e i valori non negoziabili.
Ultimo aggiornamento: 24/07/2024 16:53:39
Il Mediterraneo è improvvisamente tornato a essere il crocevia di esperimenti politici e culturali che, per la loro importanza, vanno ben al di là dei suoi confini geografici. Sulle sue sponde nord-africane e medio-orientali si è imposta – con una rapidità che ha colto impreparati quasi tutti gli osservatori occidentali – una domanda di democrazia e libertà che ha portato al rovesciamento di regimi autoritari o francamente dittatoriali (ma sostenuti dall’Occidente perché garanti della stabilità politica della regione). Al loro posto si profila l’imporsi di governi democratici e musulmani, impegnati a trovare un difficile punto d’incontro tra libertà politiche e civili da un lato e tradizione religiosa islamica dall’altro. L’esperienza dei partiti democratico-cristiani nell’Europa del secondo dopoguerra è talvolta evocata (con riferimento anche alla Turchia) come termine di paragone per interpretare l’evoluzione politica che si delinea in questi Paesi. Ma tale confronto presuppone l’assioma – tutto da dimostrare – che l’Islam nord-africano e medio-orientale riesca a esprimere categorie e prassi politiche analoghe a quelle che si sono sviluppate all’interno del Cristianesimo europeo dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Sulla sponda europea del Mediterraneo, invece, lo scenario è differente. Democrazie consolidate (e alcune più giovani, quelle che si affacciano sulla sponda orientale dell’Adriatico) sono alle prese con un pluralismo religioso, etico e culturale che non è più governabile all’interno della tradizione cristiana dell’Europa. Il tramonto, ormai compiuto, dei partiti democratico-cristiani ne è stata la manifestazione più evidente: sulla scena politica contemporanea il recupero delle radici cristiane del continente è divenuto sovente la bandiera di movimenti nazionalisti, populisti o perfino xenofobi che poco hanno a che spartire con l’eredità del movimento democratico cristiano (benché possano fare riferimento ad altre correnti di pensiero e di azione che si sono ispirate, almeno in parte, al Cristianesimo).
Si profila in tal modo un curioso gioco delle parti. Nei Paesi arabi (e in Turchia) sta prendendo forma il tentativo di costruire una democrazia a ispirazione musulmana: ciò pone il problema – drammatico in alcuni contesti come quello egiziano – dello statuto giuridico dei cittadini che non condividono quella religione. Nei Paesi europei si va invece consolidando l’esperimento, in corso già da tempo, di costruire una democrazia priva di qualsiasi base religiosa: ciò pone il problema della solidità di tale democrazia ovvero del fondamento stesso su cui essa è costruita. Le Carte costituzionali, cioè i testi che contengono i principi e le norme fondamentali su cui poggia un ordinamento giuridico, costituiscono un buon punto di partenza per analizzare il percorso compiuto e il cammino che si apprestano a percorrere i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo.
Stati a Riferimento Religioso
La differenza più evidente tra le Costituzioni dei Paesi arabi (inclusi gli Stati del Golfo) e quelle europee sta nella qualificazione dello Stato e nell’indicazione delle fonti del diritto. Mentre nelle prime lo Stato è sovente definito islamico e la sharî‘a è annoverata tra le fonti del diritto statale, nelle seconde non ricorre mai né la qualificazione dello Stato in termini cristiani né il riferimento al diritto di una religione nelle fonti del diritto dello Stato[1]. Le trasformazioni politiche conseguenti alla primavera araba potrebbero accentuare questa distanza, introducendo il requisito della islamicità dello Stato e il riferimento alla sharî‘a nelle Costituzioni di Paesi in cui fino a ora essi erano stati assenti o accrescendone l’importanza in quelle dove già erano presenti.
“Stato islamico” e “sharî‘a” sono espressioni che possono acquistare significati molto diversi e il riferimento all’uno e all’altra è compiuto in termini differenti nelle Costituzioni dei Paesi arabi. Inoltre uno Stato islamico che applichi la sharî‘a non è necessariamente uno Stato in cui non esiste libertà religiosa: la storia ci insegna che, fino a tempi relativamente recenti, gli ebrei hanno goduto di maggiore libertà in questi Stati che in molti Paesi europei. Ciononostante, questi due caratteri che contraddistinguono le Costituzioni di alcuni Paesi arabi pongono qualche problema. Definire uno Stato islamico significa individuare un complesso di principi religiosi e culturali che sono costitutivi dell’identità di una nazione e ne formano il substrato su cui le sue istituzioni politiche – incluse quelle democratiche – sono fondate. Se non altro, a livello simbolico è inevitabile che in Marocco o in Egitto un non musulmano si senta un cittadino di seconda classe perché non condivide una parte fondamentale dei principi che stanno alla base dell’identità nazionale del proprio Paese.
Includere la sharî‘a tra le fonti del diritto statale pone problemi ancora più seri. Anche se la sharî‘a – contrariamente a quanto spesso si crede – non è un complesso di norme precise e vincolanti ma un insieme di principi giuridici che può essere interpretato e applicato in modi diversi, il fondamento divino della sharî‘a pone alcuni limiti non agevolmente superabili per via interpretativa e applicativa. Ciò emerge non tanto in relazione a ebrei e cristiani – a cui proprio la sharî‘a riconosce uno statuto giuridico saldo, anche se non paritario con quello dei musulmani – quanto ai cittadini che professano altre religioni, a quelli che non ne professano alcuna e agli stessi musulmani che sostengono posizioni eterodosse. Il caso del pensatore egiziano Abu Zayd, il cui matrimonio è stato sciolto in applicazione della legge islamica dopo che era stato dichiarato apostata[2], oppure quello dei baha’i in Egitto, che non potevano ottenere la carta d’identità senza dichiararsi musulmani, ebrei o cristiani (e ancora oggi vi sono difficoltà in tal senso)[3], sono due esempi dei problemi, riconducibili – direttamente o indirettamente – alla rilevanza della sharî‘a nel diritto dello Stato.
Queste osservazioni non significano che Islam e democrazia sono incompatibili; significano però che, per avere successo, il tentativo di costruire una democrazia islamica deve passare attraverso una profonda riconsiderazione dei rapporti tra diritto, religione e politica. Le Costituzioni dei Paesi europei hanno da tempo rinunciato a cercare un fondamento divino per le proprie norme. Nei sistemi che si ispirano al costituzionalismo liberale, dominante in tutto l’Occidente, la democrazia ha la sua base nella volontà dei cittadini e nel rispetto dei diritti dell’uomo. Il punto di incontro tra queste due radici della democrazia sta nel riconoscimento che non tutto può essere messo ai voti: vi sono diritti che spettano a ogni uomo (e donna) per il solo fatto di essere una persona. Quindi, se nella maggior parte dei casi le decisioni che interessano l’intera collettività sono prese in base al principio di maggioranza, questo principio non si applica quando sono in gioco diritti radicati nella stessa natura umana.
Quali siano questi diritti e quale sia il loro contenuto è, però, oggetto di crescente dissenso: anche quando ricorre un sostanziale accordo su uno di essi (per esempio il rispetto della vita umana), le sue applicazioni concrete sono oggetto di discussione talvolta aspra (per esempio se questo diritto implichi la proibizione della pena di morte, si estenda all’embrione e via dicendo). Entro certi limiti questo dibattito è salutare perché garantisce la flessibilità e dinamicità del sistema dei diritti dell’uomo, mantenendolo in contatto con le trasformazioni sociali e culturali; al di là di questi limiti il disaccordo rischia di mandare in corto circuito i due fondamenti del sistema democratico che sono stati indicati in precedenza. È questo il pericolo più grave che si profila all’orizzonte dell’Europa, dove negli ultimi due decenni il pluralismo etico, religioso e culturale è cresciuto in maniera impressionante per dimensioni e rapidità. Il moltiplicarsi delle concezioni e dei modelli di vita presenti e accettati nella società europea ha posto in discussione, a livello dei sistemi giuridici, il vecchio equilibrio tra volontà dei consociati (il principio maggioritario) e valori non negoziabili (i diritti dell’uomo).
L’incapacità di trovare un nuovo punto di sintesi ha aperto la strada a due scenari ugualmente pericolosi. Da un lato si è manifestata una crescente insofferenza per i diritti dell’uomo, percepiti come una livella che appiattisce l’identità di ciascun popolo e, in nome di astratti valori universali, ne sacrifica le tradizioni particolari (anche quando sono maggioritarie in un Paese). Talvolta questo sentimento diffuso tende a tradursi in una “dittatura della maggioranza” che incide negativamente sul rispetto di diritti fondamentali. Il referendum svizzero che ha vietato la costruzione dei minareti[4], le leggi di alcuni Länder tedeschi che proibiscono agli insegnanti di indossare simboli religiosi che non siano cristiani[5] e la stessa legge francese che proibisce i simboli religiosi a scuola (approvata quasi all’unanimità)[6] sono un esempio di questa deriva maggioritaria: essi limitano senza una giustificazione sufficientemente forte la libertà religiosa dei musulmani, degli insegnanti che non professino la religione cristiana e degli studenti. Dall’altro lato la volontà di arginare questa involuzione, in nome del diritto di uguaglianza e di libertà individuale, si manifesta in una riaffermazione rigida e assoluta dei diritti dell’uomo, sorda alla necessità di tradurli in forme che siano adeguate al contesto sociale in cui debbono essere applicati e riluttante a rispettare (nei giusti limiti) l’autonomia interna delle formazioni sociali. Questo “totalitarismo dei diritti dell’uomo” si è a sua volta tradotto in provvedimenti normativi, come la legge norvegese che impone alle comunità religiose che celebrano matrimoni con effetti civili di ottenere una dichiarazione con cui gli sposi si riconoscono reciprocamente il diritto di divorziare[7]; il progetto di legge danese che vuole obbligare la Chiesa luterana (che è la Chiesa nazionale di quel Paese) a celebrare matrimoni omosessuali[8], o la sentenza della Corte suprema britannica che ha considerato discriminatoria la politica di ammissione di una scuola ebraica che privilegiava gli studenti nati da una madre ebrea[9].
La Sfida di Conciliare Diritto Positivo e Diritto Meta-Positivo
Sia pure in termini diversi, il problema dei Paesi europei non è poi troppo lontano da quello che devono affrontare i Paesi musulmani. In entrambi i casi si tratta di conciliare diritto positivo (quello che nasce dalla volontà dei cittadini) e diritto meta-positivo, individuato in un caso nel diritto divino e nell’altro nei diritti dell’uomo, ultimi eredi della tradizione giusnaturalistica occidentale. Il discorso di Benedetto XVI a Berlino “sui fondamenti dello Stato liberale di diritto” si inserisce in questo dibattito[10]. Il Pontefice individua l’originalità della concezione cristiana del diritto nel fatto che, «contrariamente ad altre grandi religioni» (e qui vi è un implicito riferimento all’Islam e anche all’Ebraismo), «il Cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto». Il Cristianesimo, continua Benedetto XVI, ha avuto la capacità di accogliere e fare proprio l’incontro tra filosofia greca e diritto romano che sta alla base della cultura giuridica occidentale e in tal modo ha aperto «la via che porta, attraverso il Medioevo cristiano, allo sviluppo giuridico dell’Illuminismo fino alla Dichiarazione dei Diritti umani». La fecondità di questo incontro tra natura e ragione è stata però bloccata, nell’ultimo mezzo secolo, dallo sviluppo del positivismo filosofico e giuridico che ha trovato un terreno particolarmente propizio in Europa: in questa parte del mondo «vasti ambienti cercano di riconoscere solo il positivismo come cultura comune e come fondamento comune per la formazione del diritto, riducendo tutte le altre convinzioni e gli altri valori della nostra cultura allo stato di una sottocultura.
Con ciò si pone l’Europa, di fronte alle altre culture del mondo, in una condizione di mancanza di cultura e vengono suscitate, al contempo, correnti estremiste e radicali». Per arrestare questa degenerazione, conclude il Pontefice, è necessario tornare ai concetti fondamentali di natura e ragione inscritti nel «patrimonio culturale dell’Europa»: la cultura di questo continente «è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma – dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma l’intima identità dell’Europa. Nella consapevolezza della responsabilità dell’uomo davanti a Dio e nel riconoscimento della dignità inviolabile dell’uomo, di ogni uomo, questo incontro ha fissato dei criteri del diritto, difendere i quali è nostro compito in questo momento storico».
Questa ferma riproposizione della concezione giusnaturalistica cristiana pone una domanda. In che modo questa tradizione è in grado di contribuire alla cultura giuridica europea se, come riconosce lo stesso Benedetto XVI, «l’idea del diritto naturale è considerata oggi una dottrina cattolica piuttosto singolare, su cui non varrebbe la pena discutere al di fuori dell’ambito cattolico, così che quasi ci si vergogna di menzionarne anche soltanto il termine»? Credo che le riflessioni di un giurista americano, Robert Cover, possano aiutare a rispondere a questo interrogativo. Secondo Cover ogni società si regge sulla tensione tra due forze fondamentali: quelle che creano il mondo e quelle che lo mantengono. Cover sostiene che noi viviamo in uno spazio popolato da molteplici universi normativi, ciascuno con i propri valori e le proprie regole. Essi sono costituiti dai gruppi sociali (religiosi, culturali, politici e via dicendo) capaci di produrre significati e valori giuridici nuovi attraverso il proprio impegno a tradurre in realtà la visione da cui sono animati. Questi gruppi – dotati di propri miti, narrazioni, norme – sono i luoghi dove un nuovo diritto prende forma. Ma questi universi normativi, lasciati a se stessi, possono divenire settari, violenti e conflittuali. È dunque necessaria una forza di mantenimento del sistema, capace di garantire la loro coesistenza. Questa forza è essenzialmente quella dello Stato moderno, la cui funzione non è quella di creare valori giuridici nuovi ma di permettere la nascita e lo sviluppo degli universi normativi in cui questi valori si formano[11]. Uno Stato ispirato ai principi di libertà e democrazia non pretende di creare i valori che i cittadini devono condividere né le attitudini che devono guidare la loro partecipazione alla vita della polis: ricava invece gli uni e le altre dalla società civile e li compone all’interno di un quadro giuridico in cui diversi progetti di ricerca del bene comune possano convivere.
Le riflessioni di Cover sono utili sotto due profili. Esse introducono, pur senza menzionarla espressamente, la nozione di società civile, intesa come il luogo dove differenti concezioni ed esperienze di vita prendono forma e si confrontano. È da qui che deve partire qualsiasi processo di rivitalizzazione della tradizione giusnaturalistica cristiana, e non in primo luogo dallo Stato, il quale ha invece una responsabilità differente: quella di organizzare la sfera pubblica in modo che le esperienze e i progetti generati dalla società civile possano svilupparsi ed essere proposti come modello per l’organizzazione della vita associata nel suo insieme.
Sulla base di queste due osservazioni diviene possibile affrontare l’ultimo problema posto dal discorso del Pontefice. Sarebbe ingenuo pensare che la società civile, per il solo fatto di essere libera, operi sempre in modo da rispettare il bene comune. I progetti e le iniziative che scaturiscono da questa sfera della vita sociale possono perseguire il vantaggio di pochi anziché la giustizia, creare divisioni anziché solidarietà, intolleranza anziché comprensione reciproca. Di fronte a questa ambiguità, che è intrinseca alla società civile, si pone il problema di filtrarne in qualche modo i prodotti, in modo da distinguere ciò che giova e ciò che nuoce al bene comune. I soggetti che, attraverso le proprie leggi, selezionano e sostengono alcuni di questi progetti (e non altri) sono i pubblici poteri: ma come possono farlo senza distruggere la libertà che è essenziale per lo sviluppo della società civile e senza cadere in una anarchia dei valori incompatibile con l’idea di bene comune?
Questo dilemma è stato riassunto nei termini seguenti: «lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire»[12]. Ma una tale affermazione è esatta solo in parte. Innanzitutto la società civile non è mai totalmente libera ma si colloca all’interno di un quadro delimitato dalle norme che tutelano alcuni valori essenziali e non negoziabili (nessuno potrebbe appellarsi alla libertà della società civile per riproporre, ad esempio, la schiavitù). In secondo luogo, all’interno di questo quadro vi sono ulteriori regole che affondano le proprie radici nella tradizione e nella cultura di ogni comunità sociale e ne determinano il modo di concepire le strutture fondamentali della vita associata, dall’organizzazione del lavoro alla vita famigliare, dai rapporti tra uomo e donna a quelli tra cittadini e istituzioni pubbliche. Questi passaggi obbligati, che ricorrono in tutte le civiltà in cui è diviso il nostro mondo, sono diversamente strutturati in ciascuna di esse perché sono il frutto di storie e culture differenti. Ne consegue che anche lo Stato, ogni Stato, non è un soggetto privo di storia e di memoria, un contenitore vuoto che può essere riempito con qualsiasi contenuto; esso è costituito da persone con una cultura e un’identità che si è formata nella storia e che inevitabilmente si riflette nel modo con cui vengono regolati gli istituti della convivenza sociale. Anche volendolo, nessuno Stato può rompere i ponti con questa identità, che eredita dal passato e costituisce la base per costruire il proprio futuro.
La storia ci insegna che lo sviluppo equilibrato di ogni società richiede di evitare due pericoli parimenti gravi: l’utopia rivoluzionaria di potersi impunemente disfare della propria tradizione e quella conservatrice di mantenerla inalterata nonostante i cambiamenti che costantemente si producono dentro e fuori qualsiasi gruppo sociale. Comprendere che l’identità di una comunità sociale non costituisce un codice genetico immutabile, dato una volta per sempre e non più modificabile, ma un’eredità da fare fruttare nel commercio con altre identità, nuove e vecchie, che popolano il mondo è la condizione per impostare in termini corretti il rapporto tra diritto, politica e religione che sta al centro del discorso berlinese di Benedetto XVI.
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Note
[1] Silvio Ferrari, Costituzione e religione, «Sociologia del diritto» 3 (2008), 5-46.
[2] Cfr. Nasr Hamid Abu Zayd, Una vita con l’Islam, Il Mulino, Bologna 2004.
[3] Egypt’s Baha’i frustrated with lack of progress on identity cards, «The Telegraph» (15 febbraio 2011).
[4] Vincenzo Pacillo, “Stopp Minarett”? The controversy over the building of minarets in Switzerland, in Silvio Ferrari e Sabrina Pastorelli (a cura di), Religion in Public Spaces. A European Perspective, Ashgate, Farnham 2012 (in corso di stampa).
[5] Ruben Seth Fogel, Headscarves in German Public Schools: Religious Minorities are Welcome in Germany, Unless – God Forbid – They are Religious, «New York Law School Law Review» 51 (2006-07), 619-653.
[6] Loi 2004-228 du 15 mars 2004 encadrant, en application du principe de laïcité, le port de signes ou de tenues manifestant une appartenance religieuse dans les écoles, collèges et lycées publics, «Journal Officiel» (17-3-2004).
[7] Annika Rabo, Syrian Transnational Families and Family Law, in Anne Hellum, Shaneen Sardar Ali, Anne Griffiths (a cura di), From Transnational Relations to Transnational Laws. Northern European Laws at the Crossroads, Ashgate, Farnham 2010, 29-50 (46).
[8] Si veda Denmark (and its official church) set to legalize gay marriage
[9] Si veda R (E) v. Governing Body of JFS [2009] UKSC 15. Il caso riguardava uno studente che era stato educato come un ebreo ma era nato da una madre che si era convertita all'ebraismo secondo i riti di una corrente non riconosciuta dagli ebrei ortodossi. La Corte Suprema ha deciso che una politica di ammissione alla scuola che favoriva gli studenti nati da una madre ebrea violava il Race Relations Act 1976 che proibisce ogni discriminazione basata sulla etnia.
[10] Il testo del discorso, pronunciato il 22 settembre 2011 nel Parlamento Federale tedesco, è disponibile sul sito (cfr. anche «Oasis» 14[2011], 85-89).
[11] Robert Cover, Nomos and Narrative, «Harvard Law Review» 97 (1983), 4-68.
[12] Ernst-Wolfgang Böckenförde, Die Entstehung des Staates als Vorgang der Saekularisation (1967), in Id., Recht, Staat, Freiheit, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1991, 112. «Da una parte – continua Böckenförde – esso può esistere come Stato liberale solo se la libertà, che esso garantisce ai suoi cittadini, si regola dall’interno, vale a dire a partire dalla sostanza morale del singolo e dall’omogeneità della società. D’altra parte, se lo Stato cerca di garantire da sé queste forze regolatrici interne attraverso i mezzi della coercizione giuridica e del comando autoritativo, esso rinunzia alla propria liberalità enricade – su un piano secolarizzato – in quella stessa istanza di totalità da cui si era tolto con le guerre civili confessionali».