In Gran Bretagna continua il dibattito scatenato da un’intervista dell’Arcivescovo di Canterbury Rowan Williams circa il multiculturalismo
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:47
In Gran Bretagna continua il dibattito scatenato da un’intervista dell’Arcivescovo di Canterbury Rowan Williams circa il multiculturalismo.Da quel momento la riflessione si è approfondita nella ricerca di una nuova elaborazione del rapporto tra persona, comunità di riferimento, vita civile e diritto.
Nelle prime due settimane del febbraio 2008 nel Regno Unito si è sollevato grande clamore in seguito a un’intervista radio e a una lezione tenute dall’Arcivescovo di Canterbury [1] che gettavano un’interessante luce su questioni riguardanti il multiculturalismo in Gran Bretagna e, in misura ancora maggiore, su problematiche riguardanti la relazione tra ragione universale e tradizione. Tali questioni sorgono in riferimento alla riflessione pratica che ha luogo nella sfera della legge.
La principale preoccupazione dell’Arcivescovo in questa serie di lezioni collegate tra loro era rappresentata dalle attuali minacce ai diritti dei gruppi e soprattutto dalle minacce ai diritti dei gruppi religiosi. La questione del corretto ambito di applicazione della legge religiosa è solo un esempio di questa preoccupazione più generale che ha avuto recentemente molte occasioni per manifestarsi. In particolare le agenzie di adozioni cattoliche in Gran Bretagna hanno dovuto chiudere perché si rifiutavano di adeguarsi alla disposizione governativa secondo la quale tutte le agenzie di adozioni devono accettare le coppie omosessuali nello stesso modo in cui accettano quelle eterosessuali. Si discute molto anche riguardo all’idea che tutti i medici siano obbligati a praticare l’aborto in Inghilterra come condizione della loro appartenenza all’ordine. Alla luce di questi e di altri casi simili una minoranza di pensatori britannici, non-religiosi e religiosi, paventa l’imminente declino dell’idea per la quale si può scegliere qualcosa secondo coscienza in contrasto rispetto a certi aspetti del normale dovere civico o professionale sulla base delle posizioni del gruppo al quale si appartiene.
Alla luce di questa minaccia Rowan Williams chiede che il processo politico e la legge tengano maggiormente conto delle narrative vissute all’interno delle quali le persone si situano e del loro modo di rendere conto delle proprie azioni. Ma il problema riguarda proprio il tipo di base teoretica condivisa grazie alla quale siamo in grado di prendere in considerazione sul piano pubblico e dal punto di vista normativo diverse abitudini e finalità, custodite in differenti pratiche narrative. Lo facciamo su basi cristiane (siano esse di fede o di influenza culturale)? Lo facciamo su basi secolari? O lo facciamo su una sorta di base pan-religiosa? Inoltre: se, al di là delle norme pubbliche puramente laiche, dobbiamo prendere sul serio all’interno della vita pubblica i valori basati sulle tradizioni religiose, ciò significa forse prendere sul serio tutte le tradizioni religiose allo stesso modo?
Tuttavia nel discorso di Williams si trova una mescolanza di argomentazioni che basano i diritti di gruppo di specifiche tradizioni su fondamenti laici con altre che hanno a che vedere con la religiosità in senso lato e con altre ancora di tipo prettamente cristiano. Penso che proprio questa triplicità possa essere la chiave per comprendere perché ha detto quello che ha detto e anche per capire perché si è trovato in così grande difficoltà.
Ciò che è stato mal accolto un po’ da tutti è stata l’affermazione per cui la legge della sharî’a dovrebbe essere estesa in Inghilterra e, anzi, che la sua estensione sia inevitabile. È evidente che quello a cui l’Arcivescovo sta pensando qui è che, se si vuole pretendere che gli approcci cristiani alla vita, alla sessualità e a molte altre questioni siano rispettati nella sfera pubblica, allora bisogna tendere la mano ad altri raggruppamenti religiosi e accettare l’idea che le loro idee sociali riguardanti la normatività dei loro corpora religiosi siano prese in considerazione a livello pubblico. E questo, per l’Ebraismo e per l’Islam, significa che dobbiamo accettare il fatto che la legge sia per loro materia sacra. Per i cristiani invece la legge è relativamente più secolarizzata [2].
Da questo punto di vista, parte di ciò che l’Arcivescovo ha detto non è particolarmente controverso. Da un centinaio di anni la legge ebraica ortodossa è stata in una certa misura riconosciuta nella Common Law britannica in situazioni come le dispute coniugali. Essa gioca in questi casi un ruolo sussidiario ma anche complementare rispetto alla Common Law, benché sia interessante notare come solo recentemente sia stata chiarita una situazione in cui era possibile essere considerati “non divorziati” per la legge ebraica ma divorziati secondo la legge civile. Quest’anomalia peraltro è stata ora risolta. Tuttavia Rowan Williams è parso rievocare proprio quello spettro di statuti legali contraddittori. È sembrato infatti suggerire che, nel caso della sharî’a, la gente avrebbe potuto scegliere giurisdizioni diverse per quel che riguarda le questioni finanziarie o le questioni di matrimonio e divorzio – ed è proprio questo che ha scatenato tutta la controversia. Personalmente ritengo che Williams sia arrivato a questo estremo perché ha confuso il vecchio e ora minacciato senso del pluralismo organico – una critica della sovranità assoluta del centro compatibile con la dottrina sociale cattolica e le idee della sussidiarietà – con un significato più multiculturalista di questo stesso termine, per cui si dichiara di fatto che «l’altro è completamente altro, non possiamo giudicare l’altro, dobbiamo lasciare che gli altri si gestiscano le loro cose».
Realismo e Nominalismo
Il termine medio che permette a Williams di oscillare tra il pluralismo organico da un lato e il multiculturalismo postmoderno dall’altro è un pluralismo inorganico liberale di gruppo che Williams ha tratto da due dei suoi mentori intellettuali: il cattolico Lord Acton e il suo discepolo, il monaco e teologo anglicano John Neville Figgis [3]. Questo modo liberale di pluralismo di gruppo conferisce ai gruppi diritti inalienabili come se fossero individui, al punto che sono considerati possedere una “personalità” comunitaria. Ma c’è un problema di coerenza in questo modello, con cui Williams non ha fatto i conti. Ed è il fatto che il liberalismo privilegia sempre l’individuo sul gruppo e che esso non può avere una nozione forte di personalità di gruppo. Un “realismo” a livello del gruppo (il gruppo è sempre più della somma delle sue parti) verrà sempre scavalcato da una forma di “nominalismo” a livello individuale, dal momento che l’idea stessa di una priorità dei gruppi sull’insieme politico già lascia trapelare un “nominalismo” contraddittorio (i gruppi stessi sono pensati come tanti atomi non correlati). Pertanto il pluralismo liberale è incoerente sul piano metafisico perché pensa i gruppi in termini realisti-universali “internamente” (in relazione all’individuo) ma in termini nominalisti-atomisti “esternamente” (in relazione all’intera società). Questa incoerenza è anche errata dal punto di vista storico e sociologico dal momento che associazioni specifiche non “precedono” l’insieme politico più di quanto non lo facciano i singoli individui isolati, all’origine del contratto sociale secondo la teoria di Locke.
Acton e i suoi seguaci erano tutti piuttosto confusi su questo punto perché stavano cercando di combinare un liberalismo whig a un’eredità pluralistico-organicista cattolica e germanica. Quest’ultima, però, (come nel caso delle opere di Otto von Gierke) era rimasta più coerentemente aristotelica e tomista: anche se la sovranità è diffusa, i gruppi “sociali” sono inquadrati fin dall’inizio in una certa unità “politica”, benché imperfetta. Questa tesi non è la stessa (e qui può trovarsi la chiave per comprendere la confusione teorica) della nozione post-bodiniana di un unico centro di sovranità. Il punto cruciale qui è che nell’era pre-moderna i sottogruppi sociali (feudi, università, corporazioni, monasteri) erano anche depositari di un potere politico sovrano diffuso – esistevano, ad esempio, dei tribunali feudali. Il modello actoniano, tuttavia, cerca semplicemente di anteporre i gruppi sociali all’unità politica. Dopo tutto questa non è altro che l’adesione al moderno modello politico liberale (“liberale” nel senso dell’individualismo contrattuale, non in quello di un governo limitato dalla costituzione; Williams, sulle tracce di Acton e Figgis, sembra eludere questa distinzione).
In confronto però, un pluralismo organicista più sinceramente cattolico, gierkeano e tomista (dal momento che Tommaso d’Aquino non fu affatto un liberale, come invece credeva Acton) potrebbe offrire una resistenza più logica al liberalismo individualista, dal momento che non prende le mosse da alcun postulato riguardante la pre-esistenza né di individui né di gruppi rispetto alla sfera politica, mentre allo stesso tempo non presuppone, in una tradizione che è allo stesso tempo aristotelica e agostiniana, l’esistenza di una realtà politica che preceda la società e le società (come invece fanno Hobbes e Locke). Ad ogni modo, questo organicismo non esclude elementi di un pluralismo più eterogeneo e di una maggiore tolleranza verso i gruppi differenti. La società politica nel suo insieme non deve necessariamente aderire completamente ai principi della Chiesa battista – o a quelli della umma islamica – per poter comunque accettare che questa svolge una determinata funzione sociale che contribuisce alla coesione della comunità politica. Ora, sembra che abbastanza spesso Rowan Williams faccia riferimento a qualcosa di simile, ma avrebbe dovuto esprimersi più chiaramente. Troppo di frequente egli parla con i toni dell’incoerenza actoniana – e questo può fornire un appoggio a un linguaggio con risonanze “multiculturaliste”.
Libertà Religiosa o di Opinione?
L’interpretazione actoniana della personalità del gruppo s’incaglia in un’incoerenza metafisica come quella tra nominalismo e realismo poiché tratta il gruppo come un’unità completamente formata prima che essa si rivolga alla totalità politica e, quindi, alla totalità umana. In realtà, anche se si ritiene che una religione rappresenti meglio la totalità umana rispetto a uno Stato, questo avviene solo in quanto un gruppo religioso come l’Islam o la Chiesa è una sorta di gruppo sovra-politico. Perciò, per avere una nozione di personalità di gruppo, c’è bisogno di un’etica teleologica – c’è bisogno di poter dire che tale o talaltro gruppo mirano a un obiettivo collettivo. Ripeto: anche se questo gruppo fosse la Chiesa battista e anche se si è cattolici o agnostici e non si concorda con le idee religiose anti-sacramentali sostenute dai battisti, si potrebbe comunque sempre affermare che, parlando in modo relativo, essi perseguono alcuni obiettivi sociali riconosciuti come compatibili con la propria idea di dignità umana e come in grado di promuoverla. Il problema sorge però quando si ha a che fare con un liberalismo più rigido e, dobbiamo ammettere, più coerente – un liberalismo che non abbia più una nozione “spessa” di cosa costituisce la dignità umana, oltre il semplice rispetto della volontà individuale e la felicità materiale. Allora tutto va in frantumi. Il problema diventa quindi che, se si sposa un’argomentazione liberale per la salvaguardia dei diritti dei gruppi, in realtà si sarà sempre portati a favorire le istanze individuali a discapito della coscienza collettiva del gruppo. Ci sono teorici laici che mettono in discussione l’idea di un diritto specifico alla libertà religiosa, basandosi sul principio che qualsiasi nozione di un diritto speciale alla libertà religiosa che ecceda la generale libertà di opinione individuale in qualche modo concederebbe alla religione (e dunque all’“irrazionale”) una dignità e un ruolo pubblici, accordandole così una certa autorità di governo religioso sui suoi membri. La logica liberale qui è impeccabile – anche se, paradossalmente, la concessione della libertà religiosa fa parte della storia costitutiva del liberalismo.
Si aggiunga a questo che neppure basare l’argomentazione su una sorta di rispetto generalizzato per i diversi punti di vista religiosi funziona. Le religioni sono semplicemente troppo diverse l’una dall’altra. Ad esempio, se si legge la storia dell’Islam, paradossalmente, non vi si trova nulla a sostegno del pluralismo organico. La sharî’a si applica a questioni civili tra individui. È solo per questo motivo che io ritengo che, se si vuole credere a qualcosa come a una forma di pluralismo di gruppo e sussidiarietà nella sovranità, ciò non possa essere sostenuto da ogni e qualsiasi tipo di metafisica religiosa e tanto meno laica. La mia argomentazione è confermata indirettamente dalle reazioni alle parole di Williams. Quasi nessuno ha capito il suo argomento sulla “religione in generale”. Ci sono state due reazioni. La schiacciante maggioranza delle persone ha sostenuto che la legge britannica è laica e universale e che è basata sull’Illuminismo, ma un numero sorprendente di altre persone ha contattato i media e ha affermato che “la legge britannica è basata su idee ebraico-cristiane derivate dalla Bibbia”. Questa è solo una mezza verità (buona parte della legge britannica risale alle oscure foreste teutoniche), ma è molto interessante che anche molti non praticanti abbiano fatto queste dichiarazioni. Ancor più sorprendente è stato il fatto che la maggior parte dell’opinione pubblica musulmana moderata ha detto: «non vogliamo più sharî’a, apprezziamo il fatto che la legge in Gran Bretagna sia in qualche modo secolarizzata», indicando che un buon numero di musulmani britannici hanno già iniziato ad adeguarsi a un’idea più cristiana riguardante la secolarizzazione della legge – e addirittura che questa è una delle cose che trovano più attraenti della Gran Bretagna. I soli musulmani che hanno accolto con gioia il cauto appoggio dato da Williams alla sharî’a sono stati o quelli chiaramente estremisti o quelli che potrebbero essere sospettati di una sorta di estremismo strisciante. La mia conclusione, quindi, riguardo al discorso dell’Arcivescovo è che, benché sottile e raffinato sotto molti punti di vista, egli è sembrato confondere il pluralismo in senso organicista o sussidiarista con il pluralismo inteso in senso multiculturalista o liberal-pluralista. Inoltre, come abbiamo indicato, egli non è riuscito a sottolineare a sufficienza il fatto che se si vuole legare la ragione alla tradizione religiosa è in realtà necessario un impegno con una tradizione religiosa specifica. Altrimenti, se si cerca soltanto di coordinare le diverse religioni in modo neutrale, si rischia di ricadere in una posizione pluralista laica.
Forse, dunque, Rowan Williams non ha dichiarato abbastanza esplicitamente che bisogna pensare in modo specifico a partire dalla nostra tradizione cristiana. In primo luogo perché è solo situandosi all’interno di una tradizione che si può difendere il carattere mediato dalla tradizione della ragione. E in secondo luogo perché è il Cristianesimo a porre in modo assolutamente singolare la ragione o il logos come una traditio proprio al centro delle sue pretese religiose. Il Cristianesimo pertanto, essendo in modo caratteristico una religione della traditio, è in grado di porre al centro una ragione mediata dalla tradizione al posto di una pretesa universalità, ma solo per questa ragione è in grado di rispettare altre religioni che in maniera imperfetta s’avvicinano a un senso di “tradizionismo” (traditionedness) in un modo che è meno facilmente sostenibile sia da parte di “altre fedi” sia dalla razionalità laica. Di fatto la “tolleranza illuminata” dell’era moderna è incominciata come cristiana e lo è rimasta molto più di quanto sia normalmente riconosciuto. Se in futuro l’elemento cristiano sarà rimosso, allora è probabile, come già indicato, che la tolleranza della religione in quanto tale cesserà. Infatti quest’ultimo concetto, come opposto alla pura libertà di pensiero, ha senso solo se la “verità religiosa” è trattata come qualcosa a cui si deve un assenso libero e non forzato.
Figlio Illegittimo
ltre a questa connessione sia logica sia storica tra Cristianesimo e libertà religiosa, si deve anche sottolineare il legame presente tra Cristianesimo e universalismo. Il Cristianesimo non è semplicemente un’altra “differenza” o “alterità” che richiede rispetto. Sulla scia del libro di Alain Badiou su San Paolo e la nascita dell’universalismo a partire dall’evento cristiano, questo tipo di postmodernismo cosiddetto “etico” può ormai essere considerato come superato [4]. In un certo senso l’universalismo illuminista è solamente il figlio illegittimo della ricerca cristiana dell’universalismo – e senza un qualsiasi genere di universalismo, quale sia il Cristianesimo sia l’Illuminismo conobbero, si ottiene soltanto la sacralizzazione del conflitto, un paganesimo neo-eracliteo. Tuttavia è il senso cristiano di universalismo, non quello illuminista, a proteggere l’idea di un pluralismo di centri di potere inteso in senso praticabile e sussidiarista. Infatti il primato cristiano accordato alla persona ha dato origine nel Medioevo ad associazioni libere per scopi precisi all’interno della cristianità. Questo periodo ha così testimoniato la continua crescita di diversi tipi di corpi organizzati per il mutuo soccorso che hanno aiutato a rendere l’Europa una corporazione di corporazioni. Inoltre, siccome queste entità differenti – feudi, città, corporazioni, monasteri, ordini mendicanti, confraternite laiche, università e così via – dovevano tutte rapportarsi le une alle altre, questo periodo ha anche visto lo sviluppo del costituzionalismo o del “liberalismo” in senso proprio e buono.
Questo significa che non possiamo accontentarci – come talvolta Williams sembra sottintendere – di pensare semplicemente la Chiesa come un corpo sociale tra gli altri, precedente alla sfera politica ed esercitante una continua critica negativa della realtà politica. Egli afferma giustamente e profondamente che solo una critica negativa religiosa può fare in modo che la critica illuministica non si riduca a una critica nichilistica che non ci lascia sperare in una reale trasformazione e in uno sviluppo. Tuttavia una posizione non puramente negativa deve utilizzare maggiormente l’idea del Corpo di Cristo come prefigurazione positiva di un ordine sociale escatologico – la nuova Gerusalemme – e questo non soltanto nella modalità monastica, ma anche nelle famiglie, nelle confraternite laiche, nelle corporazioni, nelle associazioni di credito, nelle attività economiche eticamente orientate, nelle imprese non-profit eccetera. Soltanto questa enfasi rende giustizia alla rivendicazione paolina e agostiniana secondo la quale la Chiesa è in se stessa un organo sovrapolitico, che non è più particolare dello Stato, ma più universale, proprio per la sua concretezza e che nell’ambito della sua sovrapoliticità esso protegge molti individui diversi che collaborano e molti sottogruppi.
Per la strana logica “gotica” del personalismo cristiano, gli individui sono al contempo “qualcosa di più” e “qualcosa di meno” rispetto alla totalità della società, poiché, nell’appartenenza al Corpo di Cristo, veniamo gradualmente innalzati a una figliolanza uguale e unica con Lui. Allo stesso modo possiamo compiere in giustizia e carità il nostro fine naturale socio-politico solo se eccediamo questo fine anticipando il nostro destino individuale soprannaturale. Risulta difficile pensare che qualcos’altro che non sia questa logica cristologica e spirituale possa sostenere questo “duplice eccesso” che consente al contempo il collettivismo e l’integrità dell’individuo e coordina queste due istanze [5].
Abbastanza curiosamente, sembra che, in un certo qual modo embrionale, molti musulmani riconoscano implicitamente questa realtà.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
[1] Rowan Williams, Civil and Religious Law in England: a Religious Perspective, on-line all’indirizzo http://www. archibishopofcanterbury.org/1575. Si veda anche Multiculturalism: Friend or Foe (stesso sito, n° 1602); Secularism, Faith and Freedom (n° 1573); Christianity: Public Religion and the Common Good (n° 495); Europe, Faith and Culture (n° 1547) e Religious Hatred and Religious Offence (n° 1561).
[2] Cfr. Rémi Brague, The Law of God: the Philosophical History of an Idea, (trad. ingl. di Lydia G. Cochrane) Chicago University Press, Chicago 2007 (una trad. italiana dal titolo La legge di Dio. Storia filosofica di una alleanza è in corso di pubblicazione presso Abiblio). Brague si esprime molto bene riguardo alla secolarizzazione della legge nel Cristianesimo; tuttavia sottovaluta la questione del diritto canonico ed estende discutibilmente la sua tesi in direzione di una secolarizzazione cristiana dell’etica in sé.
[3] Lord Acton, Essays on Freedom and Power, Thames and Hudson, London 1956. Cfr. anche John Neville Figgis, Churches in the Modern State, Longmans, Green and co., London 1913.
[4] Alain Badiou, Saint Paul: la fondation de l’universalisme, PUF, Paris 1997 (traduzione italiana San Paolo. Fondazione dell’universalismo, Cronopio, Napoli 1999).
[5] Cfr. John Milbank, The World Made Strange. Theology, Language, Culture, Blackwell, Oxford 1997, 268-292.
Per citare questo articolo
Riferimento al formato cartaceo:
John Milbank, L’incoerenza del pluralismo liberale, «Oasis», anno V, n. 10, dicembre 2009, pp. 25-29.
Riferimento al formato digitale:
John Milbank, L’incoerenza del pluralismo liberale, «Oasis» [online], pubblicato il 1 dicembre 2009, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/l-incoerenza-del-pluralismo-liberale.