Mistica e religiosità popolare s’incontrano in Iran nell’uso dell’icona portatile. Un’indagine inedita tra dottrine antiche e pratiche viventi
Ultimo aggiornamento: 30/07/2024 10:22:46
Mistica e religiosità popolare s’incontrano in Iran nell’uso dell’icona portatile. Essa permette al fedele di stabilire un legame con la dimensione visibile di Dio nel luogo della sua manifestazione: la persona dell’Imam. Un’indagine inedita tra dottrine antiche e pratiche viventi.
Nel variegato panorama dell’arte pittorica sciita duodecimana, l’icona portatile (in persiano shamâ’il-i jîbî, letteralmente “l’immagine pia tascabile”) sembra occupare un posto particolare. Porta il nome di shamâ’il, che è anche applicato ai grandi ritratti murali dei santi nella pittura detta della maison de café o ai tessuti dipinti dei cantastorie itineranti epici e religiosi. Gli esemplari di shamâ’il più antichi risalirebbero al diciottesimo secolo. L’oggetto sarebbe originario dell’Iran o dell’India, ma esiste anche in altre regioni in cui si è diffuso lo sciismo. Lo shamâ’il portatile è un oggetto di devozione cui si attribuisce la capacità di assicurare benedizione e protezione al proprietario. È una tavoletta rettangolare in legno, talvolta ricoperta di cartapesta dipinta, che misura circa 15/20 cm per 10. L’oggetto si presenta anche sotto forma di piccolo retablo composto da due o più tavolette che talvolta nascondono uno specchio. Reca sempre l’immagine policroma di personaggi santi dello sciismo. Generalmente si tratta dell’immagine di ‘Alî Ibn Abî Tâlib, primo imam e santo per eccellenza in terra sciita, solo o accompagnato da uno o più personaggi. La figura 1, in cui si vedono ‘Alî e i suoi due figli al-Hasan e al-Husayn, e la figura 2, sono esempi tipici di questi shamâ’il. Sulla prima tavoletta l’immagine è contornata da poesie mistiche. Si tratta di una quartina, semi-cancellata, attribuita al celebre mistico khorasaniano Abû Sa‘îd Abû l-Khayr (m. 440/1048):
Ey shîr-e khodâ amîr-e haydar fathî / Vey qal‘e goshâ-ye dar-e Khaybar fathî Dar hâ-ye omîd bar rokham baste shodeh / Ey sâheb-e dho l-faqâr o qanbar fathî O leone di Dio, principe Leone (epiteto di ‘Alî) [concedimi] apertura/ispirazione, O tu che hai conquistato la fortezza di Khaybar aprendone la porta, Le porte della speranza si sono chiuse davanti a me. O Signore del Dhû l-faqâr [sciabola di ‘Alî] e di Qanbar [fedele servitore di ‘Alî], [concedimi] apertura/ispirazione
A quanto ne so, tale oggetto di devozione popolare è sconosciuto agli studi critici. Opere di riferimento come Shi’ism and Late Iranian Arts di Samuel R. Peterson, Iconografia dell’Ahl al-bayt: immagini di arte persiana dal XII al XX secolo di Maria Vittoria Fontana, Royal Persian Paintings: The Qajar Epoch diretto da Layla S. Diba e Maryam Ekhtiyar o Imageries populaires en Islam di Pierre e Micheline Centlivres lo ignorano. Senza pretendere di colmare pienamente questa lacuna, vorrei prendere qui in considerazione alcune funzioni dell’oggetto in questione.
Il derviscio di Shiraz
Nell’estate 1983, a Shiraz, un derviscio appartenente alla confraternita sufi della Dhahabiyya mi mostrò una di queste tavolette utilizzando in proposito l’espressione “shamâ’il tascabile”. Era la prima volta che ne vedevo una. Il derviscio mi spiegò che faceva parte degli oggetti spirituali che alcuni adepti sono tenuti a possedere e che serviva da supporto a una pratica contemplativa segreta chiamata nella confraternita “l’esercizio del vejhe” (da wijha in arabo, cfr. infra). L’esercizio consiste nel fissare l’immagine di ‘Alî concentrandosi sul proprio cuore e praticando il dhikr-e ‘Alî, vale a dire ripetendo all’infinito il nome di ‘Alî che è anche uno dei Nomi di Dio. L’obiettivo è raggiungere la contemplazione dell’“imam interiore”, quello del cuore dell’individuo iniziato, sotto forma di luce. Il mistico mi ha detto inoltre che questa è principalmente la pratica dei dervisci novizi, quelli a cui è proibito concentrarsi sull’immagine mentale del volto del maestro vivente dell’ordine perché rischierebbero di cadere nell’“idolatria” e nel “culto del maestro”, ma anche perché sono incapaci di visualizzare “il volto di Luce” dell’imam senza un supporto fisico. Vengono allora consegnati loro questi ritratti di ‘Alî, imam per eccellenza, perché se ne servano per qualche tempo come supporto di visualizzazione fino a quando non saranno in grado di farne a meno.
Le rivelazioni del derviscio di Shiraz riguardo allo shamâ’il hanno destato in me un vivo interesse. La postura di ‘Alî che regge la sua sciabola è sorprendente. È seduto sulle ginocchia con gli avambracci incrociati in modo che ognuna delle due mani poggi sulla coscia opposta. È una delle posizioni caratteristiche della pratica del dhikr sufi. Le numerose ricerche che ho condotto non mi hanno permesso di trovare la benché minima conferma, scritta o orale, di questo uso iniziatico degli shamâ’il portatili. Altri membri della stessa confraternita Dhahabiyya che conoscevo hanno rifiutato di dire alcunché sulla loro pratica del vejhe e sul suo supporto.
Molti anni dopo questo incontro, durante i miei lavori di ricerca a Parigi, ho potuto constatare che l’esercizio del vejhe ha origini remote nella pratica spirituale della “visione con il cuore” (al-ru’ya bi l-qalb). Si tratta di una pratica il cui contenuto teologico, antropologico ed escatologico è stato esposto in maniera allusiva da antichi compilatori di hadîth sciiti, come al-Saffâr al-Qummî, Muhammad Ibn Ya‘qûb al-Kulaynî o Ibn Bâbûya al-Sadûq, nel corso del III/IX secolo e del IV/X secolo. Ciò mi ha spronato a proseguire la mia ricerca al di là del corpus antico e a studiare gli sviluppi della “visione con il cuore” nella mistica sciita, più precisamente nella letteratura delle confraternite sufi imamite in epoca moderna e contemporanea. I risultati di questa ricerca oggi sono pubblicati in numerose opere che potrà essere utile consultare per meglio comprendere ciò che segue.[1]
In numerosi passi di opere dhahabi da me consultate sulla pratica della ”visione con il cuore” non ho trovato alcuna menzione esplicita né dell’esercizio del vejhe né dello shamâ’il portatile come supporto alla contemplazione. Tuttavia, due scoperte risalenti agli anni 2000 mi hanno permesso di stabilire una relazione tra i miei lavori sui testi dottrinali e le rivelazioni del derviscio di Shiraz. Innanzitutto, grazie alla benevolenza di qualche vecchia conoscenza dhahabi, ho potuto disporre di un documento interno della confraternita intitolato proprio “Che cos’è il vejhe?”. La copia che mi è stata data comprende le pagine 150-160 di un’opera che sembra essere un manuale di pratiche e credenze dhahabi, apparentemente scritto dal penultimo maestro della Dhahabiyya Ahmadiyya, il Dr. Ganjaviyân, o forse redatto sotto sua dettatura. Il secondo reperto è un insieme di quattordici shamâ’il portatili acquistati a un mercato di Teheran dalla mia collega del Centre National de la Recherche Scientifique, la Sig.ra Živa Vesel che ora le ha donate al Musée des Civilisations de l’Europe et de la Méditerranée di Marsiglia. Il lettore conosce già due shamâ’il di questo gruppo (Fig. 1 e 2). Un terzo pezzo mi sembra contenere elementi particolarmente significativi per la problematica della pratica del vejhe. Mi pare che essi confermino le parole del derviscio iraniano.
L’occhio interiore
Vorrei ora tornare brevemente sulla pratica contemplativa sciita della “visione con il cuore” e sul ruolo di ‘Alî come oggetto di contemplazione, già analizzati in lavori precedenti. Il binomio zâhir/bâtin (manifesto/nascosto o essoterico/esoterico), onnipresente nello sciismo, opera naturalmente anche nella teologia. Dio può essere considerato a due livelli ontologici: quello dell’Essenza (dhât), che costituisce il suo livello nascosto, non manifesto, il suo Volto inconoscibile, e quello dei Nomi e degli Attributi (asmâ’ wa sifât) che corrisponde al Volto rivelato di Dio. Quest’ultimo livello è reso manifesto attraverso il suo luogo teofanico (mazhar, majlâ) per eccellenza, vale a dire l’Imam nel suo senso cosmico e metafisico.
Per quanto riguarda la questione della visione, l’Essenza insondabile di Dio non può essere in alcun caso oggetto di visione. Al contrario, i Nomi di Dio, rivelati attraverso l’Imam, possono essere percepiti non attraverso l’occhio fisico, ma grazie alla scoperta della Luce dell’Imam “nel” o “con” il cuore (sono questi i due sensi della preposizione bi nell’espressione al-ru’ya bi l-qalb). In questa pratica spirituale segreta che fa del fedele iniziato «il fedele il cui cuore è stato messo alla prova da Dio per la fede» (al-mu’min qad imtahana llâhu qalbahu li l-îmân), la visione del Volto luminoso dell’Imam nel cuore equivale alla contemplazione del volto rivelato di Dio. Ovunque, nella letteratura esoterica sciita, ‘Alî è presentato come il tramite per eccellenza dell’Imam cosmico, il luogo più elevato di manifestazione di Dio, il vero Volto di Dio.
Con una imamologia teosofica di questo tipo, è normale che ‘Alî svolga un ruolo centrale nelle pratiche contemplative. A questo proposito è sufficiente citare due hadîth a cui le opere mistiche fanno costante riferimento quando affrontano la questione della visione di Dio attraverso la visione dell’Imam. Vi è innanzitutto una tradizione attribuita al Profeta, riferita dalle raccolte di hadîth più autorevoli: «Guardare il volto di ‘Alî è un atto cultuale di adorazione (‘ibâda); far memoria di lui (dhikruhu) è un atto cultuale di adorazione». Vi è inoltre un detto risalente a ‘Alî Ibn Abî Tâlib in persona e che compare solo nel corpus degli scritti propriamente mistici:
«Conoscermi come luce è conoscere Dio e conoscere Dio è conoscermi come luce. Colui che mi conosce come luce è un credente fedele il cui cuore Dio ha messo alla prova per la fede»
La luce “vista” nel o con il cuore è così identificata con il volto di ‘Alî, essere teofanico per eccellenza. Questi dati iniziatici sul ruolo dello sguardo rivolto a una figura sacrale, fondati su una teologia complessa e sottile dell’Imam, hanno raggiunto anche la religiosità “popolare”. A titolo d’esempio si possono citare numerosi ritratti d’epoca qajar di ‘Alî, talvolta accompagnato dai suoi due figli, che si trovano nel museo del mausoleo della santa Ma‘sûma a Qom o ancora al museo dell’Imam ‘Alî a Teheran dove si trovano iscrizioni in persiano di questo genere, presentate come detti del primo imam: «Colui che guarda e abbraccia il mio ritratto (shamâ’il) ogni giorno dopo la preghiera dell’alba, è come se compisse sessanta volte il pellegrinaggio alla Mecca» o ancora «Colui che guarda costantemente il mio ritratto resterà immune da ogni sorta di male e colui che ne dubita è un miscredente».
«Non adorerei un Signore che non potessi vedere»
Offro di seguito la traduzione commentata degli estratti del trattato dhahabi anonimo (i testi tra parentesi sono stati redatti da me): «Salute al Volto di Dio che porta pace e sicurezza a colui che vi si rivolge con fede [in arabo, seguito da una traduzione libera in persiano. Il testo prosegue in persiano]. Non v’è dubbio alcuno che l’ultimo Profeta e gli Impeccabili [Fatima e i dodici imam] sono ciascuno il Volto più nobile di Dio… A questo proposito, si citerà una tradizione tratta dal libro degli ‘Uyûn akhbâr al-Ridâ dello shaykh Sadûq [Ibn Bâbûya, m. 381/991], una delle fonti più sicure del Hadîth.
Poi, riguardo al senso del vejhe – una delle questioni più ardue sulla via iniziatica e sulla conoscenza mistica – sarà riportato un detto dell’imam [‘Alî] Comandante dei credenti, che costituisce una prova decisiva. E ora, il hadîth… sulla natura del Maestro dell’amore [‘Alî] e il fatto che egli è il Volto di Dio per eccellenza:
«Iddio l’Altissimo dichiara: “Io sono Dio. Non vi è altro dio all’infuori di Me. Ho creato le creature con la mia potenza. Ho scelto tra queste i miei inviati e tra questi ho scelto Muhammad come amico, confidente intimo ed eletto, affidandogli la missione di inviato presso le mie creature. E ho eletto ‘Alî per [completare la missione di] Muhammad, l’ho eletto come suo fratello, suo legatario, suo luogotenente, messaggero della sua opera dopo di lui… Ho fatto di ‘Alî il mio volto, non distoglierò mai il mio volto da colui che volge il suo verso ‘Alî. Ho fatto di ‘Alî la mia prova nei cieli e sulla terra per tutte le mie creature… Giuro sulla mia gloria e sulla mia grandezza che colui che ama ‘Alî sarà protetto dal Fuoco e lo farò entrare nel mio Giardino, che colui che si allontana dall’amore di ‘Alî conoscerà la mia collera e lo precipiterò nel Fuoco, quale triste destino!”»
[Il testo prosegue in persiano] Nel commentario coranico Burhân, a chiosa del versetto 88 della sura 28 «Tutte le cose periscono tranne il Suo volto», è riportato sull’autorità dell’imam Sâdiq [il sesto imam]: «Siamo noi, gente della Famiglia del Profeta, questo volto immortale». La ragione principale per la quale si cita questo genere di tradizioni è mostrare che la Prova Infallibile [hujja, cioè l’imam o, più in generale, gli Impeccabili, vale a dire il Profeta, la figlia Fatima e gli imam] è il volto eterno di Dio. Colui che vuole volgersi verso Dio deve volgersi verso questo volto. Gli uomini della gnosi mistica hanno chiamato vejhe il fatto di volgersi verso il volto divino[2]. Di che cosa si tratta? Dicendo che l’imam è il volto divino, s’intendono il suo volto e il suo aspetto fisico? Come si è detto precedentemente, una delle nozioni teologiche e filosofiche più difficili degli iniziati e dei saggi è la pratica cultuale del vejhe e la contemplazione della presenza dell’essere adorato grazie a questa pratica. Tecnicamente, si definisce anche meditazione (tafakkur) o forma [o «volto», «viso»] mentale (sûrat fikriyya), come è stata cantata da Mawlavì [Jalâl al-Dîn Balkhî Rûmî, m. 672/1273. Il verso proviene dal suo Mathnavî; è una variante del verso n. 3207, “Storia del beduino e del filosofo”]:
«Con la pratica del dhikr [ripetizione ritmata di una parola sacra], si apre una via. Grazie alla pratica del fikr [“meditazione”], appare [interiormente la forma] del re»
O ancora lo shaykh Shabistarî [Sa‘d al-Dîn Mahmûd, m. 720/1320. Il verso è tratto dal suo Golshan-e râz, “Risposta alla prima domanda”, verso 2]:
«La meditazione è procedere dall’illusorio verso il reale, È vedere l’universo assoluto nel particolare»
Per dimostrare la veridicità del fatto che la pratica cultuale degli uomini della conoscenza e della perfezione si attua solo grazie al vejhe, è sufficiente citare le parole del tesoriere dei segreti della Rivelazione dopo Muhammad, il Maestro dell’amore, [‘Alî] il Comandante dei credenti. Nel libro al-Ikhtisâs, lo shaykh Mufîd [m. 413/1022] riferisce da Asbagh Ibn Nubâta [celebre discepolo di ‘Alî]: «Dall’alto del pulpito della moschea di Kûfa, ‘Alî si rivolse così al suo popolo: “Interrogatemi, prima di perdermi!” In quel momento, un uomo di nome Dhi‘lib si alzò e disse: “Comandante dei credenti! Hai visto il tuo Signore?” ‘Alî rispose: “Bada Dhi‘lib! Potrei adorare un Signore che non vedo?” “Allora descrivilo!” “Guai a te! Gli occhi non possono raggiungerLo con lo sguardo; sono i cuori che lo vedono attraverso le realtà della fede”». La citazione di questo estratto del sermone [di ‘Alî] vuole dimostrare che, secondo il detto del Comandante dei credenti vedere Dio è possibile grazie alla visione con il cuore. Colui che ha raggiunto le “realtà della fede” può vederLo e conosce le modalità di questa visione… Da tutto ciò che è stato detto si possono trarre le seguenti conclusioni:
- L’imam infallibile è il Volto di Dio.
- Attraverso l’imam, è possibile vedere la bellezza divina, non con gli occhi della carne ma con l’occhio del cuore e grazie alle realtà della fede. Siccome l’imam è lui stesso la totalità delle realtà della fede, rappresenta la direzione della preghiera nel cuore nell’atto di adorazione di Dio. Non si tratta tuttavia del suo corpo fisico, si tratta piuttosto di estinguersi nel suo amore per rinascervi eternamente allo scopo di avere la sua santa visione attraverso il cuore e poter dichiarare: «Non adorerei un Signore che non potessi vedere».
Specchiarsi nell’icona
In una tavoletta della collezione Vesel (Fig. 3) ‘Alî, la testa cinta da un’aureola, è seduto sulle ginocchia, gli avambracci incrociati che reggono la sciabola Dhu l-faqâr sulle cosce. Abbiamo visto che questa posizione somiglia a una delle posizioni caratteristiche della pratica del dhikr sufi. Effettivamente alcune formule del dhikr, fondate sui Nomi divini, incorniciano il ritratto sulla tavoletta. Sulla sommità si legge la formula yâ ‘Alî. Poi, dall’alto in basso e da destra a sinistra: yâ Bâqî (prima parte cancellata), yâ Qayyûm (ultima parte cancellata), yâ Dayyân, yâ Burhân, yâ Ghufrân, yâ Subhân, yâ Samî‘ (prima parte cancellata), yâ Basîr (ultima parte cancellata)[3]. Infine, due distici i cui emistichi sono chiaramente isolati sono scritti orizzontalmente al vertice e alla base, e verticalmente a sinistra e destra, dall’alto in basso e dal basso in alto. Le loro allusioni simboliche sembrano ormai decodificate alla luce dei testi antichi esaminati e del nostro trattato sulla pratica del vejhe. Primo verso: «Fintanto che l’amore di ‘Alî si riflette nello specchio del cuore Si può dire che il mio cuore è il luogo della manifestazione delle grazie divine» (tâ dar âyîne-ye del mehr-e ‘Alî jelve namâst / mîtavân goft delam mazhar-e altâf-e khodâst). Secondo verso: «Il Leone di Dio è venuto in essere, Così sono stati rivelati tutti i segreti nascosti» (asadallâh dar vojûd âmad / dar pas-e parde har če bûd âmad). La posizione di ‘Alî, le formule di dhikr, i poemi che cantano i segreti teofanici di ‘Alî e la visione beatifica del suo amore che si riflette come una luce nel cuore, tutto questo stabilisce stretti rapporti tra il nostro shamâ’il e la pratica della visione con il cuore in generale e l’esercizio del vejhe in particolare. Questo fascio di dati concordanti sembra corroborare le testimonianze del derviscio di Shiraz sullo shamâ’il portatile come supporto alla contemplazione mistica. Il fatto che l’uso iniziatico dello shamâ’il, in particolare quello di ‘Ali, vada al di là dell’Ordine della Dhahabiyya conferma ulteriormente questa ipotesi. Infatti, esso fa parte anche degli oggetti di culto dei dervisci della confraternita Khâksâr. Nella Baktâshiyya, che ha ereditato le dottrine della Hurûfiyya sulla sacralità del volto umano e sul suo carattere teofanico, il ritratto di ‘Ali e il suo nome calligrafato sono potenti supporti alla meditazione e alla contemplazione.
La forma di Dio s’inscrive sul volto dell’uomo baktâshi grazie al nome di ‘Alî: la ‘ayn è rappresentata dall’arcata sopraccigliare, la lâm è formata dalla linea del naso e la yâ’ dalla curva dei baffi. Così, dai due lati della linea verticale mediana virtuale del viso, due ‘Alî “speculari” coprono il volto. In tal modo si potrebbe dire che viene iconograficamente stabilita un’identità tra il sé dell’individuo iniziato (rappresentato dal suo stesso volto), ‘Alî e Dio. Questa dottrina spirituale è abbondantemente attestata. I celebri versi del poeta baktâshi Hilmî Dede Bâbâ (m. 1907) la illustrano chiaramente: «Ho tenuto uno specchio davanti al mio viso / ‘Alî è apparso ai miei occhi Ho guardato me stesso / ‘Alî è apparso sul mio viso».
In questo contesto, vale la pena notare che certi shamâ’il portatili contengono anche uno specchio. In alcuni oggetti raccolti da Madame Vesel, la superficie che reca il ritratto di ‘Ali scorre a mo’ di cassetto e lascia comparire uno specchio. Così colui che contempla la tavoletta può passare rapidamente dall’immagine di ‘Alî al riflesso del proprio viso e viceversa, illustrando in tal modo l’adagio sciita ripetuto all’infinito nelle opere mistiche: «Colui che conosce se stesso, conosce il suo Imam che è il suo Signore».
Se è vero che il termine “icona” è impiegato con un senso tecnico preciso nel Cristianesimo in generale e nel Cristianesimo ortodosso in particolare, lo si può applicare allo shamâ’il portatile a condizione di accordargli il significato più generale di oggetto d’arte sacra così come è stato proposto da Plotino, definizione che d’altronde è alla base di quella dell’icona cristiana. Questa definizione trova fondamento nello sguardo del soggetto che guarda piuttosto che nella forma dell’oggetto guardato. A proposito della contemplazione della statua del tempio per esempio, Plotino parla nelle Enneadi (1,6-9 e 11,1-13) dello sguardo che non è quello «degli occhi del corpo» bensì quello misteriosamente gettato «dall’occhio interiore». Questo esercizio di concentrazione trasforma il soggetto che guarda:
«[Perché l’oggetto d’arte sacra possa svolgere il suo ruolo] è necessario che l’occhio vedente si renda simile all’oggetto visto, per applicarsi a contemplarlo. Mai un occhio vedrà il sole senza essere diventato simile al sole, né un’anima vedrà il bello senza essere bella»
L’icona portatile, lo “shamâ’il tascabile”, secondo le parole del nostro derviscio sembra costituire un potente legame tra l’arte pittorica sciita e la mistica delle confraternite o ancora tra le credenze popolari e le tendenze sufi. La pratica spirituale dell’icona dei santi sciiti e singolarmente quella di ‘Ali mostra nella maniera forse più significativa quanto possono essere porose le frontiere tra religione dotta e religione popolare, tra dottrine antiche e credenze e pratiche viventi.
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[1]Cfr. M.A. Amir-Moezzi, Le Guide divin dans le shi’isme originel, Verdier, Paris 1992 (2e éd. 2007), 112-145 ; id., La vision par le cœur dans l’islam shi’ite, «Connaissance des religions», n° speciale 57-59 (1999), 146-169 ; id., La religion discrète : croyances et pratiques spirituelles dans l’islam shi’ite, Vrin, Paris 2006, capitolo 10.
[2]La parola vejhe è la pronuncia persiana del termine arabo wijha, che significa letteralmente « faccia di un corpo». Ha anche il senso coranico di “direzione in cui si trova l’oggetto della preghiera” (cfr. Corano 2,148). Nel nostro caso l’uso del termine ingloba naturalmente i due significati.
[3]O immortale, o eterno autosussistente, o giudice, o prova evidente, o perdono, o gloria, o ascoltatore, o vedente (N.d.T.).
*Si ringrazia l'autore per l'immagini