Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:11:46
Il viaggio notturno (da Mecca a Gerusalemme) e l’ascensione (da Gerusalemme ai sette Cieli) costituiscono un momento fondamentale del percorso di Muhammad, quale è delineato dalla tradizione islamica. Forse traendo spunto da un accenno contenuto nel Corano, essa lo colloca negli ultimi anni della permanenza di Muhammad alla Mecca, prima della sua égira del 622; la grande importanza che vi è attribuita è testimoniata dal fatto che del racconto del viaggio nell’Aldilà, configuratosi ben presto come una narrazione continua, circolano diverse versioni. Ida Zilio-Grandi offre al lettore italiano quella più celebre, posta sotto l’autorità di Ibn ‘Abbâs, cugino del Profeta dell’Islam e autorità in fatto di teologia ed esegesi coranica.
Perché questa narrazione ha goduto e gode di tanta fortuna nel mondo musulmano? Le ragioni sono molteplici. Certamente essa risponde alla naturale curiosità che da sempre suscita nell’uomo il mistero dell’Aldilà. Inoltre essa sviluppa al massimo grado il tema della continuità da un lato, ma soprattutto della superiorità di Muhammad e della sua comunità rispetto ai profeti che lo hanno preceduto e che, di cielo in cielo, gli rendono testimonianza. Ma a nostro avviso la ragione più profonda del successo di questo racconto (e il suo grandissimo interesse per chi voglia comprendere l’esperienza religiosa islamica) è che esso offre al credente musulmano un modello di rapporto con Dio. L’apice dell’ascensione di Muhammad risiede infatti nel suo colloquio con l’Altissimo. «Feci un passo di cinquecento anni di cammino. La voce mi disse “Ahmad, non temere, e la tristezza non ti colga”. [...] Mi avvicinai ancora al mio Signore finché mi ritrovai “alla distanza di due archi o meno” (Cor. 53,9). [...] L’Eccelso e Sommo mi pose la Sua mano tra le scapole» (pp. 33-34). E di lì prende avvio un dialogo nel quale Dio, per ridurre il senso di spaesamento di Muhammad, ha la delicatezza di far risuonare negli spazi dell’eternità la voce dell’amico Abû Bakr. In una religione che si vuole custode della Trascendenza assoluta di Dio, questo avvicinarsi dell’uomo a “due archi o di meno” è la grande speranza che il credente coltiva.
Non deve stupire dunque che nel Medioevo latino il Viaggio notturno sia stato ritenuto un Testo Sacro dell’Islam, di poco inferiore al Corano, e per questa ragione sia stato tradotto alla corte di Alfonso X il Savio, a opera di un dotto ebreo (in castigliano) e del notaio Bonaventura da Siena (in francese e latino). Fu la riscoperta di quest’opera, nota come Libro della Scala, a metà del secolo scorso a riaprire, su un piano di oggettività testuale, la questione delle fonti della Commedia dantesca, che l’opera dell’arabista spagnolo Asín Palacios aveva sollevato, ammassando con molto entusiasmo, ma scarso discernimento e metodo, tutto quello che nelle opere della letteratura araba e medievale latina denuncerebbe la presunta dipendenza di Dante dalle fonti arabe.
Di questo dibattito dà conto nella postfazione Maria Piccoli, mostrando i possibili paralleli testuali tra le narrazioni del viaggio del Profeta e l’itinerario dantesco. La sobria esposizione è particolarmente apprezzabile perché non di rado accade che la questione delle fonti della Commedia, come di altri capolavori della letteratura universale, sia posta in modo ingenuo e al tempo stesso confuso quanto alle finalità di una tale indagine. Oltre infatti a non considerare, come scrisse Massignon rispondendo ad Asín Palacios, che «c’è solo un numero limitato di geometrie immaginabili capaci di rispondere a determinate condizioni di base», essa, in mani poco esperte, rischia di mutarsi in una gigantesca operazione di autopsia che nel ricercare le parti perde di vista il tutto, l’organismo vivente che il testo rappresenta. La genialità del grande autore non si misura prima di tutto nell’inedito, ma nella sua capacità di dare nuova forma a quanto lo precede. Una critica delle fonti della
Commedia che non voglia ridursi a sterile filologismo, prigioniera del mito dell’“eterno regresso” di testo in testo, non può che prefiggersi di mostrare l’innesto del nuovo sull’antico, perché «la mente di Dante tutto trasforma, ricrea e trasmuta: la Bibbia, i testi occidentali e, perché no, quelli islamici» (p. 102).