Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:41:42
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Apparentemente, la legittimità di un tale confronto può sembrare abbastanza ovvia: una porzione significativa della popolazione di vari paesi limitrofi si ribella ai suoi governanti e li destituisce. Essendo cittadini di solide democrazie, gli osservatori dal cosiddetto Mondo Libero simpatizzano per i ribelli, poiché sperano che questi paesi diventeranno anch’essi democrazie liberali. A ben guardare, però, la parte più importante del titolo del mio contributo è il punto interrogativo finale. Nonostante alcune somiglianze, le premesse di questi due sviluppi sono state e sono così diverse che è quasi impossibile, in ogni caso estremamente difficile e talvolta anche rischioso, prevedere quelli che con ogni probabilità saranno i risultati di ciò che recentemente è accaduto a in Nord Africa e nel Vicino Oriente.
Per capire quanto avvenuto nell’Europa centrale e orientale negli anni ‘80 del secolo scorso è necessario tornare alla fine della II Guerra Mondiale e persino alle conseguenze della I Guerra Mondiale. Fino al 1918 l’Europa centrale e orientale era più o meno divisa in tre Imperi: l’Impero Germanico che includeva una buona parte di quella che più tardi sarebbe diventata la Repubblica polacca, l’Impero russo che includeva altre ampie parti dell’attuale Polonia, e la monarchia austro-ungarica che possedeva parti della Polonia, dell’Ungheria e della Cecoslovacchia, incluse parti sostanziali della recente Yugoslavia e anche del nord Italia. Questi tre Imperi erano tutti entità trans-nazionali, che hanno gestito la questione della cittadinanza in modi diversi: mentre la Russia e ancora di più la Germania, da Bismarck in avanti, hanno perseguito una politica di russificazione e di germanizzazione, la monarchia asburgica era orgogliosa del suo carattere multi-nazionale e spesso ha esplicitamente promosso l’identità culturale delle sue molte nazioni. Solo nell’Europa del Sud-Est c’erano tre regni indipendenti: Serbia e Bulgaria che fino a circa la metà del XIX secolo facevano parte dell’Impero Ottomano, e la Romania. Tuttavia, i governanti di questi tre stati di solito stringevano stretti legami di parentela con l’aristocrazia tedesca e austro-ungarica e quindi con le famiglie imperiali.
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Dopo la morte di Stalin, la presa di Mosca sui paesi satellite ha cominciato a diminuire. Uno dei motivi è stato certamente che i successori di Stalin avevano paura l’uno dell’altro e non potevano quindi agire tanto incautamente quanto aveva fatto il “compagno Generalissimo”. Tuttavia, per un certo numero di anni, Mosca ha continuato mettere in atto una politica per la quale a nessuno stato satellite era permesso avere una propria strategia fin tanto che era in gioco la politica del Patto di Varsavia: nel 1956, l’Armata Rossa ha represso brutalmente la rivolta ungherese; dodici anni dopo gli eserciti del Patto di Varsavia hanno messo fine, con la forza, alla cosiddetta Primavera di Praga. Tuttavia, già a quel tempo era diventato evidente che Mosca non sarebbe riuscita a mantenere in eterno i suoi satelliti con la sola violenza. Seguì un periodo di graduale liberalizzazione in cui i governanti comunisti hanno cercato di ottenere il favore degli abitanti dei rispettivi paesi con un notevole miglioramento economico, il cosiddetto “comunismo gulash”, un’espressione che sembra essere stata coniata da Nikita Krusciov dopo la rivolta ungherese. Tuttavia, la liberazione graduale, spesso descritta come un “disgelo”, ha permesso una migliore informazione su ciò che stava accadendo in Occidente - e tutti, nel mondo comunista, erano sempre più consapevoli del fatto che, rispetto ai paesi del Patto di Varsavia, il mondo occidentale era, dal punto di vista della prosperità economica, un paradiso.
Mentre Breznev ha cercato di restaurare un impero malaticcio, seguendo una sorta di politica neo-stalinista e Andropov, così come Chernenko, era già gravemente malato quando per un breve periodo ha assunto il comando, Gorbaciov ha cercato di intraprendere una strada completamente diversa nel tentativo di salvare il sistema sovietico. Ha proclamato la glasnost, un nuovo tipo di apertura mentale e la perestrojka, una riorganizzazione e, sperando nella loro cooperazione, ha sancito esplicitamente l’indipendenza degli stati satelliti, mettendo fine così alla dottrina che stava alla base del Patto di Varsavia. Certamente la sua intenzione non era quella di abolire il sistema sovietico ma, introducendo una nuova apertura mentale, l’ha di fatto distrutto. Un paese dopo l’altro, prima la Polonia, poi la Cecoslovacchia, poi l’Ungheria e tutti gli altri paesi satelliti e infine la stessa Unione Sovietica, hanno cessato di essere paesi comunisti e sono diventati più o meno stabili e democrazie costituzionali e più o meno liberali.
Ripensando a questo affascinante sviluppo ancora oggi è difficile capire cos’è successo: non c’è stata - con l’eccezione della Romania e dal 1991 l’ex-Jugoslavia - violenza, non un solo colpo di fucile, nessuna punizione, neppure un procedimento giudiziario nei confronti di coloro che in precedenza stavano al potere. I governanti comunisti si sono semplicemente arresi e hanno cercato di allontanarsi con il maggior numero possibile di proprietà statali. Siccome durante questi anni sono stato spesso in Polonia e in Cecoslovacchia, ricordo bene questo periodo: il sollievo per la fine, quasi miracolosa, di un tempo terribile era così grande che la sera in alcuni luoghi si poteva assistere a strane feste nelle quali i rappresentanti del sistema precedente sedevano mezzi ubriachi allo stesso tavolo con quelli che loro, o i loro predecessori, avevano mandato in prigione o nei campi di concentramento. Nessun odio, nessuna sete di vendetta, nessuna calunnia, semplicemente una gioia profonda per il fatto che l’incubo era finito - per quanti erano stati perseguitati l’incubo della persecuzione e della repressione, per gli ex rappresentanti del sistema l’incubo che sarebbe arrivato il momento in cui loro sarebbero stati perseguitati. Il fatto che in Romania e in Jugoslavia la scomparsa del comunismo non è stata pacifica ha delle ragioni ben precise: in Romania coloro che hanno destituito Ceausescu erano ex comunisti che speravano di salvarsi la pelle sbarazzandosi di lui; la Jugoslavia era uno stato multinazionale e multireligioso che si è disintegrato in una sanguinosa guerra civile dovuta al desiderio dei serbi di mantenere la loro tradizionale supremazia.
Naturalmente, questa gioia armoniosa durò poco più di un paio di mesi e ben presto sono emersi partiti politici che, come avviene nelle democrazie, si sono combattuti aspramente l’un l’altro.
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Ora, se si confronta questo sviluppo con quello che attualmente sta accadendo nel nord Africa e nel vicino Oriente, risaltano le seguenti differenze. Per cominciare, questi paesi musulmani possono essere stati dittatoriali, ma non erano totalitari, i governanti non hanno agito in nome di un’ideologia totalizzante, ma piuttosto (o solamente) garantivano ed estendevano la loro posizione una volta che l’aveva raggiunta. Certamente si possono paragonare questi governanti ai dittatori sudamericani, ma non è affatto opportuno metterli a confronto con Hitler, Stalin o con i neo-stalinisti come Breznev. In secondo luogo, i paesi in questione non erano satelliti di uno di questi paesi, ma erano piuttosto entità politiche indipendenti dotate di regimi vagamente simili. In terzo luogo, quello di cui oggi siamo testimoni non è il collasso di un “sistema”, ma piuttosto un fenomeno che si potrebbe descrivere come un’infezione: cittadini di paesi diversi a cui non piaceva il modo in cui erano governati hanno imparato gli uni dagli altri cosa fare per eliminare i loro governanti, o meglio, e più in particolare, visto che in Egitto Mubarak si è arreso, speravano di riuscire anche loro a destituire i loro governanti. Vale la pena notare che i governi di paesi che, come la Cina comunista, non hanno quasi nulla in comune con l’universo musulmano sono diventati e sono tuttora nervosi; ciò che sta accadendo nel Nord Africa e nel Vicino Oriente potrebbe facilmente accadere in qualsiasi altro paese autoritario - una rivolta contro i governanti.
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[…] è quasi impossibile dire se e in quale misura i rivoluzionari esprimono il desiderio della stragrande maggioranza degli abitanti dei paesi in questione; dopo tutto, l’Egitto e la Libia erano relativamente ricchi, in ogni caso. Dall’altro, essere contro un governante o un sistema politico in quanto tale non offre una risposta chiara alla domanda circa il tipo di ordine politico con il quale dovrebbero essere sostituiti. Il problema principale di tali paesi musulmani mi sembra consistere nel fatto che essi non hanno tradizioni democratiche o anche semplicemente costituzionali sulle quali ripiegare. Soprattutto, contrariamente a quanto è avvenuto nell’Europa centrale e orientale negli anni ‘80 del secolo scorso, la stragrande maggioranza della popolazione non ha le idee chiare su che cosa consista e cosa presupponga una democrazia solida e liberale.
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Una democrazia moderna presuppone che quasi tutti la appoggino e che nessuno la osteggi seriamente. Al momento, questa mi sembra essere la principale difficoltà dei paesi musulmani in questione: non ci sono solo molte idee completamente diverse su quello che potrebbe essere un futuro soddisfacente; vi è anche stato uno spargimento di sangue troppo isterico e privo di significato, non solo tra governanti e rivoluzionari, ma anche tra coloro che vogliono o che volevano deporre i loro governanti. Solitamente, laddove viene sparso molto sangue è necessario molto tempo prima che si verifichi uno sviluppo pacifico senza violenza supplementari.
Il testo integrale dell'intervento sarà disponibile sul prossimo numero della rivista Oasis