Intervista a Ghassan Hajjar, managing editor di An Nahar, il giornale più diffuso in Libano. Qual è il ruolo dei media e dell’informazione oggi in Medio Oriente?
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:38:14
Fondato nel 1933 da Gebran Tueni, il quotidiano An Nahar si è distinto per grandi lotte politiche e sociali, da sempre a sostegno dell’opposizione. Ha ospitato le firme di numerosi oppositori dei regimi dei Paesi arabi, in particolare coloro che si rifugiavano a Beirut. Oggi del primo quotidiano per diffusione nel Paese è managing editor Ghassan Hajjar.
Intervista a Ghassan Hajjar a cura di Maria Laura Conte
In Occidente si parla spesso della difficoltà di ricevere notizie affidabili sul e dal Medio Oriente. Come si può distinguere la propaganda dalla verità?
Innanzitutto occorre distinguere tra regimi totalitari dove i media ufficiali sono i soli incaricati della divulgazione dell’informazione, e i Paesi democratici, Libano compreso, in cui i media sono proprietà di istituzioni private e di individui. Questa distinzione apre la strada alla competizione che impone ai media di dire la verità, anche se a volte è una mezza verità. Chi segue gli eventi da vicino vuole conoscere la verità.
Là dove c’è una guerra civile o una società divisa tra comunità diverse, possono i media rimanere imparziali o sono condizionati dagli attori in guerra?
Né in Occidente né in Oriente esistono media neutrali al 100%. Il giornalismo è una presa di posizione. Come potremmo prendere una posizione neutrale tra l’esercito e il terrorismo? Sarebbe inammissibile. Inoltre, la verità non è mai assoluta. Ciascuna parte detiene una parte di verità e la difende. Infatti è responsabilità dei media sostenere certe cause.
I social media hanno un impatto effettivo sulla società civile e sull’opinione pubblica? Sono capaci di imporre una linea ai giornali cartacei e decidere una loro agenda?
I social media contribuiscono a mobilitare la gente, ma non a creare un’opinione pubblica. La velocità di scambio e di diffusione delle notizie è priva di concentrazione, cosa che implica una mancanza di chiarezza e visione. Di conseguenza questi media favoriscono la superficialità dell’audience che riceve una grande quantità d’informazioni, ma non ha il tempo per l’analisi e la critica. Il problema è che i social media sono capaci di attirare l’attenzione della generazione giovane, aspetto che li rende in grado di controllare il futuro.
Molti giornalisti libanesi sono stati assassinati a causa della loro professione o delle loro posizioni: Nassib Metni (Télégraphe, 1958), Gebrane Tuéni (An-Nahar, 2005), Kamel Mroueh (Al-Hayat, 1966), Edouard Saab (L’Orient-Le Jour, 1975), Riad Taha (Al-Kifah, 1979), Salim Laouzi (Al-Hawadess, 1980), Samir Kassir (An-Nahar, 2005). Quale segno hanno lasciato? Non avete paura che tocchi anche a voi?
La paura è un sentimento interiore che l’uomo prova indipendentemente dal fatto che altri giornalisti siano stati uccisi. Molte persone hanno paura, mentre molte altre non temono nulla e sono pronte al confronto pur sapendo di sacrificare la loro vita. A me non è mai passato per la mente di non esprimere un’idea o non scrivere un articolo perché altri giornalisti sono stati assassinati. Effettivamente però, come altri giornalisti, a volte evito di affrontare questioni spinose legate alla sicurezza o alla finanza che potrebbero implicare regimi, agenzie influenti o mafie, soprattutto perché le mafie operano spesso in collaborazione con chi è al potere. Ciononostante, per quanto attiene alle questioni quotidiane, noi non temiamo né i politici né i partiti politici, soprattutto se i nostri superiori ci garantiscono il sostegno necessario.
An-Nahar è noto per aver pubblicato articoli di posizioni diverse. Come riesce oggi An-Nahar a restare oggettivo in una situazione complessa come quella libanese? È vero che Saad Hariri è diventato un azionista del giornale?
An-Nahar è sempre stato libero e indipendente, pur non rinunciando a prendere posizione politicamente. Infatti il movimento noto come “coalizione del 14 marzo” è nato grazie ad An-Nahar e ad alcuni media e università cristiane. An-Nahar ha opposto resistenza all’occupazione siriana e agli eserciti illegali e continua a farlo tuttora. Gli azionisti, compreso Hariri, non hanno mai influenzato la sua posizione politica. Abbiamo voluto scegliere degli azionisti che sostenessero la nostra opinione pubblica o che comunque non intervenissero sulla linea editoriale del quotidiano. Ciò che a loro interessa è a volte mettersi in rilievo, ma al riparo dalle critiche. La verità è che la garanzia offerta dai Tueni ha reso l’intervento politico molto limitato.
Quali criteri la guidano nella direzione del quotidiano più diffuso in Libano? Come decide, giorno per giorno, di trattare e presentare ai lettori le dinamiche politiche del Libano?
È un esercizio e un test quotidiano per noi al fine di mantenere la credibilità, di non cadere nei trabocchetti dei politici e di mantenere un certo livello. Noi abbiamo a cuore l’interesse nazionale del Libano, e la salvaguardia della democrazia, della diversità e del pluralismo religioso e culturale. Partendo da questi principi e dai bisogni della gente determiniamo la nostra posizione. Non esagero quando dico che la maggior parte dei politici, anche gli aderenti al gruppo del 14 marzo, non sono soddisfatti di noi perché ciascun partito ci vorrebbe dalla sua parte, fino a eliminare totalmente la nostra personalità e la nostra indipendenza. Spesso, sono abbastanza sorpresi delle nostre posizioni.
In Medio Oriente è in corso un grande dibattito sulla libertà di stampa. Per frenare il giornalismo di opposizione spesso basta accusarlo di minacciare la sicurezza dello Stato. È quanto accade in Turchia, per esempio, in Iran, in Egitto o in Siria. Come si può difendere la libertà di stampa dalla censura imposta dalla legge o dall’autocensura?
Questa realtà non vale per il Libano da quando si è conclusa la tutela siriana. La gente veniva accusata di collaborare con Israele, a torto e a ragione. Tuttavia oggi lo spazio di libertà è piuttosto ampio. Ciò che manca non è la libertà ma la professionalità, visto che molti giornalisti vanno oltre il loro ruolo e i limiti accettabili lanciando insulti e accuse infondate.
Oggi i media possono svolgere un ruolo concreto nei Paesi del Medio Oriente?
In Medio Oriente per il momento è difficile, eccetto che per alcuni Paesi come il Libano e il Kuwait. Quanto ai media negli altri Paesi, sono in mano allo Stato. Sono istituzioni ufficiali incapaci di compiere progressi nell’ambito delle libertà, di esprimere una critica e offrire sostegno ai cittadini.
Da un osservatorio privilegiato qual è la direzione di un quotidiano, come vede la situazione siriana e le sue implicazioni nell’equilibrio libanese?
Separare il Libano dalla crisi siriana è un’illusione. È possibile solo attenuare le ripercussioni della guerra siriana. An-Nahar è noto per la sua ostilità verso il regime siriano: partiamo dalla nostra posizione, ma non gioiamo mai delle disgrazie altrui e non abbiamo mai utilizzato espressioni di rancore. Abbiamo criticato l’opposizione al regime e soprattutto le tendenze islamiste che manifestano intolleranza verso l’altro. Perciò abbiamo cercato di rimanere fedeli alla tradizione del Nahar, noto per la sua oggettività.
Facendo la cronaca delle autobombe, sempre più frequenti, dei morti, della paura, della desolazione, dell’inefficacia della politica, come si può restare sensibili, aperti, curiosi, e non diventare tecnici annoiati della comunicazione?
Oltre a rifiutarlo non saprei quale altro ruolo noi possiamo svolgere a fronte del terrorismo. È una questione urgente. Abbiamo pubblicato diversi articoli sull’incompatibilità degli atti terroristici con i principi religiosi, e parecchi reportage molto commoventi sulla sofferenza umana causata dalle esplosioni. Ciononostante c’è sempre il timore di trasformarsi in macchine che si accontentano di contare i morti e le autobombe.
Lavorare con le parole può diventare complicato: per esempio, un termine come “terrorista” sembra chiaro ma nel caso della Siria o dell’Ucraina, esso può esser letto in un modo diverso dal governo e dalle opposizioni. E’ possibile utilizzare un linguaggio neutro?
La posizione politica non è definita dalla scelta dei termini. L’Occidente per esempio utilizza il termine “terrorista” per designare Hezbollah. Se noi usassimo lo stesso termine in Libano rischieremmo di condurre il Paese verso una guerra civile. Nonostante ciò noi critichiamo ogni giorno le armi illegali e le infrazioni della legge commesse da Hezbollah, il suo intervento in Siria e il mini-Stato che ha istituito all’interno dello Stato libanese. La posizione politica è chiara anche se giochiamo con le parole. Questi sono i principi base del giornalismo, perché non è possibile conformarsi alla lettera alla classificazione americana. E poi chi lo dice che questa classificazione è sempre valida?
I media sono antenne che ascoltano la società civile, i sentimenti, le attese, le speranze e le angosce. Come percepisce la situazione attuale? Prevale un sentimento costruttivo o l’abbandono a divisioni radicali ed eterne?
Effettivamente gli sviluppi degli ultimi anni e le cosiddette “primavere arabe” ci hanno spinto a rivedere diversi aspetti. Addirittura, alcune nostre idee cambiano da un giorno all’altro alla luce della situazione della società araba e della sua attitudine verso una democrazia che non ha mai conosciuto, piuttosto che della sua propensione per l’islamismo o del controllo degli islamisti su questa società. Noi non perdiamo la speranza nella nostra capacità di edificare delle società che possano svilupparsi. Allo stesso tempo però temiamo i cambiamenti che potrebbero mettere fine alla diversità o al pluralismo nella regione. La laicità potrebbe soccombere ben prima che la situazione si stabilizzi. E questo è spaventoso.