"Il Cristianesimo è la religione dell'uscita dalla religione"
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:27
Oasis n. 18 è disponibile in libreria e online.
Recensione di Marcel Gauchet, Le Désenchantement du monde, Gallimard, Paris 1985 e Un monde désenchanté?, L’Atelier, Paris 2004.
Quando nel 1985 è uscito Le Désenchantement du monde, in Europa è stato come se si fosse aperto un orizzonte. Si è subito trattenuto che il Cristianesimo è «la religione dell’uscita dalla religione». Accadeva quasi trent’anni fa. Il marxismo non era ancora screditato, ma un luogo comune era già logoro: quello per cui la secolarizzazione, la dinamica del Progresso liberatore e il senso della Storia condannano ogni religiosità all’emarginazione e quindi alla scomparsa.
«La religione dell’uscita dalla religione» era il titolo del primo capitolo della seconda parte del libro. L’autore, Marcel Gauchet, non aveva ancora quarant’anni e insegnava all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Era vicino a storici influenti come Pierre Nora e François Furet, e animava la rivista Le Débat per il prestigioso editore Gallimard. Il “disincanto del mondo” non era inedito: lo aveva già segnalato Max Weber. Ma, a differenza del grande sociologo tedesco dell’inizio del XX secolo (che aveva messo in luce il ruolo del Protestantesimo nell’avvento del capitalismo), Gauchet non vedeva la sua origine nell’avvento delle scienze che aboliscono ogni mistero. Sosteneva che il giudeo-cristianesimo non era solo la prima vittima del declino delle religioni, ma il suo principale ispiratore, se non il suo unico motore. La presa di coscienza di un Dio unico, universale e trascendente, proibisce infatti che egli diventi la norma organizzatrice della vita sociale e la garanzia di una gerarchia politica.
Cristo porta all’estremo tale intuizione, smarcandosi risolutamente dalla figura primitiva del “re-sacerdote”, mediatore tra cielo e terra, la quale di fatto è solo quella porzione su cui il re regna e non l’intera creazione. Gesù, inoltre, sovverte completamente questo modello, ordinando la logica dell’onnipotenza all’amore, morendo nelle sofferenze e alla fine tornando al “cielo”. Ha così introdotto l’“autonomia delle realtà terrene”. Gauchet non riprende questa formula da San Tommaso d’Aquino. Né menziona la distinzione, imposta dall’inizio del V secolo da Sant’Agostino, tra “la città di Dio” e la “città terrena”, ma fa riferimento, senza citarle, alle Scritture. Lavora da filosofo più che da storico, dedicandosi all’affinamento concettuale più che ai faticosi tentativi che conducono le società evangelizzate ad affrancarsi poco a poco dall’autorità della Chiesa. Non si sofferma su questo paradosso: quanti si accaniscono a imporre la distinzione di Cristo tra “Dio e Cesare” dichiarano superata la sua Rivelazione e considerano che, se il suo regno «non è di questo mondo», è perché il nostro mondo non ha un aldilà. È forse questa la ragione per cui il Disincanto del mondo è stato abbondantemente commentato e discusso soprattutto negli ambienti cristiani, mentre l’anticlericalismo militante è rimasto molto cauto al riguardo.
Marcel Gauchet, che si dichiara non credente, è diventato un “compagno di strada” (senza compiacimenti) dei cattolici. Ciò ha dato luogo a precisazioni e spiegazioni in La condition historique (Stock, 2003) e Un monde désenchanté? (L’Atelier, 2004), nei quali Gauchet insiste sul fatto che la “modernità” non presuppone affatto la scomparsa del religioso né dalla sfera privata né da quella pubblica e analizza, al di là dell’Europa, le convulsioni dell’Islam nell’era della globalizzazione:
«Gli integralisti che credono di servirsi del mangiacassette contro l’Occidente fanno passare l’Occidente a un livello più profondo. […] Di fronte alla sfida globale lanciata dall’appropriazione degli strumenti della modernità […], la reazione è più violenta […] laddove la modernizzazione a tappe forzate ha avuto gli effetti destrutturanti più categorici. […] La riaffermazione dell’identità religiosa […] è allo stesso tempo adattamento all’interno della modernità» (Un monde désenchanté?, pp. 146-147)