Il muro che separa ebrei e musulmani, così come la linea che passa tra “fedeli” e “infedeli”, è da sempre particolarmente generosa di spunti per il cinema, che anche in questa nuova stagione offre varie proposte. Da quelle più cariche di speranza e prospettiva, a quelle più utopiche fino al puro naufragio nella disperazione

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:28

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Ci sono le cose note che sappiamo, quelle ignote che non sappiamo e, infine, The Unknown Known, la gran massa di cose che crediamo di sapere e non sappiamo affatto. Le tre categorie, al cui interno rientrano pressoché tutti i fatti del mondo, sono suggerite dall’impeccabile retorica di Donald Rumsfeld, artefice della guerra in Iraq, in un bel documentario di Errol Morris passato alla Mostra di Venezia. E appaiono particolarmente azzeccate, fatta salva la buona dose di cinismo che si portano dietro, per affrontare un argomento sensibile della cronaca attuale.

Nella categoria delle cose note che sappiamo, infatti, c’è la secolarizzazione dell’Occidente, quella relativizzazione dei valori assoluti che hanno fatto la nostra civiltà e che oggi hanno perduto il loro carattere di universalità. Tra i fatti ignoti che non conosciamo, invece, rientra il destino delle società non occidentali, il percorso su cui sono avviate. Ci sono poi le tante cose che crediamo, sbagliando, di sapere: ad esempio che tutte le tradizioni, le culture, le religioni debbano seguire la nostra stessa strada. E che siano anche per loro inevitabili, o addirittura auspicabili, le conseguenze che oggi definiscono la vecchia, arida Europa: la perdita di identità, la scomparsa della memoria, l’assenza di legami e appartenenze.

Il cinema è ricco di esempi, al punto che i vezzi e le retoriche della società multiculturale hanno dato vita ad un nuovo genere. Prendiamo una commedia tra le tante, Infedele per caso (Infidel) di Josh Appignanesi. Mahmud, musulmano, vive a Londra. Pacifico e moderato, ha un figlio che sta per sposare la ragazza che ama, il cui patrigno è a capo di una corrente integralista. Proprio nei giorni in cui deve dimostrare di essere un buon credente, scopre per caso da un certificato di essere nato ebreo, poi adottato da una famiglia musulmana. Per rivedere il padre naturale, dovrà identificarsi, complice un tassista ebreo alcoolizzato, con una cultura che non gli appartiene. Ovviamente l’impresa riesce poco e male, con gran divertimento dello spettatore che assiste a una metamorfosi dove lo stereotipo è il trionfo del politicamente scorretto. La rivincita è un dibattito televisivo in cui il suo caso viene definito esemplare: «Io credo che quell’uomo sia il multiculturalismo in persona» afferma l’esperta di turno. «È un eroe dei nostri tempi, uno che ci indica qual è la strada che dobbiamo seguire per andare avanti».

 

Esiti di uno scambio

Mentre a Londra si ride di gusto, altrove la questione appare molto seria: se le diverse tradizioni, l’educazione e l’appartenenza sono intercambiabili, se basta una circostanza esterna per suggerire che l’esperienza religiosa ha poco o niente a che vedere con l’umanità, se le radici della convivenza sono sempre altrove, in che cosa consiste l’identità della persona? Il cinema di questi giorni ci offre un viaggio interessante sul crinale di un’identità che si va dissolvendo, tra tentazioni secolariste e derive ideologiche. Si parte dall’annoso conflitto che segna le strade di Israele e della Cisgiordania, dove incontriamo una strana coppia di fratelli separati dalla storia. «Sono il mio peggior nemico e devo volermi bene lo stesso» dice uno di loro, il ventenne Joseph Silberg. È un ragazzo israeliano che, nel film Il figlio dell’altra (Le Fils de l'Autre) della regista francese di origine ebraica Lorraine Lévy, si prepara al servizio di leva obbligatoria. Durante la visita medica, scopre che il suo gruppo sanguigno non è compatibile con quello dei genitori. Basta qualche giorno di prevedibile caos familiare per capire che il ragazzo, partorito ad Haifa durante i giorni della prima guerra del Golfo, è stato scambiato nella culla con Yacine Al Bezaaz, palestinese dei territori occupati.

«Sai cos’ho pensato quando ho saputo che la mia vita doveva essere la tua? Non la sprecare, Joseph»

Il tono dei dialoghi fa capire che la risposta che questo melodramma offre ai paradossi storici non esce dai confini del politicamente corretto: non saranno muri e frontiere a impedire un rapporto nuovo tra i due ragazzi e le famiglie ostili. La secolarizzazione appare scontata, anzi, può garantire un nuovo modello di pacifica convivenza. La domanda di fondo resta però intatta: quali sono i fattori che definiscono l’identità di un uomo? L’appartenenza di sangue, la religione, la cultura?

Restiamo in Cisgiordania con un piccolo film, Bethlehem, premiato a Venezia alle Giornate degli Autori, opera prima dello scrittore israeliano Yuval Adler che, insieme allo sceneggiatore palestinese Ali Waked, introduce un tema interessante, quello del doppio. Il dramma del traditore o della spia, per amore o per forza, di chi sceglie che cosa essere e da che parte stare, in nome di valori più grandi della tradizione in cui è nato, si presta bene al racconto di un conflitto impossibile da giudicare. Protagonista di Bethlehem è l’amicizia tra Sanfur, giovanissimo informatore palestinese e Razi, l’agente israeliano che lo ha reclutato. Il ragazzino ha accettato di fare la spia per salvare il padre dalla galera e adesso cerca di proteggere il fratello, terrorista nel nome di Dio. Da parte sua, Razi, che gli è sinceramente affezionato, lo tiene fuori dai guai finché può. Ma gli eventi incalzano e i sentimenti verranno spazzati via tra il fumo dei kalashnikov e la polvere della terra di nessuno.

 

Dall’utopia alla desolazione

Chi siamo, cosa diventiamo quando i confini del mondo che conosciamo mutano, quando le coordinate affettive si spezzano, quando la realtà si fa paurosa e cadono le convenzioni, gli schemi, i legami? Quando le parole, tradite dalle cose, cambiano di segno e di senso? Siamo quello che decidiamo di essere, risponde da Israele Amos Gitai, da sempre innamorato dell’idea che il cinema possa contribuire a trasferire l’utopia nella realtà quotidiana. Con Ana Arabia, che a Venezia ha ottenuto il premio Bresson della fondazione Ente dello Spettacolo, prende spunto dalla storia vera di una donna nata ebrea ad Auschwitz, poi sposata a un arabo e convertita all’Islam, per raccontare una sorta di oasi della pace che resiste in un quartiere popolare di Giaffa. Per descrivere la convivenza tra ebrei e palestinesi, propone un piano sequenza lungo 85 minuti dove la vita è recitata senza interruzione, in tempo reale, nella luce del tramonto, che annulla le differenze e smorza i contrasti. Il progetto mostra la corda dal punto di vista narrativo, con dialoghi didascalici e situazioni costruite a tavolino: di interessante c’è la scommessa sulla possibilità di un mondo a parte, tra orti e galline, di un’umanità nuova oltre l’intolleranza e i fondamentalismi. Basta volerlo, dice Gitai. E pazienza se il prezzo della pace è la relativizzazione di appartenenze e fedi, se la realtà finisce per sfumare in un sogno a occhi aperti.

Molto più feroce, più vicino alla cronaca, il film algerino di Merzak Allouache, Es-stouh (Les Terrasses). Nel dibattito sulle radici dell’identità, si colloca sul fronte opposto a quello in cui vive Gitai ma paradossalmente arriva alle stesse conclusioni, raccontando che la devozione religiosa non migliora l’uomo, ma si identifica con una pubblica ideologia utile a coprire i vizi privati. Storie diverse sono ospitate nell’arco di una giornata su cinque terrazze di Algeri, storie di povertà e di dolore, scandite cinque volte al giorno dalle preghiere dei muezzin. Un’umanità desolata, fatta di donne che uccidono per non essere sfrattate, capi religiosi che abusano di ragazze innocenti, fondamentalisti islamici che spacciano droga, reduci di guerra rinchiusi in gabbia, omosessuali che si suicidano. Un mondo senza pietà, un inferno illuminato dalla luce azzurrina del mare che, scavalcando i cimiteri ebraico e cristiano, si riverbera sulla città.

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