Promesse e incognite di una stagione di ribellione/4. Si deve aggiornare l’antropologia piuttosto elementare che da qualche decennio si è appropriata degli studi sul Medio Oriente. La “strada araba” rivela una natura diversa, giovane, moderna, mentre gli elementi del fondamentalismo rimangono una componente minoritaria.
Ultimo aggiornamento: 30/07/2024 10:53:32
L’esplosione delle rivolte popolari arabe ha sorpreso tutto il pianeta. L’opinione pubblica mondiale si era abituata all’idea di un mondo arabo paralizzato in un immobilismo derivante dalle strutture autoritarie della famiglia e dei poteri politici. Il Medio Oriente in generale è stato finora percepito in modo molto negativo, nella migliore delle ipotesi come una riserva energetica a buon mercato cui garantire, se necessario a prezzo di interventi militari massicci da parte dell’Occidente, la stabilità politica. Nell’ipotesi peggiore esso era visto come una terra di fanatismo religioso plasmato dall’Islam, ultimo nato ed enfant terrible dei tre monoteismi. Tale percezione è stata costruita sulla base di un’antropologia piuttosto elementare, appropriatasi da qualche decennio degli studi sul mondo arabo, sul Medio Oriente e sull’Islam, e di cui Bernard Lewis e Samuel Huntington sono stati i maggiori propagatori. Il successo delle loro opere risiede nel fatto di aver ripreso in modo incosciente le vecchie tesi sulla superiorità dello spirito ariano sullo spirito semita, descritto come pesante, incapace di progresso, feroce e totalitario. Questa tesi era molto cara a Ernest Renan, il quale l’ha volgarizzata e ha affermato che, in quanto incarnazione dello spirito semita, l’Islam andava distrutto affinché la civiltà europea potesse finalmente vivere in pace. La griglia di lettura conteneva dunque un pregiudizio iniziale. Quella che, con disprezzo, i media occidentali hanno finora chiamato “la strada araba” rivela oggi una natura diversa, giovane, ardente, moderna, mentre un elemento come i Fratelli musulmani sono solo una componente piuttosto minoritaria ed esitante del movimento di rivolta. Ma quanti misfatti sono stati compiuti sia dai poteri locali in carica, presentatisi come il solo baluardo contro l’islamismo, sia dall’Amministrazione americana, in nome della paura dell’Islam! In questo senso non è senza significato notare che la scintilla che ha fatto scoppiare le rivoluzioni è scaturita dall’immolazione di un giovane tunisino socialmente disperato, di origine rurale ed estraneo alla capitale o alle grandi città. Esempio che si è diffuso a macchia d’olio in Tunisia e fuori dalla Tunisia, ciò che la dice lunga sullo stato di disperazione che colpisce la gioventù araba, la quale sogna spesso di emigrare, foss’anche nelle peggiori condizioni, piuttosto che continuare a sentirsi costantemente umiliata nel proprio Paese. Solo successivamente le classi medie della capitale tunisina e delle grandi città si sono mobilitate per amplificare il movimento di protesta e conferirgli una dimensione nazionale, superando tutte le fratture sociali. Alla rivendicazione di dignità e di equità sociale si è allora aggiunta quella della libertà politica e di una necessaria alternanza democratica della classe dirigente che si è auto perpetuata in modo autoritario per decenni. Anche i tunisini e gli egiziani residenti all’estero si sono mobilitati con forza per sostenere queste rivolte interne. È probabile che una delle fonti d’ispirazione di queste rivolte siano state le immense manifestazioni, nel 2005, della popolazione libanese che chiedeva il ritiro delle truppe siriane dal Libano, così come il coraggio dei resistenti libanesi che hanno ottenuto l’evacuazione senza condizioni d’Israele dal sud del Libano nel 2000, dopo 22 anni di occupazione, e sono poi riusciti a opporsi al suo esercito durante l’efferato attacco del 2006. Allo stesso modo, il coraggio degli abitanti di Gaza, sottoposti a un embargo economico dal 2006 e a una guerra devastante inutilmente intrapresa dall’esercito israeliano nel dicembre 2008, ha verosimilmente ispirato i movimenti popolari di protesta nei diversi paesi arabi. Se era stato possibile resistere alla potente macchina da guerra israeliana, diventa ora possibile organizzare una resistenza popolare, comprendente tutti gli strati sociali e tutti i settori della popolazione, nei confronti di dirigenti locali corrotti e dittatoriali che si autoperpetuavano o intronizzavano i propri figli. A questo proposito è importante notare la centralità dei discorsi sulla dignità del cittadino e il rispetto che lo Stato gli deve. Anche qui si può pensare che l’attivismo dei giovani e il tono semplice e diretto degli slogan, alieno a qualsiasi ideologia politica o teologico-politica, si sia riconnesso alla memoria delle rivolte arabe precedenti, poste anch’esse sotto il segno dei “diritti” arabi all’indipendenza, alla lotta contro il colonialismo e l’occupazione o contro le colonie israeliane di popolamento. Dalla rivolta contro l’Impero ottomano a quella contro i colonialismi inglese e francese, e oggi a quella contro dittature locali logore e screditate, il filo della storia contemporanea degli arabi è stato riannodato. Il lungo periodo di decadenza e stagnazione del mondo arabo, iniziato con la disfatta del 1967 nei confronti di Israele, può essere considerato concluso. Ma rimane molta strada da fare prima che il mondo arabo ritrovi la sua coerenza e la sua solidarietà, anche se la coscienza di situazioni di oppressione analoghe dalla Tunisia, all’Egitto, alla Libia, e allo Yemen, alla Giordania e al Bahrain, ristabilisce anche il sentimento di un’appartenenza comune al mondo arabo. Pericoli in Agguato Numerosi pericoli incombono su questi grandi movimenti popolari, inediti nella storia delle rivoluzioni. Ciò che finora ha costituito il loro successo può diventare una debolezza. Esistono infatti pochi partiti di massa ben organizzati, come in Europa o negli Stati Uniti, e questo è normale, tanto più che occorrono oggi ingenti mezzi materiali per formarne uno e trovare ascolto tra i media. In Egitto, i giovani non sembrano prossimi a lasciare il campo ai diversi partiti d’opposizione, spesso rivali. In Tunisia non manca il ricambio, tanto grandi sono i talenti e le competenze, molti dei quali sono rimasti in loco invece di emigrare. Di fatto c’è così tanto da fare nei Paesi arabi per uscire dall’economia predatrice e fondata sulla rendita che, se permarrà un clima di libertà politica e saranno organizzate elezioni libere, finiranno necessariamente per costituirsi correnti politiche catalizzatrici. Tuttavia, se si rimarrà fermi alla sola rivendicazione di libertà politica, senza sviluppare la visione di un futuro socio-economico diverso per realizzare la giustizia e l’equità, si rischierà che in alcuni Paesi il potere del denaro e la spirale regionalista e clanica requisiscano il movimento e che la liberalizzazione politica non dia i frutti sperati. Non dimentichiamo il motivo per cui Bouazizi si è immolato dandosi fuoco – e decine di altre persone ne hanno seguito le orme – come gesto forte di protesta contro una condizione marginale e soggetta a tutte le vessazioni di un potere poliziesco. Nel caso della Tunisia, come ho già detto, non bisogna dimenticare che la scintilla liberatrice non è scaturita dalla costa o dalla capitale, ma dall’interno rurale. Gli abitanti delle campagne sono infatti i più socialmente svantaggiati nel mondo arabo, con un reddito annuale stimato in 300 dollari, e sono esposti a fattori climatici imprevedibili. In seguito, il movimento si è esteso alle classi medie urbane. È così venuta alla luce la rivendicazione della libertà politica, così come la denuncia della corruzione del potere e di quanti stavano nella sua orbita, che colpiva il settore privato e le istituzioni a carattere bancario o industriale del settore pubblico. Tutto lo spettro sociale tunisino è sceso in piazza a manifestare. Lo stesso è accaduto in Egitto. I giovani in particolare si sono liberati dalla paura per le ragioni che ho appena spiegato. Le connessioni internet hanno spezzato l’isolamento degli uni e degli altri e stabilito la forte solidarietà che abbiamo visto realizzarsi tra la gioventù che manifestava e le comunità dell’emigrazione. Ecco perché si può pensare che nella storia degli arabi del XXI secolo ci sarà un prima e un dopo 17 dicembre 2010, giorno in cui il povero Bouazizi si è immolato a Sidi Bouzid. L’effetto di questo terremoto si è fatto sentire ovunque nel mondo arabo, spingendo i politici ad assumere l’iniziativa di cambi di governo e riforme. La richiesta è ovunque la stessa: nelle repubbliche, l’abbandono da parte dei capi di Stato che, autoritari e corrotti, si autoperpetuano da decenni; oppure la trasformazione dei regni e degli emirati in monarchie costituzionali che pongano fine all’arbitrio. Certo, la cosa importante è evitare il recupero più o meno violento delle ondate di protesta popolare. Nuove strutture politiche in apparenza più democratiche potrebbero servire a perpetuare le onnipotenti oligarchie economiche, alleate ai poteri europei e americani e alle imprese multinazionali. Le grandi potenze che da almeno 200 anni pesano in maniera decisiva sul destino del mondo arabo sono state colte tutte di sorpresa, che si tratti dei vecchi dominatori coloniali europei o dell’America imperiale dominatrice del Mediterraneo dalla fine della seconda guerra mondiale. Esse hanno predicato la democrazia più o meno rumorosamente e hanno voluto fare dell’Iraq invaso e occupato una vetrina democratica per il mondo arabo. Oggi si percepisce in questa potenze un’ondata di panico davanti a rivolte popolari che progressivamente si trasformano in rivoluzioni, visto che la loro attenzione ai diritti dell’uomo e della donna si ferma alle frontiere dei regimi amici, cosiddetti “moderati”, che oggi vacillano e saranno ineluttabilmente sostituiti, non solo nei Paesi in cui la rivolta è già in moto, ma forse anche negli altri. Dragoni Arabi? La prima preoccupazione degli Stati Uniti e dei membri dell’Unione europea sarà la sicurezza di Israele, vale a dire, in termini più chiari, la continuazione dello spossessamento dei palestinesi, da cui i timori per quanto riguarda l’Egitto. Tutta l’attenzione degli Stati Uniti sarà infatti polarizzata su questo Paese, dove le nuove forze sociali che hanno avuto accesso al potere non potranno continuare a essere vicine allo Stato di Israele quanto lo è stato il regime egiziano dopo gli accordi di Camp David (1978-1979), al punto da partecipare al soffocamento economico della striscia di Gaza e di non muovere un dito quando Israele ha martirizzato il Libano, come è avvenuto tra il 1978 e il 2000, e di nuovo nel 2006. Per essere legittimo, il nuovo regime egiziano dovrà adoperarsi per ritrovare il posto che nel mondo arabo è sempre spettato all’Egitto, sia al tempo della monarchia che a quello di Gamal Abd al-Nasser. È qui che si giocherà una partita molto delicata per le forze del cambiamento in Egitto, ma anche in tutto il mondo arabo. La seconda preoccupazione degli Stati Uniti e dell’Unione europea sarà economica, in particolare per le imprese multinazionali europee: come continuare a fare buoni affari se la vita economica dei Paesi arabi verrà riformata in profondità e se, dopo i “dragoni” asiatici, si dovessero affrontare dei “dragoni” arabi? Se nei Paesi dove è in corso una rivoluzione il potere smetterà di essere cleptocratico e di fabbricare miliardari al suo servizio, come è accaduto finora, “gli affari” saranno più difficili sulla sponda sud del Mediterraneo. Bisogna considerare che nonostante l’intensità delle relazioni economiche, finanziarie e umane tra le due sponde, le economie del sud sono rimaste largamente letargiche e incapaci di innovare. Che contrasto con ciò che è stato compiuto nel sud-est asiatico, dove il modello di sviluppo giapponese ha fatto scuola (si pensi alla Corea del Sud, a Taiwan, a Singapore, alla Malesia e anche alla Cina) e dove il Giappone ha favorito una complementarietà economica forte con i suoi vicini. Si può temere che i dirigenti politici europei, chiusi in un rigido neoliberismo, non colgano l’occasione dei cambiamenti nel mondo arabo per rivedere la politica di aiuti condotta a partire dalla messa in atto del processo di Barcellona nel 1995 da cui è nata la zona di libero scambio euro-mediterranea. Questi aiuti hanno avuto di mira soprattutto un adeguamento neo-liberista delle istituzioni economiche e finanziarie della sponda sud e l’accelerazione del movimento di privatizzazione. È all’ombra di questi programmi detti di “aggiustamento strutturale” che si sono sviluppati la corruzione e le fortune delle persone vicine al potere o dei suoi stessi detentori. Bisogna sperare che si intensifichino le lotte popolari sulla sponda nord del Mediterraneo contro il neoliberismo diffuso che, ovunque, ha fatto sopportare ai salariati e agli strati disagiati della popolazione il peso delle crisi finanziarie e delle delocalizzazioni industriali. Se si estenderà il movimento di contestazione cui assistiamo in Grecia, in Portogallo, in Francia, in Spagna e in Irlanda contro i programmi di austerità resi necessari dalle spese pubbliche straordinarie che hanno fatto seguito ai salvataggi dei sistemi bancari e alla protezione dell’attività economica, i movimenti della sponda sud potranno essere meglio sostenuti. Le relazioni tra le due sponde del Mediterraneo ne risulteranno certamente risanate ed equilibrate a beneficio dei gruppi sociali disagiati europei e arabi. Esse potranno così liberare energie produttive non ancora sfruttate e fare in modo che la pressione migratoria sull’Europa si riduca fino a creare opportunità di lavoro per tutti sulla sponda sud, grazie a nuove politiche economiche in grado di porre fine a una rovinosa economia di speculazione finanziaria che aggrava sulle due sponde del Mediterraneo le ingiustizie sociali e la disoccupazione.