Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:42:27
Le recenti dichiarazioni di Angela Merkel sul fallimento del multiculturalismo hanno riacceso i toni del dibattito intorno alla gestione dell’immigrazione nei paesi europei. In realtà il dibattito non si era mai sopito, ma era rimasto confinato ai circuiti degli addetti ai lavori. Le parole del Cancelliere tedesco hanno dunque il merito di riportare la questione nel posto che le spetta, la pubblica piazza, se non altro perché, come ha evidenziato Angelo Panebianco in un articolo pubblicato sul «Corriere della Sera», «la questione degli immigrati è ora un problema politico di prima grandezza […]. È la nuova grande questione che divide, e dividerà a lungo, le democrazie europee e che va ad aggiungersi alle più tradizionali divisioni sui temi economici». Ma in che cosa ha fallito il multiculturalismo, al di là delle specificità dei paesi che hanno voluto applicarlo e dell’inefficacia delle singole politiche messe in atto? Ha tentato di rispondere a questa domanda una ricerca condotta due anni fa da Paolo Gomarasca, promossa dalla Fondazione Internazionale Oasis, e culminata nella pubblicazione del volume Meticciato: convivenza o confusione? (Marcianum Press, Venezia 2009). L’autore rilevava che il problema sta nel fatto che «il multiculturalismo promette “riconoscimento reciproco”, ma contemporaneamente rinuncia a una “comprensione sociale condivisa”». Il suo limite intrinseco è, come già messo in luce da Donati, «la mancanza di relazionalità tra le culture che esso istituzionalizza». Per superare questa aporia, il libro si interrogava su «un progetto politico diverso, almeno in quanto realmente disponibile a generare solidarietà tra estranei» mettendo alla prova la categoria, descrittiva e non prescrittiva, del meticciato, inteso come «processo reale di mescolanza tra persone e culture». Da allora la posta in gioco non è cambiata: non si tratta di impedire che popoli e culture si incontrino e si mescolino, ma capire come orientare questo loro incontro verso la vita buona. Per questo Oasis ripropone in occasione di questo dibattito internazionale un estratto del libro di Paolo Gomarasca, una pista di lavoro che i fatti confermano più che mai attuale e adeguata alle questioni sollevate.
Michele Brignone
«Quale spettacolo! Una società divisa all’infinito nelle razze più svariate, le quali si contrastano con piccole antipatie, cattiva coscienza e brutale mediocrità, e che appunto a causa della reciproca posizione ambigua e sospetta vengono trattate tutte senza distinzione, se pur con differenti formalità, dai loro
signori come
esistenze consentite. E lo stesso fatto di essere
dominate, governate, possedute, esse devono riconoscerlo e professarlo come una
concessione dal cielo!» .
Scritto nel 1843, questo giudizio di Marx sembra prefigurare lucidamente l’ambiguità delle odierne politiche multiculturali: da una parte, domina quello che Badiou definisce il «catechismo contemporaneo della buona volontà rispetto alle “altre culture”» ; ma, dall’altra, esistono pratiche di assimilazione del “diverso” tutt’altro che benevole. Come può essere? Secondo Chambers, il punto è che il multiculturalismo «rappresenta la risposta liberale che riconosce le culture e le identità altrui per mantenersene al centro, e lasciando queste altre culture in posizione di subalternità, così evitando qualsiasi interrogazione del proprio progetto politico» . Ecco perché la politica multiculturale si prefigge, in teoria, la coesistenza pacifica delle differenze all’interno della società democratica; ma, a conti fatti, è in grado di realizzare - per usare i termini marxiani - solo una società di “esistenze consentite”, cioè tollerate entro limiti ben definiti . E non si può nemmeno dire che il progetto
liberal sia riuscito ad includere tutti: «per la sorpresa dei benintenzionati - nota criticamente Luhmann - dobbiamo affermare che di esclusioni invece ce ne sono, sono anzi massicce e implicano una forma di indigenza che sfugge a ogni possibile descrizione».
Che fare? Il dibattito sul multiculturalismo è giunto senz’altro ad un bivio: vi è chi ritiene possibile riformularlo, continuando però nella stessa direzione teorica. Ma vi è anche, e sono in molti, chi ritiene giunto il momento di percorrere altre strade. Solo che spesso queste alternative sono ancora meno convincenti del progetto che vorrebbero emendare. A sentire Luhmann, bisognerebbe andare oltre la barbarie della “monocultura della ragione”, cioè smettere di attribuire «all’unità della ragione una priorità incondizionata sulla molteplicità e individualità delle apparenze esteriori» . Ma, anche ammesso che «i barbari sono abbonati alla ragione» , è sufficiente rinunciare a un principio unificante per garantire libertà e rispetto per tutti? Certo, promuovendo le culture “a tutti i costi” si contrasta ogni tendenza repressiva e totalitaria da parte della cultura dominante. Ma questa versione “differenzialista” di multiculturalismo non sembra avere un esito migliore della versione “assimilazionista”: forse è vero che, per esistere, non bisognerà avere il consenso di chi detiene il potere (i “signori”, come li chiama Marx), ma l’impressione è che la società resti comunque “divisa all’infinito”. «Nelle moderne società multietniche - spiega infatti Turnaturi - si produce un solidarismo rivolto soltanto verso il proprio gruppo, e indifferenza, o tutt’al più tolleranza, verso gli altri, escludendo di fatto ogni comunicazione ed ogni scambio fra le diverse appartenenze».
Lo si intuisce analizzando, per esempio, la posizione “antikantiana” di Iris Young: «Il cittadino universale - scrive la femminista americana - è […] bianco e borghese» . Ciò significa che «la ragione normativa moderna, e la sua espressione politica nell’idea di un pubblico di cittadini, consegue unità e coerenza attraverso l’espulsione e la reclusione di tutto ciò che minaccerebbe di invadere l’ordinamento politico (
polity) con la forza dirompente della differenziazione» . Il presupposto della Young è così svelato: «le relazioni sociali sono rigidamente definite dal dominio e dall’oppressione» ; ne segue che la politica non è lo scenario di un’intesa possibile, bensì il luogo di una resistenza al potere inglobante della razionalità moderna. A quel punto, invece di inseguire la chimera di «un mitico “bene comune”» , ognuno farebbe meglio a preoccuparsi di affermare il valore esclusivo del proprio gruppo d’interesse . Solo così, sempre secondo la Young, si può garantire a tutti l’emancipazione: «quando le femministe affermano la validità della sensibilità femminile […], quando i gay definiscono il pregiudizio degli eterosessuali come omofobico e la propria sessualità come positiva e fattore di autorealizzazione, quando i neri rivendicano una tradizione afroamericana distinta, allora la cultura dominante è obbligata a guardarsi e a scoprirsi a sua volta specifica: anglosassone, europea, cristiana, maschile, benpensante. Quando lo scontro è trasferito sul piano politico […] diventa sempre più difficile per i gruppi dominanti far passare le proprie norme per neutre e universali, e concettualizzare i valori e il comportamento degli oppressi come deviante, pervertito o inferiore» .
Ora, la Young ha senza dubbio ragione nel ritenere che il fatto della pluralità (etnica, culturale, ideologica…) spiazza l’idea che esista una sola cultura, unificante e quindi tendenzialmente omogenea. Il dubbio, casomai, riguarda la possibilità di definire i termini della convivenza a partire da una mera esibizione fieristica delle differenze. Oltre tutto, non è detto che il semplice sfoggio polemico della propria diversità garantisca - di per sé - la sovversione di consolidate strutture di dominio culturale. Il che naturalmente non significa che tali rapporti di forze, per quanto sclerotizzati, non siano modificabili o che, addirittura, il destino dei “diversi” sia già deciso tra
inclusione omologante, da una parte, e
espulsione, dall’altra. Come scrive opportunamente Alexander, uno dei teorici più acuti della società civile, «ciò che conta non è la semplice comunicazione di autoidentità positive, e tanto meno una pura attività di deliberazione sulla differenza. È la costruzione del contesto sociale all’interno del quale vengono avanzate le rivendicazioni di riconoscimento a determinare piuttosto se la comprensione in negativo delle differenze sociali (la “stereotipizzazione”, per usare un termine più antiquato) possa essere migliorata o addirittura rovesciata. […] L’esistenza fattuale dell’eterogeneità o della pluralità non produrrà mai il tipo di riconoscimento reciproco che essa cerca. Solo se c’è una comprensione sociale condivisa, e articolata nei rapporti complessi e interconnessi della vita civile, si può valorizzare la rappresentazione della eterogeneità in modo positivo e negativo».
Il problema, dunque, è tutto qui: il multiculturalismo promette “riconoscimento reciproco”, ma contemporaneamente rinuncia ad una “comprensione sociale condivisa”. Che è come dire che non è in grado di mantenere ciò che promette. Donati mette bene in evidenza questa autocontraddizione: «il limite intrinseco del multiculturalismo […] è la mancanza di relazionalità fra le culture che esso istituzionalizza» . Questo deficit è visibile sotto ogni punto di vista: epistemologico, morale e politico. «In primo luogo - spiega infatti Donati -, il multiculturalismo non implica alcun
apprendimento reciproco fra le culture, perché la rivendicazione di un pluralismo culturale più o meno inconciliabile legittima il puro e semplice
ex-sistere del “fatto sociale” della differenza: in breve, rinuncia allo scambio. In secondo luogo, il multiculturalismo, laddove riduce la sfera pubblico-politica a neutralità, sia conoscitiva sia morale, verso le differenze (ciò che è proprio dell’ideologia liberale della laicità, pur se con differenze fra le diverse versioni del liberalismo), non promuove alcuna composizione fra le diverse istanze che possa portare alla costruzione di un qualche bene comune: in breve, rinuncia a perseguire un bene prodotto e fruito insieme, in cui tutti i soggetti multiculturali siano coinvolti» . Ragion per cui quel progetto di società civile auspicato da Alexander è destinato a fallire.
Ora, questo lavoro può essere definito come un tentativo di superare le aporie delle politiche multiculturali, senza però rinunciare alla possibilità di costruire una “comprensione sociale condivisa”, seppur provvisoria e rivedibile . L’obiettivo, dunque, è provare ad interrogarsi su un progetto politico diverso, almeno perché realmente disponibile a generare solidarietà
tra estranei . Certo, i rapporti tra le culture sono sempre determinati, almeno in parte, da dinamiche di potere. Dunque è inevitabile mettere in conto fenomeni di oppressione. Eppure, c’è un fenomeno innegabile che mette in discussione tanto la pretesa di ridurre le culture a “province” subalterne di una monocultura dominante, tanto l’idea (per lo più reattiva) che le culture siano solo dei punti isolati ed eterogenei di resistenza al potere. Si tratta del meticciato, inteso - in via del tutto preliminare - come processo reale di mescolanza tra persone e culture. La posta in gioco allora potrebbe essere questa: capire se il meticciato soddisfa il requisito della
relazionalità che invece fa difetto all’ideologia multiculturalista.
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Paolo Gomarasca, Meticciato: convivenza o confusione?, Marcianum Press, Venezia 2009 è vincitore della sezione Culture del Feudo Maida 2010
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