Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:43:27
L’esito del referendum svizzero del 29 novembre scorso ha scatenato un terremoto e non soltanto in Svizzera.
Mentre alcuni esultavano per l’inaspettato “sì” del 57% dei votanti favorevoli alla proibizione della costruzione di nuovi minareti, altri rimanevano esterrefatti.
Come è possibile che una società abituata ad essere caratterizzata dalla presenza al suo interno di molte religioni, etnie, tradizioni e lingue, reagisca così? Come mai un Paese che, nonostante una certa tendenza alla chiusura in se stesso, è riuscito ad aprirsi e a praticare la tolleranza nei confronti dell’esterno, arriva a introdurre nella sua Costituzione un articolo che non solo si configura contrario alla libertà religiosa, ma rischia anche di accendere un pericoloso conflitto interno?
Non è facile dare una risposta esauriente a questi interrogativi, ci vorrà del tempo. Ma prima di tutto è importante rilevare che il tema referendario non ha riguardato la costruzione di moschee in Svizzera (ne esistono già più di 160), ma di minareti, ritenuti simbolo del potere islamico e avversati in quanto tali dai sostenitori del referendum.
Tutti coloro che temono che la Svizzera perda la propria identità nel contesto attuale di grande migrazione e globalizzazione si sono trovati uniti attorno a questo no ai minareti, sventolando la bandiera della difesa del volto cristiano del Paese. Una battaglia paradossale, perché sia il governo che tutte le comunità cristiane si erano espresse per il no a tale divieto.
All’esito referendario hanno contribuito diversi fattori: la convinzione diffusa tra gli svizzeri che il minareto sia espressione della religione che alimenta il terrorismo; la sensazione di umiliazione ricevuta da parte di dittature musulmane come quella della Libia di Gheddafi, che ancora tiene in ostaggio due cittadini svizzeri; la diffusa sensazione di insicurezza alla quale il governo non risponderebbe adeguatamente; la disoccupazione crescente e la crisi economica che fanno guardare all’immigrato (in Svizzera il 23 % della popolazione non ha passaporto svizzero) come a una persona che ruba il posto di lavoro ai locali; un certo laicismo che vorrebbe bandire tutti i simboli religiosi dallo spazio pubblico. Penso che non pochi Paesi segnati da tali contesti sociali registrerebbero lo stesso risultato per un simile referendum.
È arduo tentare di prevedere quali ricadute l’esito referendario avrà su altri paesi in Europa e sulle relazioni con i paesi arabi. A mio avviso tutto dipenderà da se e come la votazione sarà strumentalizzata per alimentare una sorta di guerra culturale e religiosa. Non mancano, infatti, sia in Europa che nei paesi musulmani movimenti pronti a manipolare temi tanto esplosivi. Se verrà meno la capacità di governare queste tensioni e tendenze, si potrà arrivare a un drammatico ricorso alla violenza, con pesanti conseguenze non soltanto per la Svizzera.
L’esito del referendum in Svizzera lascia emergere un dato: la coesione di una società in rapido e profondo cambiamento e di un Paese, abituato da secoli a difendere la sua identità e indipendenza, non è mai un traguardo raggiunto una volta per tutte, ma un processo doloroso e dinamico. Non basta risolvere il problema accusando di razzismo chi ha votato a favore, ma in Svizzera come altrove è necessario lavorare per trovare risposte valide alle paure e al disorientamento in una certa misura comprensibili.
Anche se a mio avviso l’esito del referendum è un passo indietro, non escludo che ci possa essere un risvolto positivo in tutto ciò: esso dovrebbe condurre a una riflessione condivisa più approfondita su cosa comporti l’attuale fenomeno del “meticciato di civiltà” in atto nel mondo. Si tratta di un lavoro che attende tutti: da un lato, chi nelle società europee rischia di enfatizzare il carattere cristiano solo quando serve a difendersi contro “gli altri” dovrà lasciarsi interrogare dalla globalizzazione e dalle sue conseguenze relazionali. A questo riguardo la Chiesa cattolica potrebbe testimoniare una via importante in quanto da sempre vive la pluriformità nell’unità; dall’altro chi sostiene che le religioni sono esclusivamente un fatto privato, dovrà imparare a fare i conti con popoli che chiedono di vivere la fede pubblicamente.
Il referendum svizzero del 29 novembre 2009 diventa una provocazione per tutti: non basta il benessere materiale a far tacere il dramma della trasformazione antropologica, sociale e culturale che colpisce oggi le nostre società. Occorre avere il coraggio di andare a fondo e trarne una lezione per il futuro.