Dopo cinque anni di crisi diplomatica, Francesco incontra in Vaticano Ahmad al-Tayyeb, gran shaykh della moschea di al-Azhar. I passi falsi del “rinnovamento del discorso religioso”, l’eredità di un protagonista del dialogo
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:08:30
A più di cinque anni dalla rottura delle relazioni tra la moschea egiziana di al-Azhar e la Santa Sede, decisa unilateralmente da al-Azhar dopo un intervento di Benedetto XVI che chiedeva ai governi dei Paesi mediorientali di garantire la sicurezza dei loro cittadini cristiani, Papa Francesco e il gran shaykh della moschea Ahmad al-Tayyeb si incontrano oggi in Vaticano. Oltre gli aspetti diplomatici, l’appuntamento assume un’importanza particolare di fronte al rischio, in molte parti del mondo, di un deterioramento dei rapporti interreligiosi a causa dalle brutalità commesse dal jihadismo islamista. Lo stesso imam al-Tayyeb, considerato in Occidente figura controversa per alcune sue prese di posizione, in particolare contro Israele, ha affermato in un discorso pronunciato un paio di mesi fa al Parlamento federale tedesco che «davanti al terrorismo, non c’è alternativa, né per l’Oriente né per l’Occidente, a una reale apertura reciproca fra le religioni e tra i credenti». Ha inoltre citato, facendola sua, la formula del teologo tedesco Hans Küng: "Non ci sarà pace tra i popoli finché non ci sarà pace tra le religioni".
Il ruolo di al-Azhar
Nonostante quanto spesso si scrive e si dice in Occidente, la moschea di al-Azhar non è “il Vaticano” dell’Islam, benché essa tenda talvolta ad autorappresentarsi come il “faro” del sunnismo. In un’intervista concessa nel gennaio del 2015 a un quotidiano egiziano, proprio il grande imam ammetteva con più modestia che "l’opinione di al-Azhar non è vincolante. (…) Non esercitiamo alcuna tutela né siamo un’autorità religiosa". Tra l’altro la moschea si trova in questo momento al centro di un fuoco incrociato, contestata da un lato dai musulmani modernisti che l’accusano di perpetuare un sapere anacronistico e dall’altro da movimenti islamisti che ne criticano la subalternità al potere politico del Cairo. Ciò non toglie che al-Azhar rimanga probabilmente il più prestigioso centro di insegnamento islamico del mondo, dove si formano ogni anno migliaia di imam destinati a predicare in moschee di ogni latitudine. Da quando l’ascesa dell’Isis ha risollevato la questione del nesso tra tradizione islamica e violenza, al-Azhar ha inoltre moltiplicato i propri sforzi per confutare le letture intransigenti dell’Islam. In particolare la moschea si è impegnata in un percorso di “rinnovamento del discorso religioso”, soprattutto dopo che il presidente Abdel Fattah al-Sisi l’ha sollecitata in questo senso nel quadro della sua lotta contro i Fratelli musulmani.
Competizione fra culture?
n realtà, i risultati di questo impegno non sono sempre stati incoraggianti. Nel novembre scorso, ad esempio, intervenendo a una conferenza dedicata proprio al “rinnovamento del discorso religioso”, al-Tayyeb ha usato parole dure sia nei confronti dell’Islam sciita, accusato di fare proselitismo tra i giovani sunniti, sia del Cristianesimo. Secondo l’imam infatti, mentre l’Islam sarebbe stato capace di generare una raffinata civiltà, l’Occidente avrebbe iniziato a prosperare soltanto dopo aver voltato le spalle al Cristianesimo. Lo sforzo di dialogo dello shaykh al-Tayyeb pare qui ostacolato dalla riproposizione (inconscia?) di alcuni pregiudizi positivistici che il riformismo islamico ha derivato da alcuni dibattiti nell’Ottocento. In una conferenza del 1883, ad esempio, il filosofo francese Ernest Renan aveva accusato l’Islam di essere la causa dell’arretratezza dei Paesi musulmani. Gli aveva risposto Jamal al-Din al-Afghani, capofila del riformismo islamico moderno, il quale non aveva negato gli argomenti di Renan, ma aveva aggiunto che, nella sua forma più pura, l’Islam non soltanto non era ostile alla scienza, ma ne avrebbe favorito lo sviluppo. Così, se per intraprendere la strada del progresso gli europei avevano dovuto liberarsi del Cristianesimo, ai musulmani sarebbe bastato riscoprire l’Islam nella sua vera essenza. Da allora l’associazione tra risveglio islamico e riscatto della umma ha alimentato il pensiero e l’azione di molti ideologi e movimenti, inaugurando un deleterio meccanismo di competizione tra culture che i teorici occidentali dello scontro di civiltà non hanno fatto che esasperare.
La logica del dialogo
el Papa, l’imam incontrerà un uomo estraneo a queste logiche. In una recente intervista con il quotidiano cattolico francese La Croix, Francesco ha specificato, evocando il pensiero del teologo Erich Przywara, che “l’apporto del Cristianesimo a una cultura è quello di Cristo con la lavanda dei piedi: cioè il servizio e il dono della propria vita”. Un pensatore che aveva chiara questa dimensione è stato padre Christian Van Nispen, morto il 12 maggio scorso dopo aver dedicato la propria vita alla conoscenza dell’Islam, della cultura araba e dell’Egitto, Paese in cui è vissuto per più di quarant’anni. Olandese di nascita e gesuita come il Papa, Van Nispen non è stato soltanto un grande studioso del pensiero islamico. In lui il dialogo islamo-cristiano era un fatto di vita. Ricordandolo sul suo blog, l’intellettuale egiziano Wael Farouq ha raccontato del rispetto che padre Christian si era guadagnato anche tra salafiti e Fratelli musulmani e di come fosse solito "dividere il suo compenso per l’insegnamento fra un certo numero di famiglie musulmane povere". In un suo libro, Van Nispen aveva scritto che il dialogo autentico è “frutto dell’incontro”, è “incontro che si fa parola”. Ma aveva anche aggiunto che non tutti gli incontri sfociano direttamente ed esplicitamente nel dialogo. L’incontro insomma è un “rischio”. Ed è bene che oggi qualcuno sia disposto a correrlo.