Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:52:16
Qual è per la cultura la posta in gioco nella mondializzazione? Americanizzazione o rifeudalizzazione? Esasperazione di certe culture che si credono minacciate sotto l'effetto della rivoluzione digitale e della "globalizzazione" dell'economia? Subito dopo la caduta del Muro di Berlino, un americano d'origine giapponese, Francis Fukuyama, riportava all'onore delle cronache il sogno hegeliano della "fine della storia", sotto gli auspici, questa volta, del trionfo dell'economia di mercato e della democrazia liberale. Due anni più tardi, Al Gore, futuro Vice Presidente degli Stati Uniti, improntò la sua campagna sul tema della società dell'informazione, capace un domani, a suo avviso, di mettere a disposizione di ciascuno al di là della provenienza geografica la memoria ed il sapere del mondo, grazie ad autostrade di fibre ottiche. Infine dal 1996, dopo i primi successi dei giovani germogli sbocciati da Internet le cosiddette start-up alcuni guru credettero di aver trovato nella new economy la formula miracolosa per una crescita sostenuta e continua, senza disoccupazione né inflazione. La fine della storia, la società dell'informazione, la new economy: queste pompose anticipazioni erano spesso calcolate o interessate. Facevano leva, con tanta fiducia quanta ingenuità, sulle prime trasformazioni nate dalla rivoluzione digitale e dalla mondializzazione economica. Davano sempre ragione, senza confessarlo, alle visioni dell'avvenire, riviste e corrette, dell'autore del Global Village, il pensatore canadese Marshall McLuhan. Il sogno del villaggio globale s'è infranto con la tragedia di New York e Washington, l'11 settembre 2001: essa ha dissipato le ultime illusioni in cui s'era cullato il primo decennio del dopo guerra fredda. Il XXI secolo nasceva, non come si era creduto con qualche anno d'anticipo grazie al progresso della rete e alla fine dell'Impero Sovietico, ma con qualche mese soltanto di ritardo sul calendario, nel 2001, mentre crollavano le torri gemelle della città più cosmopolita del mondo, simbolo o prefigurazione di un futuro ancora privo di nome, post-industriale o post-nazionale. Il mondo intero riscopriva ciò che l'Occidente sviluppato aveva spesso dimenticato, in un'euforia tecnicista ed economicista molto fin de siècle: la realtà del terrorismo e quella delle molteplici dittature e dei fanatismi recenti, nuovi o rinascenti. I luoghi comuni offuscano la nostra percezione. E l'accelerazione della storia risveglia in noi paure ancestrali (l'incubo di Babele, la monocoltura americana) nello stesso tempo in cui nutre i sogni più folli: il villaggio globale di McLuhan o la pace perpetua di Immanuel Kant. Proprio questa accelerazione nasconde ai nostri occhi il fatto che al di là della persistenza delle grandi aree di civiltà l'America del Nord, l'Europa, la Russia, il Giappone, l'India, la Cina, l'Islam il mondo è diventato un patchwork. Per effetto di scambi sempre più intensi tra persone, popoli, culture e religioni, ogni società è diventata un patchwork. Tutti vivono appartenenze multiple: siamo tutti più o meno vicini a parecchie culture alla volta. Tanto più che con i media ognuno di noi ed ogni società si abbandona al gioco senza fine dei confronti: tutti o quasi possono vedere il mondo intero, o quasi. Il dilemma, per il mondo a venire, non si pone dunque tra l'uniformità tragica di Babele e la diversità armoniosa dei nuovi utopisti: per la cultura, non esiste in effetti una mondializzazione sola; se ne dà più d'una. Ciò che solo da qualche anno si designa con il termine di mondializzazione non è che la ripresa di una dinamica vecchia di cinque secoli, quella della civiltà industriale. Il calcio d'inizio risale al 1492, quando Cristoforo Colombo, partito alla ricerca delle Indie, scopre per caso l'America, meno di cinque anni prima che un altro navigatore venuto dall'Europa, Vasco de Gama, scopra il Capo di Buona Speranza. Grazie alla rivoluzione dei trasporti (bastimenti di commercio, ferrovie, poi l'automobile) l'Europa, nel XIX secolo, fu il primo motore e contemporaneamente il principale beneficiario dell'economia-mondo. Il XXI secolo segna tuttavia una duplice rottura, sotto l'effetto congiunto della rivoluzione digitale e della fine della guerra fredda. Da una parte, reti mondiali d'informazione o di produzione facilitano grandemente lo sviluppo degli scambi internazionali, i quali, a loro volta, favoriscono l'estensione delle reti. Dall'altra parte, i paesi occidentali sono inclini a pensare che il mondo si stia unificando, grazie al mercato globale, su di un fondo di valori universali. Apparso negli Stati Uniti negli ultimi anni del secolo scorso, il termine "globalizzazione" designa simultaneamente la moltiplicazione delle reti ed il rafforzamento delle dipendenze reciproche, una mutazione profonda che tocca economia, cultura e politica. La civiltà industriale, nata dalla cultura tecnico-scientifica, è il solo vero crogiolo del mondo moderno. Interessa più da vicino una frazione dei nostri contemporanei: una élite abbastanza cosmopolita di intermediari e mediatori, intellettuali, ricercatori, ma anche dirigenti, gestori delle imprese transnazionali o multinazionali. Essa ha i suoi luoghi d'incontro, dal valore simbolico: le organizzazioni internazionali, le grandi università, Davos, il MIT, Jussieu o la Sorbona. La mondializzazione della cultura non si fa solamente "dall'alto"; è all'opera ugualmente, in un certo senso, "dal basso", attraverso la spettacolare crescita di una cultura "di massa" che fa lega con la civiltà del turismo, del tempo libero e del divertimento. La sua vocazione è inequivocabilmente planetaria, in quanto pretende di raggiungere il maggior numero di persone nel maggior numero possibile di paesi. Nella prima metà del XX secolo erano i vecchi varietà e il cinema di Hollywood a costituire lo show-business. Con la televisione, quest'ultimo si sviluppa considerevolmente annettendo nuovi territori fino a diventare quello che gli americani chiamano entertainment: industrie varie che comprendono film di successo, serie televisive, spettacoli musicali, video, varietà, cerimonie di consegna di premi. L'entertainment non è legato a nessun media in particolare: stringe relazioni con ciascuno di essi, anche se la televisione, che ne ha favorito grandemente la crescita, ne è diventata il partner privilegiato. Comprende programmi di flux e di stock: trasmissioni che si guardano una volta sola e capolavori di livello tale da entrare nel pantheon di una cultura universale. L'entertainment ha infine la particolarità d'imporre il suo stile, i suoi modi di fare e di pensare, ad attività che si credevano ad esso estranee: l'informazione, l'educazione, la pubblicità. Da questo fatto discendono neologismi originati dalla contrazione di due parole: infotainment (information e entertainment), edutainment, advertorials (advertising e editorials) o ancora infomercials (information e commercials). Questa cultura planetaria e mercantile è meno americana di quanto talora si affermi, anche se i suoi quartieri generali sono più spesso a Los Angeles o a New York che nelle altre metropoli del mondo. è senza dubbio la musica ad illustrare meglio gli sconvolgimenti che il mondo globalizzato fa subire a ciò che comunemente si chiama cultura. Più ancora che altre forme d'espressione, essa attraversa le frontiere nazionali o etniche e ignora le suggestioni della purezza originale. Congiunge l'America, i Caraibi, l'Africa e l'Europa, arrivando perfino a mescolare la politica all'estetica. Il destino del celebre I'm so proud costituisce un esempio di queste peregrinazioni che sono tanti "passaggi di testimone" tra i popoli: creato da un trio vocale di Chicago, fu ripreso da un gruppo reggae giamaicano prima di diventare, in Gran Bretagna, un successo planetario intitolato Proud of Mandela e cantato da figli d'immigrati delle Antille. Il motivetto di successo originario di Chicago rappresenta perfettamente questa cultura planetaria che s'afferma ogni giorno di più sotto l'influsso congiunto della globalizzazione economica e della rivoluzione digitale. I centri di produzione di questa cultura traggono il miglior partito dall'internazionalizzazione e dalla concentrazione che interessano tutti i settori d'attività. Time-Warner, Bertelsmann, Disney, Globo... giocano sulla confusione dei generi creando linee di prodotti, dal vestiario all'entertainment, sotto gli auspici di loghi o marche conosciute nel mondo intero: Nike, Pokemon, Universal. Ma il fatto più importante, al di là della circolazione sempre più intensa di opere della cultura planetaria, sono gli incroci, prestiti e riciclaggi da cui essa trae origine. Contrariamente a quanto si pensa, non è l'espressione o il cavallo di Troia della American Way of Life; si nutre piuttosto di fecondazioni incrociate tra fonti d'ispirazione molteplici e varie, provenienti dal mondo intero. Condannata sotto la pressione della concorrenza a rinnovarsi senza tregua, alla stregua delle mode ideologiche o dei vestiti, si alimenta del "clima del momento" che a sua volta rinnova continuamente: questo insieme di simboli, rappresentazioni e luoghi comuni che contraddistingue, da Tokyo a New York, da Parigi a Johannesburg, l'appartenenza comune alla stessa epoca, quella del presente. Di fronte all'avanzata di queste due culture a vocazione planetaria (quella "industriale" e quella "del divertimento"), la cultura popolare, che si potrebbe anche chiamare etno o socio-cultura, è sulla difensiva. Essa è radicata in un territorio, circoscritta in uno spazio: è per ognuno il marchio d'appartenenza ad un paese o ad un popolo. Questa cultura ognuno la porta con sé o vi convive; si trasmette di generazione in generazione. Comprende simultaneamente o solo in parte una lingua, una religione, un patrimonio. Trasmessa da una tradizione dotata d'autorità, dà radici a ciascuno, offre i riferimenti primari della vita in società. Si avvicina il meno imperfettamente possibile a ciò che si chiama religione, nel senso etimologico del termine: lega relegare ed è contemporaneamente oggetto d'una venerazione relegere. Queste culture, nel senso antropologico, anglosassone più che tedesco o francese del termine, sono oggi sommerse, sovvertite, prese tra le tenaglie dei rappresentanti talora arroganti della civiltà industriale e i conformisti incuranti che si accontentano troppo spesso di vivere del clima del momento. In questo risiede la minaccia che la mondializzazione esercita sulla cultura: il pericolo di una riduzione a mero folklore delle culture radicate sul territorio, crogioli primordiali del "vivere insieme". La minaccia merita d'essere presa in considerazione tanto più che queste culture singole, radicate in un territorio, sono il terreno di cui si nutre la cultura nel senso stretto del termine, la "vera" cultura, la cultura "colta", letteraria o artistica, filosofica o storica, che si potrebbe anche chiamare humanitas. Per lungo tempo essa è stata la sola legittima e dotata d'autorità, ponte tra il particolare e l'universale. Non è oggi sommersa, sovvertita e soggiogata dalla cultura del divertimento, che la prende per una commovente fantasticheria, se non per un simpatico scherzo? Condensata in slogan, la "diversità culturale" si richiama implicitamente all'idea comunemente ammessa, semplificante ma spesso corretta, secondo la quale la diversità, per le attività umane, è sinonimo di ricchezza, di pluralità e insomma di libertà e tolleranza. Giustifica il diritto per gli stati di proteggere e difendere certe industrie culturali, il cinema o il libro, con sovvenzioni, quote o tasse d'importazione. Ma il principio è tanto facile ad enunciarsi quanto difficile ad applicarsi. Non soltanto incorre nei rischi del protezionismo e del corporativismo, ma finisce sempre per esprimere, spesso senza dirlo, sfida, sospetto, ostilità e disprezzo nei confronti di un'altra "cultura". Per lo meno, però, l'applicazione del principio della diversità culturale è un invito, per tutti e per ogni popolo, ad interrogarsi su ciò che gli è proprio, su ciò cui tiene al di sopra di tutto e che considera quasi come sacro e di conseguenza non oggetto di commercio sotto pena di rendersi colpevoli di simonia: opere, attività, una lingua, una religione, una storia, un folklore... Per lo meno l'evocazione di questo principio permette d'identificare meglio i rischi che la società globale pone alla culture, a ciò che, in mancanza di meglio, si chiama cultura e che è la caratteristica propria dell'uomo. Da una parte il rischio, per un numero troppo grande di persone, di vivere soltanto del clima del momento, d'identificarsi con la propria epoca, sotto l'imperio d'una cultura creolizzata diffusa dai media globali. Dall'altra, il rischio per le élites, per i creatori come per gli intellettuali o i saggi, di perdere ogni influenza, non potendo conservare agli occhi della maggioranza quel misto di disinteresse e d'ammirazione che fonda la vera autorità.