Dietro il trattamento riservato dallo Stato Islamico alle minoranze cristiane si cela una lettura selettiva e delirante dell'Islam, volto a porsi come alternativa all’Occidente. La teocrazia medievale sposa così le forme del totalitarismo e si consegna alla volontà di potenza

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Ultimo aggiornamento: 19/06/2024 15:11:40

Sul fatto che la violenza scatenata dallo Stato Islamico nell’area compresa tra Siria e Iraq, soprattutto a danno di non-sunniti e di sunniti “devianti”, abbia assunto forme e proporzioni mostruose non sembrano esserci molti dubbi. Già nel novembre del 2014, cioè cinque mesi dopo la presa di Mosul, un rapporto di Amnesty International parlava di una «pulizia etnica di dimensioni storiche» e affermava che «lo Stato Islamico ha sistematicamente colpito comunità non-arabe e non-sunnite, uccidendo e rapendo centinaia, forse migliaia di persone e costringendone oltre 830.000 a fuggire dalla regione conquistata nel giugno 2014»[1]. Nello stesso periodo, un rapporto dell’ONU descriveva la vita in Siria sotto l’ISIS con l’icastica locuzione di «governo del terrore»[2].

 

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La franca brutalità con cui questa violenza è non solo praticata, ma anche programmata, rivendicata ed esibita, tanto che lo Stato Islamico può fieramente dichiarare sulla sua rivista Dabiq che «l’Islam è la religione della spada, non pacifismo»[3], richiama alla mente un concetto abitualmente associato al XX secolo: il totalitarismo. Non a caso, secondo la celebre definizione di Hannah Arendt, è il terrore l’essenza stessa del dominio totalitario[4]. E tuttavia, una differenza radicale sembra separare l’esperienza dello Stato Islamico, per quanto atroce essa sia, dal totalitarismo vero e proprio. Infatti, ancora secondo la Arendt «il sistema politico totalitario non sostituisce un corpo di leggi con un altro, non instaura il proprio consensus iuris, non crea, attraverso una rivoluzione, una nuova forma di legalità. Il suo disprezzo per tutte le leggi positive, persino per le proprie, implica la convinzione di poter fare a meno di qualunque consensus iuris, e tuttavia non si rassegna allo stato tirannico dell’illegalità, dell’arbitrio e della paura. Esso può fare a meno del consensus iuris perché promette di liberare l’adempimento della legge dall’azione e dalla volontà dell’uomo; e promette la giustizia sulla terra perché pretende di fare dell’umanità stessa l’incarnazione della legge. […] Nell’interpretazione del totalitarismo, tutte le leggi sono diventate leggi di movimento. Quando i nazisti parlavano delle leggi di natura o quando i bolscevichi parlavano della legge della storia, né la natura né la storia erano più la fonte stabilizzante dell’autorità per le azioni degli uomini mortali; esse sono in sé movimento. […] Il terrore è la realizzazione della legge di movimento»[5].

 

Per essere tale, il totalitarismo esige dunque l’immanenza di una legge che si identifica allo stesso tempo con l’evoluzione storica o naturale. Apparentemente nulla di più lontano dalla realtà dello Stato Islamico, la cui pretesa è invece quella di attuare una legge trascendente e assolutamente stabile in quanto di origine divina. A rigore sembrerebbe teocrazia, e della peggior specie, non totalitarismo. Ma è davvero così? Proviamo a vedere le cose più nel dettaglio, assumendo come oggetto di studio e termine di raffronto la condizione dei non-musulmani e in particolare dei cristiani all’interno dell’ideologia e della prassi dello Stato Islamico.

 

Persecuzione legale

 

Nella retorica dell’ISIS la condizione di ogni comunità dipende dallo statuto che le è assegnato dalla legge divina. Così ogni decisione e ogni atto troverebbe una giustificazione nel quadro normativo stabilito dalla sharî‘a. Per esempio, la rivista Dabiq riporta il dibattito che prima della presa del Sinjar sarebbe avvenuto tra i giuristi dello Stato Islamico circa lo statuto degli yazidi. Scopo della discussione era «decidere se essi andassero trattati come un gruppo pagano sin dalle origini o invece come un gruppo originariamente musulmano che avrebbe successivamente apostatato», ciò che avrebbe comportato una sottile differenza nel trattamento riservato ad alcuni dei loro membri e in particolare alle donne. Appurato che si trattava di semplici pagani, molte famiglie sono state fatte schiave e vendute dai militanti jihadisti così come «i pagani erano stati venduti dai compagni [di Muhammad]»[6][7].

 

La propaganda jihadista intende qui mostrare che la selezione delle vittime e il modo in cui esse vengono trattate non derivano da decisioni arbitrarie, ma dall’adesione rigorosa a una normatività esterna che precede e vincola implacabilmente il giudizio dello Stato. Così, se la “colpa” degli yazidi è quella di essere pagani, l’empietà degli sciiti e di altri gruppi musulmani “eterodossi” come gli alawiti dipende dalla loro qualificazione come râfida (coloro che rifiutano), un termine che tradizionalmente denota gli sciiti duodecimani soprattutto in contesti polemici, mentre i sunniti che non osservano adeguatamente la Legge sono denunciati come murtadd (apostati) e in quanto tali vanno considerati degni di morte.

 

Il patto di ‘Umar

 

Un caso emblematico dell’intreccio tra statuto giuridico e terrore è quello dei cristiani. A differenza degli altri gruppi, i cristiani possono beneficiare della dhimma, la protezione che a certe condizioni, tra cui il pagamento di un testatico (la jizya), è concessa alle “genti della Scrittura” e ai gruppi ad essi assimilati. A questo proposito Pierre-Jean Luizard ha potuto scrivere che «non si può dire che le comunità cristiane siano state consegnate all’arbitrio totale di una politica di sradicamento: alcune regole, certamente crudeli e odiose, sono state relativamente rispettate»[8]. A differenza di quanto avvenuto con altre comunità, nel caso dei cristiani l’impeto jihadista sarebbe dunque stato limitato dalla sharî‘a e in particolare dalla norma che si ricava da Cor. 9,29 e la cui applicazione è dettagliata dal cosiddetto patto di ‘Umar, un documento in cui sono registrate la condizioni che sarebbero state concordate tra il secondo Califfo (634-644) e la popolazione cristiana di Gerusalemme al momento della presa della città nel 637[9].

 

Già nel 2007, l’allora leader dello Stato Islamico (che all’epoca si chiamava semplicemente lo Stato Islamico in Iraq ed era ancora legato ad al-Qaida), ‘Umar al-Baghdadi, affermava in un documento programmatico che le persone appartenenti alle genti della Scrittura non avrebbero potuto beneficiare di alcuno stato di protezione dal momento che esse avevano violato i patti stabiliti con i musulmani e si trovavano in guerra con lo Stato Islamico. Se avessero voluto tornare a godere di sicurezza e incolumità, avrebbero dovuto stringere un nuovo patto con lo Stato Islamico in conformità con le condizioni del patto di ‘Umar che essi avevano violato[10].

 

Non è forse un caso che risalga proprio a quel periodo il primo esplodere di una violenza efferata contro i cristiani, di cui fu vittima tra gli altri l’Arcivescovo di Mosul, Mons. Paulos Faraj Rahho e che culminò negli attentati alla Cattedrale siro-cattolica di Baghdad del 31 ottobre 2010.

Quando nel 2013 lo Stato Islamico (diventato intanto Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) conquistò la città siriana di Raqqa, ai cristiani del posto venne fatto sottoscrivere un documento di protezione che ricalcava le condizioni del patto di ‘Umar, imponendo dodici condizioni in cambio delle quali i cristiani ottenevano la salvaguardia della vita, dei beni, delle chiese e dei figli[11]:

  1. non costruire nuovi luoghi culto, chiese o monasteri, nella città o nei suoi dintorni e non restaurare i luoghi di culto distrutti;
  2. non indossare croci o portare con sé libri religiosi nelle strade o nei mercati frequentati dai musulmani, e non utilizzare amplificatori durante gli atti di culto;
  3. non fare ascoltare ai musulmani la lettura dei libri cristiani o il suono delle loro campane e suonare queste ultime solo all’interno delle chiese;
  4. non compiere atti ostili nei confronti dello Stato Islamico, come ospitare spie o individui ricercati dalla giustizia dello Stato e denunciare cospirazioni contro i musulmani di cui fossero a conoscenza;
  5. non praticare riti al di fuori delle chiese;
  6. non impedire ad alcun cristiano di abbracciare l’Islam;
  7. rispettare l’Islam e i musulmani e non denigrare alcun aspetto della loro religione;
  8. pagare la jizya: il tributo incombe su ogni maschio pubere e il suo ammontare è di quattro dinari d’oro per le persone facoltose, due dinari per le persone di medio reddito, un dinaro per i poveri, da versare in due rate annuali;
  9. non portare armi;
  10. non commerciare maiali o vino con i musulmani, o consumarli in pubblico;
  11. avere sepolture distinte da quelle dei musulmani;
  12. adeguarsi alle norme imposte dallo Stato Islamico per esempio osservando il decoro nell’abbigliamento, nei commerci, ecc.

 

Il documento, che è stato poi replicato per i cristiani di al-Qaryatayn, conclude stabilendo che i cristiani godranno della «protezione di Dio e di Muhammad sulle loro terre e sulle loro proprietà e i loro diritti e la loro religione saranno rispettati» fintantoché osserveranno le condizioni elencate dal patto. In caso contrario, decadrebbe il loro diritto alla protezione e verrebbero considerati come nemici dello Stato Islamico.

Queste condizioni rappresentano effettivamente il quadro normativo di riferimento per la disciplina della presenza cristiana all’interno della umma islamica. Tuttavia la loro applicazione rigida, talmente rigida da trasformare la protezione in una persecuzione legale, si è verificata soltanto in alcuni momenti della storia islamica ed è stata usata come patente di islamicità di cui si dotavano governanti particolarmente zelanti, come l’omayyade ‘Umar II, l’abbaside al-Mutawakkil, il fatimide al-Hâkim bi-Amr Allah, e il mamelucco al-Nâsir Muhammad Ibn Qalâwûn.

 

Pathos anti-occidentale

 

Anche nel caso dello Stato Islamico il recupero e la diligente applicazione di un testo medievale serve naturalmente ad accrescere la propria legittimazione religiosa. Ma il modo in cui lo Stato Islamico attinge alla tradizione islamica rivela anche dell’altro. Come ha notato Andrew March nel contesto di un dibattito americano sul rapporto tra l’ISIS e le scritture islamiche, lo Stato Islamico condivide con altri movimenti salafiti-jihadisti il riferimento a un complesso di pratiche e istituzioni giuridiche che non rimandano soltanto a una fondamento islamico ma hanno anche lo scopo di accentuare l’alterità assoluta tra le norme islamiche e la cultura moderna di matrice occidentale: «La restaurazione della schiavitù, l’esecuzione sommaria dei prigionieri, la riesumazione dello status di dhimmi per i non-musulmani fanno esattamente questo. Servono ad annunciare la sovranità di un ordine giuridico particolare. E più queste pratiche impressionano i non-salafiti, tanto più chiaramente esse proclamano l’assoluta indipendenza e auto-sufficienza dell’ordine giuridico islamico»[12]. In questa prospettiva, lo Stato Islamico fa certo riferimento a un patrimonio specifico, ma secondo una logica non diversa da quella di altri gruppi radicali e totalitari anti-occidentali, al punto che gli si attagliano comodamente le parole usate da Pellicani per descrivere un movimento come quello dei Khmer Rossi: «Nella loro follia omicida non c’è solo, come in tutte le follie, un metodo; c’è anche uno specifico pathos, e precisamente il pathos del rifiuto radicale della civiltà occidentale in tutte le sue manifestazioni»[13].

 

Il pathos è tale che non ha neppure bisogno di esprimersi con i toni apologetici di un Qaradawi – l’ideologo islamista che pure ha speso la propria vita a vantare la superiorità della “soluzione islamica” sugli altri sistemi – per il quale le garanzie offerte dallo statuto della dhimma renderebbero la vita del non-musulmano all’interno della umma migliore che al suo esterno[14]. Il rigorismo dottrinario dell’ISIS si ispira piuttosto alla «violenza morale» degli Ahkâm ahl al-Dhimma di Ibn Qayyim al-Jawziyya (1292-1350)[15] o alla feroce intransigenza anti-sciita e anti-cristiana di Ibn Taymiyya (1263-1328), il cui nome ricorre abbondantemente nella produzione ideologica dell’ISIS, e che scrisse le sue famigerate fatwe in un’epoca in cui, come ha fatto notare Suleyman Mourad, la situazione del Medio Oriente non era dissimile da quella attuale[16].

 

Tuttavia, la predilezione per questi “cattivi maestri” potrebbe non essere sufficiente a spiegare l’ideologia e la prassi dello Stato Islamico. Sotto un’apparenza di rigorosa aderenza alle fonti, il suo approccio alle scritture rivela infatti un alto grado di selettività. Lo dimostra tra le altre cose la scelta dei passi coranici normalmente citati nei suoi scritti per descrivere i cristiani: quelli più ostili (come Cor. 2,120, 5,51 e 9,29) abbondano, mentre quelli più concilianti sono sistematicamente taciuti. Ma lo prova anche il modo in cui è utilizzato il patto di ‘Umar. Ancora March fa notare come la carta imposta nel 2014 alla popolazione di Raqqa combini «un’ostentata fedeltà e alcune intriganti revisioni»[17]. La revisione che più immediatamente salta agli occhi è nella forma del patto. Quello consegnato dalla tradizione islamica registra la voce dei cristiani di Gerusalemme. Sono loro a proporre le condizioni per la loro protezione ed è il Califfo ‘Umar ad accettarle. Il documento prodotto dallo Stato Islamico è emesso in nome di Abu Bakr al-Baghdadi e dello Stato Islamico ed esprime le norme a cui i cristiani devono attenersi nella terza persona plurale (non costruiranno, non mostreranno, non faranno ascoltare, ecc.). Non sono più soggetti, ma oggetti del Patto. Anche nei contenuti ci sono però delle variazioni, sia in termini di omissioni che di aggiunte. Tra queste ultime vi è per esempio l’obbligo di consegnare eventuali individui ricercati dalla giustizia, la specificazione dell’ammontare della jizya e l’ingiunzione di adeguarsi alle norme imposte dalle pattuglie islamiste in materia di pubblica decenza e moralità.

 

Ma anche laddove il testo segue più letteralmente la versione originaria, a colpire è soprattutto l’assoluta sproporzione tra la precisione e la solennità del testo e l’esiguità della comunità cristiana di Raqqa, i cui membri erano probabilmente già fuggiti in massa prima dell’arrivo dello Stato Islamico[18]. Risulta qui evidente che i reduci di Raqqa servono solo a fare la parte umiliante della cavia nel laboratorio del Califfato rinascente. Questo non sarebbe infatti all’altezza delle proprie ambizioni e della propria “salafitica” purezza se non potesse esibire una comunità di “protetti” su cui vigilare. Altrove, come a Mosul, dove le dimensioni della comunità cristiana erano tali da disturbare la paranoica ossessione dello Stato Islamico per l’omogeneità religiosa, le condizioni imposte dai jihadisti (conversione, pagamento del tributo per un ammontare molto elevato, o morte), l’intimidazione esercitata (si pensi alla marchiatura delle case cristiane con la lettera “nûn” di nasârâ, nazareni), e le brutalità compiute sono state molto efficaci nel convincere i cristiani a togliere il disturbo.

 

Una vendetta in due atti

 

Tra l’altro, se il trattamento inflitto ai cristiani iracheni e siriani mantiene ancora una parvenza di conformità con la sharî‘a, pur nella sua declinazione più intransigente, una vicenda come quella dei 21 copti trucidati su una spiaggia libica dai soldati della “provincia tripolitana” (Wilâyat Tarâbulus) del “Califfato” è la prova di una concezione delirante dell’Islam. L’episodio è trattato con una certa ampiezza dal numero 7 di Dabiq, dove viene connessa con «l’operazione benedetta» contro la Cattedrale siro-cattolica di Baghdad del 2010, in cui «più di cento crociati furono uccisi o feriti da soli cinque martiri dello Stato Islamico». Nel resoconto fornito dalla rivista, l’attentato aveva lo scopo di vendicare alcune musulmane che sarebbero state «torturate e assassinate» dalla Chiesa copta d’Egitto. L’articolo fa qui riferimento alla storia di alcune donne, la più nota delle quali Camilia Shehata, la cui misteriosa scomparsa nel luglio del 2010 diede il via a una ridda di voci su una sua presunta conversione all’Islam, innescando un feroce scambio di accuse tra copti e musulmani. Lo Stato Islamico trae spunto da questo episodio per mettere in scena una feroce ritorsione in due atti, tra l’altro nei confronti di due comunità distinte sia per rito che per affiliazione ecclesiastica: prima contro «i cristiani cattolici di Baghdad per insegnare al tâghût [demone] dei copti – Shenouda – che il sangue musulmano è costoso e perciò se la sua Chiesa perseguita una musulmana in Egitto, egli sarà direttamente responsabile per ogni singolo cristiano ucciso ovunque nel mondo»; e poi «seminando il terrore direttamente nei cuori dei copti dopo averlo seminato nel cuore dei loro alleati cattolici»[19].

 

Che secondo l’ISIS il modo più adeguato di interagire con i cristiani sia il terrore è confermato anche da un altro articolo di Dabiq, che descrive il «sollievo provato dai cuori dei musulmani quando hanno visto i loro fratelli [di Boko Haram] in Africa Occidentale terrorizzare i cristiani e l’esercito nigeriano di murtadd [apostati]» e loda i mujahidin della regione per «non aver temuto il biasimo delle critiche quando hanno catturato e reso schiave centinaia di ragazze cristiane, anche quando la macchina mediatica dei crociati ha fatto di tutto per rivolgere l’attenzione del mondo su questa questione»[20].

 

Insomma, la posizione dello Stato Islamico nei confronti dei cristiani può certo fare leva su un’effettiva base testuale (a partire da Cor. 9,29). E, a questo proposito non si può non rilevare en passant un caso particolarmente spinoso di dissintonia tra la tradizione islamica e i valori della modernità, una dissintonia che peraltro ha spinto diversi pensatori musulmani a invocare senza mezzi termini una riforma che abbia il coraggio di operare una netta rottura epistemologica con il patrimonio del passato. Ma il trattamento riservato ai potenziali dhimmî e più in generale a tutte le popolazioni non-sunnite della regione siro-irachena non può essere ricondotto esclusivamente alla normatività religiosa: non perché l’ideologia dello Stato Islamico non attinga a elementi effettivamente presenti nei testi fondativi o nella riflessione giuridica dell’Islam, ma perché questi ultimi non bastano a spiegare la carica nichilistica che muove i seguaci del Califfo al-Baghdadi.

 

Il Califfato sotto accusa

 

Non è un caso che “le gesta” dell’ISIS siano riuscite a suscitare, in un mondo musulmano altrimenti estremamente frammentato, un inedito moto unanime di disapprovazione. È infatti abbastanza sorprendente che a condannare le persecuzioni dello Stato Islamico non siano stati solo illuminati pensatori dell’Islam liberale, o la moschea egiziana di Al-Azhar, che si vuole faro di un Islam “mediano”, ma anche quei salafiti-jihadisti della “vecchia guardia”, la generazione al-Qaida per intenderci, che fino a pochi anni fa erano considerati la peggiore incarnazione del male.

 

Per esempio l’ideologo jihadista Abû Qatâda al-Filastînî ha affermato che «l’imposizione della jizya ai cristiani di Raqqa è illegale, dal momento che essa deve risultare da un patto tra due parti contraenti, una delle quali è assente», specificando che in Siria i mujahidin «non sono ancora in grado di garantire la protezione delle persone e dei beni dei cristiani ed è perciò illegale riscuotere del denaro dalle loro mani senza dare in cambio un servizio»[21]. Un altro ideologo, ‘Azzâm al-Amrîkî, ha addirittura scomodato la figura dello spietato al-Zarqawi, che dello Stato Islamico è il padre “nobile”, ricordando come lo shaykh «avesse chiarito che la sua politica si limitava a combattere i gruppi in lotta contro i musulmani e i sostenitori dell’occupazione dei crociati in Iraq, mentre non aveva interesse a combattere gli altri gruppi come gli yazidi, i sabei, i mandei e i cristiani»[22]. Ma è lo shaykh Abû al-Mundhir al-Shinqîtî, un altro rappresentante di spicco dell’ideologia jihadista, a cogliere in maniera più puntuale il movente dello Stato Islamico: «Per al-Baghdadi, l’aggressione nei confronti dei cristiani e degli yazidi è stata una politica necessaria, nonostante i suoi rischi, per coltivare nelle sue truppe l’illusione del califfato e confermarle nell’idea che loro e soltanto loro rappresentino oggi l’Islam»[23].

 

Il teo-manicheismo dello Stato Islamico

 

Le parole di al-Shinqîtî, che evidentemente conosce bene il linguaggio di programmazione dei movimenti jihadisti, e le considerazioni sulle vittime dello Stato Islamico, ci aiutano a tornare sull’accostamento, accennato all’inizio, tra lo Stato Islamico e alcuni tratti distintivi del totalitarismo.

 

Innanzitutto, come al-Shinqîtî suggerisce, lo Stato Islamico non applica l’Islam. Molto più radicalmente intende rappresentarlo in modo esclusivo. Lo sganciamento da al-Qaida nel corso del 2013 non ha solo un significato strategico-militare, ma segnala esattamente l’autosufficienza dell’ISIS, la cui legittimità non dipende più da riconoscimenti esterni. Il suggello di questo movimento di emancipazione è la proclamazione del Califfato, con la quale, secondo le parole pronunciate il 29 giugno dal portavoce dello Stato Islamico, «viene meno la legittimità di tutti gli emirati, i gruppi, gli Stati e le organizzazioni su cui si estende il potere del Califfo e che sono raggiunti dal suo esercito»[24]. La rifondazione del Califfato, che permette alla umma di tornare «a gustare il sapore dell’onore, il sogno che alberga nell’intimo di ogni musulmano credente, la speranza per cui freme il cuore di ogni combattente monoteista»[25], riveste per il suo potere demagogico la stessa funzione che nella retorica hitleriana svolgeva il mito del Reich. Si potrebbe notare, riprendendo la precisazione della Arendt, che il Reich pretendeva di incarnare un ordine totalmente nuovo, l’inizio di una nuova epoca, nella quale «l’umanità – più precisamente, la sua parte privilegiata: il popolo tedesco, incarnazione perfetta della Herrenrasse – sarebbe uscita dal tempo della corruzione universale e avrebbe imboccato la via che l’avrebbe portata a liberarsi progressivamente di tutte le limitazioni che in passato l’avevano avvilita e degradata»[26]. Il Califfato rimanda invece per definizione a un’epoca passata, a un ordine e a un’umanità che sono già stati e vanno ripristinati in obbedienza alla trascendenza e alla stabilità delle norme divine piuttosto che a una legge di natura in perenne movimento. Tuttavia, anche il Califfato di al-Baghdadi è in realtà tutto teso a una rigenerazione palingenetica dell’umanità, in cui la lotta dell’Islam contro i tre mali del mondo – la miscredenza (kufr), l’idolatria (shirk) e l’apostasia (irtidâd) – non è diversa dalla guerra mortale tra le razze (nazismo) o tra le classi (bolscevismo). Essa travolge infatti persone e cose con la stessa «furia pantoclastica» di un Hitler o di un Lenin, distruggendo «fino all’ultima pietra l’ordine esistente»[27], in vista dell’avvento imminente del tempo escatologico, un tema che nella propaganda dell’ISIS non è meno presente o meno potente di quanto fosse nella retorica dei due grandi totalitarismi europei. E la lista delle omologie potrebbe continuare.

 

A rendere effettiva l’affinità solo apparentemente impossibile tra la teocrazia islamista del neo-Califfato e il totalitarismo è la natura “circolare” della teologia politica. Come ha ben messo in evidenza Massimo Borghesi, «la teologia politica […] è dialettica. Per essa il momento teologico si realizza attraverso il politico e il politico tramite il teologico. Nel passare “attraverso”, nel realizzarsi attraverso altro-da-sé, i due momenti vanno incontro a una metamorfosi. È in questo senso che la teologia politica rappresenta una formula della secolarizzazione: del teologico che indentifica la civitas Dei con la civitas Mundi; del politico, allorché nel senso di Löwith o di Voegelin, diviene religione politica. La secolarizzazione è il “circolo” in cui il trascendente diviene immanente e l’immanente, a sua volta, si colora di enfasi religiosa totalizzante proprio per potersi chiudere nella sua immanenza»[28]. Questo fondamentale passaggio consente anche di comprendere la differenza tra il “Califfato” di al-Baghdadi e il Califfato islamico classico. Borghesi aggiunge infatti la necessità di operare una fondamentale distinzione tra la teologia politica tradizionale, che può assumere una forma teocratica o cesaropapista e produce una secolarizzazione della religione e la teologia politica post-cristiana, la quale «consegue dalla politica che, totalizzandosi, diviene religione. Qui è il mondano che diviene teologico e non viceversa. Il tal caso però la teologia politica, lungi dall’essere secolarizzazione del Cristianesimo diviene, in Carl Schmitt, un teomanicheismo, una teologia politica gnostica. […] Dal punto di vista strutturale la differenza tra le due teologie è data dalla dialettica amico-nemico che, non necessaria nella teologia politica “cristiana”, è invece essenziale nella teologia politica gnostica»[29].

 

È su questo terreno, più che su quello della teocrazia tradizionale, che lo Stato Islamico ritrova il totalitarismo. Non è un caso che anche l’Islam classico, proprio in virtù della dinamica che Borghesi descrive per il Cristianesimo, avesse conosciuto una secolarizzazione del potere politico e una certa distinzione, di fatto se non nelle idee, tra sfera spirituale e sfera temporale. Nel neo-Califfato siro-iracheno è invece una logica di feroce contrapposizione – con l’Occidente, con i non-musulmani, con i musulmani “eterodossi” – a definire la natura e gli obiettivi dello Stato. Il Califfato è proclamato per la sua capacità di mobilitare energie simboliche, mediatiche e belliche. Ci troviamo evidentemente di fronte a un caso estremo di strumentalizzazione della religione; non però nel senso che l’Islam è consapevolmente utilizzato secondo un calcolo razionale per conseguire fini politici. I militanti jihadisti credono veramente in quello che dicono e che fanno: non si spiegherebbe altrimenti la loro disponibilità a morire per la causa dello Stato Islamico. Strumentalizzazione significa piuttosto che l’Islam finisce per essere totalmente assorbito dalla volontà di potenza. È l’opzione a priori per il terrore a generare l’interpretazione della sharî‘a e non viceversa. Lo dimostra in modo emblematico il caso del pilota giordano condannato al rogo, una pena di morte prima decisa a tavolino e poi ratificata da una fatwa ad hoc che ha fatto inorridire l’influente ideologo jihadista Abû Muhammad al-Maqdisî.

 

Il Califfato di al-Baghdadi è certo una perversione. Ma è anche l’incarnazione della natura dell’Islam politico nella sua logica più estrema, laddove la religione si consuma fino a dissolversi nella guerra totale contro il nemico. Rinunciare una volta per tutte alla “chimera dello Stato islamico”[30], salverebbe tante vite, e salverebbe anche l’Islam.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis.

 

Note

[1] Amnesty International, Ethnic cleansing on a historic scale. The Islamic State systematic targeting of minorities in northern Iraq, p. 4. Il documento è disponibile all’indirizzo https://www.amnesty.org/en/documents/MDE14/011/2014/en/
[2] United Nations, Report of the Independent International Commission of Inquiry on the Syrian Arab Republic, Rule of Terror: Living under ISIS in Syria, http://www.refworld.org/pdfid/5469b2e14.pdf
[3] «Dabiq» n. 7, p. 20.
[4] Cfr. Hannah Arendt, The Origin of Totalitarianism, Harcourt, New York 1976, p. 464.
[5] Ibi, pp. 462-463, 465.
[6] «Dabiq» n. 7, pp. 20-25.
[7] «Dabiq» n. 4, p. 14.
[8] Pierre-Jean Luizard, Le piège Daech. L’État islamique ou le retour de l’histoire, La Découverte, Paris 2015, p. 166.
[9] Traduzione francese in André Ferré, Protégés ou Citoyens ?, «Islamochristiana» 22 (1996), 79-117, in particolare pp. 115-117. Il Patto di ‘Umar è in realtà probabilmente successivo all’epoca dei Califfi Ben Guidati, si veda Arthur S. Tritton, The Caliphs and Their Non-Muslims Subjects. A Critical Study of the Covenant of ‘Umar, Humphrey Milford-Oxford University Press, London 1930.
[10] Cfr. Cole Bunzel, From Paper State to Caliphate. The Ideology of the Islamic State, The Brookings Project on U.S. Relations with the Islamic World, Analysis Paper n. 19 (marzo 2015), http://www.brookings.edu/~/media/research/files/papers/2015/03/ideology-of-islamic-state-bunzel/the-ideology-of-the-islamic-state.pdf.
[11] Il testo del documento si trova all’indirizzo http://justpaste.it/ejur.
[12] Andrew March e William McCants, Experts weigh in (part 3): How does ISIS approach Islamic Scripture?, http://www.brookings.edu/blogs/markaz/posts/2015/05/04-isis-scripture-march-dhimma.
[13] Luciano Pellicani, La rivoluzione cambogiana, in Id., Rivoluzione e totalitarismo, Marco Editore, Lungro di Cosenza 2004, p. 3.
[14] Cfr. Bishara Ebeid, Le relazioni con il non-musulmano nel radicalismo contemporaneo, in Andrea Plebani-Martino Diez (a cura di), La galassia fondamentalista. Tra jihad e partecipazione politica, Marsilio, Venezia 2015.
[15] Cfr. Marie-Thérèse Urvoy, La violence morale dans les Ahkâm ahl al-Dhimma d’Ibn Qayyim al-Jawiziyya, in Mohammad Ali Amir-Moezzi (a cura di) Islam: identité et altérité : hommage à Guy Monnot, o.p., Brepols, Turnhout 2013, pp. 411-418.
[16] Sulaymân Murâd, Limâdha yakrah Ibn Taymiyya Jabal Lubnân?, «Al-Safîr», 15 marzo 2014, http://m.assafir.com/content/1394850687821224900/NewOpinion. Sul livore anti-scitta e anti-cristiano di Ibn Taymiyya si veda anche Id., I frutti proibiti del monte Libano, «Oasis» 18 (2013), pp. 97-101.
[17] Andrew March e William McCants, Experts weigh in (part 3): How does ISIS approach Islamic Scripture.
[18] Cfr. Aryn Baker, Al-Qaeda Rebels in Syria Tell Christians to Pay Up or Die, «Time», 28 febbraio 2014, http://world.time.com/2014/02/28/al-qaeda-in-syria-extorts-christians/#ixzz2ucxuI4ld.
[19] «Dabiq» n. 7, p. 30-32.
[20] «Dabiq» 8, p. 14.
[21] Abû Qatâda li-l-Hayât: “Fard al-jizya fî Sûriya ghayr jâ’iz” wa u’ayyid mahl al-Jawlânî, «al-Hayât», 27 febbraio 2014, http://tinyurl.com/ouzym28
[22] Qâlû ‘an dawlat al-Baghdâdî. Aqwâl al-‘ulamâ’ al-‘âmilîn wa ahl al-ra’y al-mu‘tabarîn wa qâdat al-jihâd al-mayâmîn fî khawârij dawlat al-mâriqîn, pp. 50-51.
[23] Ibi, p. 81.
[24] Abû Muhammad al-‘Adnânî, Hadhâ wa‘d Allah, xxx.
[25] Ibid.
[26] Luciano Pellicani, Hitler e Lenin. I due volti del totalitarismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, p. 92.
[27] Ibi, p. 93.
[28] Massimo Borghesi, Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson: la fine dell’era costantiniana, Marietti 1820, Genova-Milano 2013, pp. 13-14.
[29] Ibid.
[30] Cfr. Martino Diez, La chimera di uno Stato per il Corano, «Oasis» 21 (2015), p. 130.