Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:09:02
Dal 25 al 27 gennaio 2016 Marrakech ha ospitato una conferenza internazionale che ha riunito circa trecento personalità provenienti da centoventi Paesi, musulmani soprattutto, ma anche dall’Europa e dagli Stati Uniti.
La conferenza è stata organizzata congiuntamente dal ministero marocchino degli Habous e degli Affari islamici e dal Forum per la Promozione della Pace nelle Società musulmane, una fondazione con sede negli Emirati Arabi Uniti diretta da Abdullah Bin Bayyah, professore mauritano di scienze islamiche e membro del “Consiglio europeo della Fatwa e della ricerca” vicino ai Fratelli Musulmani.
Il tema era “Il diritto delle minoranze religiose nel mondo islamico”. Al termine dei lavori, i partecipanti – ulema e pensatori musulmani – “sostenuti dai fratelli delle altre religioni” (effettivamente alcune personalità religiose cristiane sono state invitate: l’Arcivescovo di Rabat e la presidente della Chiesa evangelica in Marocco, per esempio) hanno redatto la
“Dichiarazione di Marrakech sui diritti delle minoranze religiose nel mondo islamico”.
Il testo promuovere
il rinnovamento, se non una vera e propria riforma, dei testi che disciplinano lo statuto delle minoranze non-musulmane nei Paesi a maggioranza musulmana.
I punti forti del testo
La prima parte ricorda “i principi universali e i valori fondanti (o consensuali) raccomandati dall’Islam”:
1. Il documento riconosce l’esistenza di
una sola e unica umanità e afferma che tale unità è stata voluta da Dio. Tutti gli esseri umani sono figli di un unico padre, Adamo (§1-3) [e di un’unica madre, Eva].
2. Una delle facoltà che caratterizza l’essere umano è
la libertà, ciò che implica la facoltà di scelta, in particolare per quanto concerne la religione (§2).
3. Uno dei fondamenti della società è
il principio di giustizia. Esso è una “norma di condotta per tutti gli esseri umani al fine di prevenire la tentazione dell’odio e della violenza” (§4).
4.
La pace è un valore privilegiato nell’Islam e dev’essere la finalità suprema della Legge sacra, la sharia (§5).
5. “L’Islam esorta a
essere caritatevoli e benevolenti verso gli altri, senza distinzioni” (§ 7), e il profeta Muhammad è stato inviato da Dio “come misericordia per i mondi” (§6).
La seconda parte del testo menziona la Carta di Medina come “riferimento per garantire i diritti alle minoranze religiose in terra d’Islam”. Già nella prima parte si ricorda che “la Legge islamica tiene al rispetto dei contratti, degli impegni e dei trattati” (§8) e che la carta di Medina fu “redatta dal profeta Muhammad come costituzione di una società multietnica e pluriconfessionale” (§9). Nonostante storicamente sia stata stipulata solo tra gli ebrei Bani Ouaf da un lato, e i musulmani e i loro alleati dall’altro essa resta un fatto eccezionale per l’epoca. In primo luogo “la sua visione universale dell’Uomo […] non menziona né minoranze né maggioranze ma rimanda all’idea dell’esistenza di diverse componenti all’interno di una sola nazione (in altri termini, i cittadini)” (§11a). In secondo luogo, questa carta non è stata la “conseguenza di guerre o lotte”, ma è “un contratto tra comunità che inizialmente vivevano in armonia e in pace” (§11b). Oggi questa carta potrebbe dunque “costituire per i musulmani un riferimento fondante per la cittadinanza”.
La terza e ultima parte vuole essere “un’esposizione dei fondamenti metodologici della posizione canonica sui diritti delle minoranze”. Si tratta, né più né meno, di fornire le regole per una buona esegesi dei testi fondativi dell’Islam.
La conclusione infine si presenta come un invito molteplice rivolto:
- agli ulema e ai pensatori musulmani affinché “s’impegnino in un percorso che punti a consolidare il principio di cittadinanza, che ingloba tutte le appartenenze”;
- alle istituzioni accademiche e ai magisteri perché “attuino revisioni coraggiose e responsabili dei manuali scolastici” al fine di “correggere le distorsioni” che incitano “all’estremismo e all’aggressività”, alimentano le guerre e i conflitti, e minano l’unità delle società;
- ai responsabili politici e ai decisori, affinché “prendano tutte le misure costituzionali, politiche e giuridiche necessarie per dare sostanza alla cittadinanza contrattuale” e sostengano “le iniziative volte a rafforzare i legami d’intesa e convivenza tra le comunità religiose che vivono in terra d’Islam”;
- agli intellettuali e agli attori della società civile, affinché favoriscano “la nascita di un’ampia corrente che renda giustizia alle minoranze religiose nelle società musulmane e suscitino una presa di coscienza dei loro diritti;
- alle diverse comunità religiose “unite dal legame nazionale”, affinché ricostruiscano “il passato ridando vita al patrimonio comune, e costruiscano ponti di fiducia, lontani dalle tentazioni della scomunica e della violenza”;
- alla comunità internazionale affinché promulghino “leggi che puniscano le offese alle religioni, le violazioni dei valori sacri e i discorsi che incitano all’odio e al razzismo”.
Che cosa pensare di questa dichiarazione?
Questa dichiarazione invita ad aprire un cantiere. Ma il lavoro vero e proprio non è ancora iniziato. Bisogna perciò aspettare per vedere se susciterà qualche effetto nelle società musulmane. Detto questo, il testo della dichiarazione è coraggioso e determinato. È coraggioso perché, superando secoli di lotte e incomprensioni, si colloca in una prospettiva contemporanea e in una dimensione “moderna”, quella della cittadinanza contrattuale, con la quale i membri della nazione sono posti sullo stesso piano di uguaglianza giuridica, e hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri, a prescindere dalla loro appartenenza religiosa.
Quanto al Marocco, nello spirito di questa dichiarazione, il re Mohammed VI nel corso del consiglio dei ministri che si è tenuto il 6 febbraio a Laayoune – dunque a una decina di giorni di distanza dalla conferenza, ha chiesto al governo di iniziare al più presto la
riforma dei programmi e dei manuali d’istruzione religiosa musulmana, materia obbligatoria nei corsi scolastici dal primo anno della scuola primaria alla maturità. È un segnale forte che fa ben sperare per il futuro.