I musulmani hanno elaborato nel corso della storia numerose concezioni di jihad. Ma una lettura unitaria del fenomeno è possibile grazie ai testi medievali
Ultimo aggiornamento: 28/06/2024 10:43:30
Pochi argomenti nell’Islam sono così controversi come il jihad. Già la traduzione del termine è disputata: se “sforzo” appare un filologismo di poca sostanza, pure “guerra santa” è criticabile. Non tanto per l’argomento, in sé debole, che per dire “guerra” l’arabo possieda altre parole come harb o qitâl, vocabolo quest’ultimo peraltro ben rappresentato nel lessico coranico. La “guerra santa” infatti è, agli occhi di chi la pratica, radicalmente diversa dal combattimento volgare, al punto da meritare un nome a sé: appunto per questo è “santa”. Piuttosto, la traduzione è inadeguata perché jihad è un’attività che investe tutta la persona del credente: non è solo un fatto esteriore, ma implica anche una disciplina interiore. Tutto considerato, non sarebbe fuori luogo tradurlo con “militanza”, termine un po’ desueto, ma che esprime meglio di altri un impegno su più livelli, compreso quello bellico.
Ogni antologia s’espone al rischio dell’arbitrarietà e questa non fa naturalmente eccezione. Criterio guida nella scelta è stato ricalcare il percorso proposto nell’attualità di questo numero dagli articoli di Afsaruddin e Terrier, rispettivamente per il mondo sunnita e sciita.
Innanzitutto viene presa in esame l’esegesi più antica di alcuni passi coranici, a cominciare da Muqâtil Ibn Sulaymân (m. 767) e dal suo tentativo di contestualizzare l’obbligo del combattimento legandolo ad alcuni momenti della vita di Muhammad. La stessa tendenza si riscontra anche nell’opinione “aberrante” – come s’esprimerebbero i giuristi medievali – del medinese ‘Atâ’, il quale avrebbe considerato l’obbligo del jihad come limitato alla sola generazione dei Compagni di Muhammad. Un’opinione allettante, ma che a dire il vero gli esegeti successivi – nomi di assoluto rilievo tra i commentatori coranici – demoliscono con argomentazioni non da poco: per Tabarî (m. 923) l’abrogazione di un versetto può venire solo da Dio, mentre per Râzî (m. 1209) gli imperativi divini sono assoluti. Wâhidî (m. 1076) addirittura interpreta differentemente le parole di ‘Atâ’: a suo avviso il medinese avrebbe voluto sottolineare come al tempo del Profeta il jihad fosse un obbligo in capo al singolo, mentre per i giuristi successivi esso diventa un dovere della collettività, nel senso che è sufficiente che qualcuno lo svolga a nome dell’intera comunità.
La discussione dei giuristi, esemplificata dal celeberrimo passo di Mâwardî (m. 1058) sugli obblighi del califfo, non si discosta molto da queste problematiche: natura comunitaria e non individuale del jihad, modalità di proclamazione e di esecuzione, possibilità di stipulare trattati con i non-musulmani, questioni di ripartizione del bottino. Spicca peraltro in al-Mâwardî l’inserimento del jihad in un quadro più ampio di buona amministrazione della cosa pubblica. Da questa lettura prenderà le mosse la scuola modernista, indirizzata a considerare questo istituto come analogo della guerra difensiva.
Ma se Mâwardî riflette anche un equilibrio momentaneamente raggiunto tra territori islamici e imperi non-musulmani, scandito da “tregue” che assomigliano sempre più a trattati di pace, lo storico ed esperto di tradizioni Ibn ‘Asâkir (m. 1176) vive e opera all’epoca delle Crociate, nel mezzo della guerra guerreggiata. Per mobilitare la Siria contro i franchi, Ibn ‘Asâkir, su incarico del principe Nûr al-Dîn (Noradino), raccoglie in un incendiario pamphlet 40 hadîth che incitano al jihad, sulla scia di autori precedenti come l’asceta-soldato Ibn al-Mubârak (m. 797). Rispetto alla faticosa casuistica dei giuristi precedenti, la formula letteraria adottata da Ibn ‘Asâkir è molto più immediata e spendibile sul piano propagandistico. Non a caso alcune di queste tradizioni ricorrono anche nella letteratura jihadista contemporanea.
La sconfitta militare patita dagli sciiti nei primi secoli dell’Islam li condusse, come mostra la tradizione attribuita al sesto imam Ja‘far al-Sâdiq (m. 765), a far uscire il jihad dalla storia, trasformandolo in un combattimento escatologico, una gigantesca Armageddon tra forze della luce e dell’ignoranza. L’altra opzione percorsa, in questo caso dalla società segreta dei Fratelli della Purità (X secolo), è quella della spiritualizzazione del jihad, inteso come combattimento dell’anima razionale contro le passioni. E impressiona constatare come in questo contesto ricompaia il fatidico racconto della Genesi, a cui i Fratelli della Purità fanno esplicita allusione (quasi un controcanto al testo di Guardini proposto nei classici cristiani).
Probabilmente dall’ambiente dello sciismo esoterico, che il teologo e mistico Ghazâlî (m. 1111) conosceva bene, l’immagine passa nella tradizione sunnita, attraverso le pagine dell’Ihyâ’, opera da molti considerata come la Summa dell’Islam. Ghazâlî procede verso la spiritualizzazione del precetto, per quanto senza mai rompere esplicitamente con le letture precedenti. Perché nella tradizione classica i molteplici significati del jihad, dalla guerra alla militanza alla lotta spirituale, più che opporsi si completano.
Il jihad degli esegeti
«Combattete coloro che vi combattono», commento di Muqâtil Ibn Sulaymân a 2,190-193
«Combattete sulla via di Dio coloro che vi combattono»: Dio proibì al Profeta e ai credenti di combattere nel recinto sacro della Mecca durante il mese sacro, tranne nel caso in cui fossero i politeisti a cominciare il combattimento. Mentre però il profeta e i suoi Compagni, in numero di 1400, stavano facendo il pellegrinaggio minore alla Mecca nel mese di Dhû l-Qa‘da dell’anno di Hudaybiyya [= 628 d.C.] e si trovavano in stato di consacrazione, i politeisti della Mecca li respinsero dal Sacro Tempio e iniziarono il combattimento. Allora Iddio diede il permesso di combattere dicendo: «Combattete sulla via di Dio coloro che vi combattono». «Ma non oltrepassate i limiti» cominciando a combattere nel mese sacro e nel recinto, perché questo sarebbe aggressione. «E Dio non ama gli eccessivi». […] Poi disse «Combatteteli dunque» ininterrottamente «fino a che non ci sia più scandalo» ovvero politeismo, finché essi professino l’unicità di Dio e non adorino altri che Lui. Si riferisce in modo specifico agli arabi pagani. (Muqâtil Ibn Sulaymân, Tafsîr, Mu’assasat al-târîkh al-‘arabî, Bayrût 2002, vol. 1, 167-168)
«V’è prescritta la guerra» (al-qitâl), un’opinione dissidente e la sua critica nei commenti di Tabarî, Wâhidî e Râzî
Tabarî: «V’è prescritta la guerra» (2, 216). Con questa parola Dio intende dire che “è un obbligo per voi la guerra”, cioè combattere i miscredenti, «anche se ciò possa spiacervi». Gli ulema si sono divisi su chi siano i destinatari dell’obbligo di combattere. Uno di essi ha affermato che con questa espressione sono designati i Compagni del Profeta in modo specifico e a esclusione degli altri. Ma questa è un’affermazione priva di significato, perché l’abrogazione delle norme viene da Dio, non dagli uomini. [….] Altri hanno detto: è un obbligo per ciascuno, finché ci siano abbastanza credenti a compierlo. In quel caso l’obbligo decade per gli altri musulmani, così come avviene per la preghiera ai funerali, la lavatura dei morti e la loro sepoltura. Questa è la posizione della generalità degli ulema e a nostro avviso è l’opinione corretta. (al-Tabarî, Jâmi‘ al-bayân ‘an ta’wîl ây al-Qur’ân, Mu’assasat al-Risâla, Bayrût 1994, vol. 1, p. 580-581)
Wâhidî: «V’è prescritta la guerra». ‘Atâ’ disse che con questa espressione Dio designa in modo specifico i Compagni del Profeta perché il combattimento, al tempo del Profeta, era un obbligo perentorio (farîda): non era lecito sottrarvisi quando il Profeta usciva in jihad contro un nemico. Il consenso oggi è che si tratti di un obbligo della collettività (fard kifâya). (al-Wâhidî al-Nîsâbûrî, al-Wasît fî tafsîr al-Qur’ân al-majîd, Dâr al-Kutub al-‘ilmiyya, Bayrût 1994, vol. 1, p. 319)
Râzî: «V’è prescritta la guerra». Sappi che il Profeta, per tutto il tempo in cui rimase alla Mecca, non fu autorizzato a combattere. Ma quando compì l’egira, gli venne dato il permesso di combattere i politeisti che lo combattevano. Poi gli fu dato il permesso di combattere i politeisti in modo generale, quindi Dio impose l’obbligo del jihad. Gli ulema hanno emesso opinioni divergenti su questo versetto. Un gruppo ha affermato che esso prescrive a tutti di combattere e si tramanda che Makhûl [al-Shamî] soleva giurare su Dio presso la Sacra Casa che partecipare alle spedizioni militari è un obbligo [assoluto]. Per Ibn ‘Umar e ‘Atâ’ invece questo versetto prescriverebbe di combattere ai Compagni del Profeta, unicamente a quel tempo. […] L’argomento di ‘Atâ’ è che la parola «è prescritto» implica un obbligo, ma che è sufficiente compierlo una volta soltanto, e che la parola «a voi» implica una delimitazione di questo discorso a coloro che vivevano a quel tempo. Ma noi ribattiamo che nel caso [analogo] delle parole «vi è prescritto il taglione» (2,178) e «vi è prescritto il digiuno» (2,188) la condizione di coloro che esistevano a quel tempo è identica a quella di coloro che sarebbero venuti dopo. (Fakhr al-Dîn al-Râzî, Mafâtîh al-Ghayb, Dâr al-Fikr, Bayrût 1981, vol. 6, p. 27)
Il jihad dei giuristi
Mâwardî. Dieci sono gli obblighi generali del califfo:
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Preservare la religione sui suoi fondamenti stabili e su quanto hanno convenuto i pii membri della prima comunità (salaf al-umma). Se spunta un innovatore o se una persona di dubbia reputazione devìa dal vero, il califfo gli fornirà le prove e gli mostrerà il giusto, punendolo secondo i diritti [divini] e secondo le pene che gli toccano, perché la religione sia protetta dai disordini e la comunità difesa dagli errori.
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Giudicare tra i litiganti e far cessare la rivalità tra i contendenti finché regni un’equità generale, e non vi siano più né oppresso né oppressore.
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Proteggere il Paese e difendere le donne in modo che la gente possa dedicarsi alle attività economiche e viaggiare sicura, senza rischio della vita o dei beni.
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Eseguire le pene prescritte dal Corano (hudûd) perché siano osservati gli interdetti dell’Altissimo e rispettati i diritti dei suoi servi, senza violazione o trasgressione.
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Fortificare le marche di confine con gli armamenti e la forza d’interdizione necessari perché non capiti che i nemici, sfruttando una disattenzione, compiano profanazioni o versino il sangue di un musulmano o di un non-musulmano con cui è stato stretto un patto.
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Condurre il jihad contro chi s’oppone all’Islam dopo essere stato invitato a convertirsi, finché questi si faccia musulmano o accetti la dhimma [ = “protezione” in cambio di un tributo] perché sia osservato il diritto dell’Altissimo di rendere la religione superiore a ogni altra.
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Raccogliere il bottino e le elemosine secondo quanto previsto dalla Legge con un testo esplicito o con un’interpretazione, senza ingiustizia né sopruso.
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Determinare le offerte e quanto deve andare nel Tesoro, senza eccesso né manchevolezza, e versarlo al momento opportuno, senza anticipo né ritardo.
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Nominare persone di fiducia e designare consiglieri validi per le province e i beni che affiderà loro, perché le province siano rette da persone competenti e i beni gestiti da amministratori fidati.
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Sovrintendere personalmente alle decisioni e alle situazioni, per reggere la comunità e proteggere la religione, senza far [eccessivo] affidamento sulle persone delegate. Nessun piacere o azione di culto potrà distoglierlo da questo obbligo, perché anche la persona più fidata può tradire e il miglior consigliere imbrogliare. Ha detto l’Altissimo: «O David! Noi t’abbiamo costituito Vicario[1] sulla terra, giudica dunque fra gli uomini secondo verità e non seguir la passione che ti travierebbe dalla Via di Dio» (38,26).
(al-Mâwardî, al-Ahkâm al-sultâniyya, Dâr Ibn Qutayba, al-Kuwayt 1989, p. 22-23)
Ibn ‘Asâkir
1. Sull’autorità di Abû Hurayra. Fu chiesto all’inviato di Dio: «Quale elemento della fede è il migliore?» «Credere in Dio». «E poi?» «Poi il jihâd sulla via di Dio». «E poi?» «Un pellegrinaggio ben accetto». – Trasmesso da Muslim nel suo Sahîh.
15. Sull’autorità di Abû Umâma. Eravamo usciti insieme all’Inviato di Dio in uno dei suoi squadroni quando un uomo passò accanto a una grotta in cui c’era un po’ d’acqua. Gli venne in mente di fermarsi in quella grotta, nutrendosi di quel poco d’acqua che c’era e dell’erba che poteva raccogliere d’intorno, rinunciando al mondo e si disse: «Andrò dal Profeta e gli dirò che cosa mi è venuto in mente. Se me lo permetterà, lo farò; altrimenti non lo farò». Andò dunque dal Profeta e gli disse: «O Profeta di Dio, sono passato accanto a una grotta in cui c’è dell’acqua con cui mi potrei sostentare e dell’erba e mi è venuto in mente di restare lì e rinunciare al mondo». E il Profeta risposte: «Non sono stato inviato a portare l’Ebraismo o il Cristianesimo, ma sono stato mandato a portare il magnanimo Monoteismo. Per Colui che ha nelle Sue mani l’anima di Muhammad, in verità una spedizione mattutina o serale sul sentiero di Dio è migliore del mondo e di quanto è in esso e per ciascuno di voi tenere la posizione nei ranghi è migliore di sessant’anni di preghiere».
17. Sull’autorità di Abû Bakr Ibn ‘Abd Allâh. Ho sentito mio padre [Abû Mûsâ] dire, mentre stava davanti alle fila nemiche: «Ho sentito l’inviato di Dio dire: “Le porte del Paradiso sono all’ombra delle spade”. Allora un uomo della truppa, male in arnese, mi domandò: “Abû Mûsâ, sei sicuro che l’Inviato di Dio abbia detto proprio così?” “Sì”. L’uomo tornò dai suoi compagni e disse loro addio. Poi ruppe la custodia della spada e la gettò via, mosse contro il nemico con la spada e combatté finché fu ucciso». Trasmesso da Muslim.
40. Sull’autorità di ‘Utba Ibn ‘Abd al-Sulamî, Compagno del Profeta. L’Inviato di Dio disse: «I caduti sono di tre tipi. Il credente che milita sulla via di Dio con la sua persona e i suoi beni e che quando incontra il nemico lo combatte fino a restare ucciso. Questi è il martire provato: starà nella tenda di Dio sotto il Suo trono, inferiore ai profeti solo per il grado della profezia. Poi viene il credente che si separa dalle colpe e dai peccati, milita sulla via di Dio con la sua persona e i suoi beni e quando incontra il nemico combatte fino a restare ucciso. Quella purificazione cancella le sue colpe e i suoi peccati, poiché la spada cancella i peccati: entrerà in paradiso dalla porta che vorrà, poiché il paradiso ha otto porte, mentre l’inferno ne ha sette, una inferiore all’altra. Infine vi è l’ipocrita che milita sulla via di Dio con la sua persona e i suoi beni e che quando incontra il nemico combatte fino a restare ucciso. Questi starà nel Fuoco, perché la spada non annulla l’ipocrisia». (Ibn ‘Asâkir, al-‘Arba‘ûn fî l-hathth ‘alâ l-jihâd, ed. Suleiman A. Mourad e James E. Lindsday, The Intensification and Reorientation of Sunni Jihad Ideology in the Crusader Period, Brill, Leiden-Boston 2013, 134-183 passim)
Il jihad degli sciiti
(testi proposti e tradotti da Mathieu Terrier)
Jihad escatologico
Sull’autorità di Abân Ibn Taghlib, Abû ‘Abd Allâh [Ja‘far al-Sâdiq, il sesto imam] ha dichiarato: «Mi parve di scorgere il Redentore (al-Qâ’im)[2] sulla piana di Najaf[3]. Quando si levò nella piana di Najaf, salì in groppa a un cavallo nero, pezzato, con una macchia tra gli occhi. Il cavallo lo portò via con uno scossone e non restò alcun Paese del mondo i cui abitanti non pensassero che il Redentore fosse arrivato presso di loro. E quando spiegò al vento lo stendardo dell’Inviato di Dio, scesero su di lui tredicimila e tredici angeli, che attendevano tutti il Redentore. Erano con Noè nell’arca e con Abramo l’Amico di Dio quando fu gettato nel fuoco e con Gesù quando fu elevato al cielo. [Si unirono a loro] quattromila angeli «liberi a volo» e «accorrenti a schiere» (cfr. 3,125 e 8,9) e i trecentotredici angeli del giorno di Badr[4], e i quattromila angeli che planarono sulla terra per combattere con Husein figlio di ‘Alî, ma a cui non fu concesso di combattere. Risalirono allora al cielo per domandare il permesso, ma quando ridiscesero Husein era già stato ucciso. Da allora, con i capelli scarmigliati e coperti di polvere, essi piangono presso la tomba di Husein, fino al Giorno della Risurrezione. E lo spazio tra la tomba di Husein e il cielo è meta di pellegrinaggio per gli angeli». (Shaykh Sadûq [Ibn Bâbûyeh], Kamâl al-dîn wa tamâm al-ni‘ma, Mu’assasat al-A‘lamî li-l-matbû‘ât, Bayrût 2004, p. 609)
Jihad intellettuale
La natura e i suoi piaceri sensibili, lo sprofondarsi nel sonno degli ignoranti e nel torpore degli incuranti, sono l’albero a cui è vietato avvicinarsi e di cui non è permesso cibarsi. In questo l’anima razionale occupa il posto di Adamo e l’anima concupiscente quello di Iblîs [= il diavolo], l’ingannatore ingannato. Quando l’anima razionale si sottomette a quella irascibile, le presta ascolto e s’affretta a soddisfare le sue passioni, sprofondandosi nei piaceri e cadendo nel peccato, le luci intellettuali l’abbandonano, si manifesta la sua nudità, le sono tolte le vesti della pietà ed essa attira su di sé la punizione e l’obbrobrio. E come si dice che il più grande desiderio di Iblîs e la sua più forte risoluzione, quando s’accese contro Adamo, fosse di farlo cadere nel peccato perché gli venissero tolte le vesti e interrotti i benefici, di modo che il suo Signore s’adirasse con lui, identica è la condizione dell’anima concupiscente rispetto all’anima razionale. E per questo il Saggio Razionale e Veridico Profeta [Muhammad] ha dichiarato «Siamo tornati dal jihad minore per passare al jihad maggiore», intendendo con jihad minore il jihad della spada contro il nemico e l’avversario e con jihad maggiore la lotta delle anime razionali contro le anime concupiscenti e irascibili. (Ikhwân al-Safâ’, al-Risâla al-jâmi‘a, attribuita all’imâm nascosto Ahmad Ibn ‘Abd Allâh, Dâr al-Andalus, Bayrût 1984, p. 121)
L’allegoria di Ghazâlî
Sappi che il corpo è come una città e che l’intelletto umano – intendo l’intelletto percipiente – è come un re che vi sovrintende. Le forze percettive dei sensi esteriori e interiori sono come le sue truppe e le sue guardie, le membra come i sudditi e l’anima che istiga al male (cfr. Cor. 12,53), cioè la passione e l’irascibilità, è come un nemico che contende al re il suo regno e cerca di far morire i suoi sudditi.
Il corpo allora diventa come una fortezza (ribât)[5] situata in una marca di confine e l’anima come un soldato (murâbit) che vi risiede. Se il re conduce il jihad contro il suo nemico, se lo sconfigge e lo soggioga secondo quanto desidera, sarà lodato quando ritornerà in vita per comparire alla Presenza divina, come ha affermato Dio stesso: « […] e quelli che combattono sulla via di Dio con i loro beni e le loro anime[6], poiché Dio ha esaltato d’un grado coloro che combattono sulla via di Dio con i loro beni e le loro anime, sopra quelli che se ne restano in casa» (4,95). Se invece il re perde la regione che gli è stata affidata e trascura i sudditi, sarà rimproverato e di lui sarà tratta vendetta al cospetto dell’Altissimo. E il giorno della Risurrezione gli sarà detto: «O cattivo pastore, hai mangiato la carne e hai bevuto il latte, ma non hai dato rifugio all’errante e non hai soccorso il misero. Oggi io eseguo la vendetta su di te», come si trova nello hadîth. E a questo tipo di lotta ha alluso il Profeta dicendo: «Siamo tornati dal jihad minore per passare al jihad maggiore»[7]. (Abû Hâmid al-Ghazâlî, Ihyâ’ ‘ulûm al-dîn, Dâr al-Kutub al-‘ilmiyya, Bayrût , 20023, vol. 3 [al-muhlikât, Sharh ‘ajâ’ib al-qalb], p. 7).
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Note
[1] In arabo khalîfa, cioè appunto “califfo”
[2] Il “Risorto”, cioè l’Imam sciita nella sua manifestazione escatologica
[3] Città situata su una piana, da cui il suo nome, a 10 chilometri da Kufa in Iraq. È il luogo in cui, secondo la tradizione, fu sepolto il primo imam ‘Alî Ibn Abî Tâlib. Per questa ragione è uno dei principali luoghi di pellegrinaggio sciiti
[4] La prima battaglia combattuta dai musulmani nel 624, sotto la guida di Muhammad. Si risolse con una clamorosa vittoria, che il Corano attribuisce a un intervento angelico
[5] Il termine arabo ribât designa una fortezza-monastero, situata ai confini dei territori musulmani, dove risiedevano i sufi impegnati nel jihad militare contro gli infedeli. Chi vi risiedeva prendeva il nome di murâbit, termine da cui deriva il nome della dinastia maghrebino-andalusa degli Almoravidi (1055-1147) e il vocabolo “marabutto”, usato soprattutto nel Nord Africa per designare un “santo musulmano”
[6] O “con sé stessi”. Al-Ghazalî costruisce la sua esegesi del versetto sul fatto che in arabo la parola nafs, letteralmente “anima”, serve anche come pronome riflessivo
[7] Nota del curatore arabo: «Questo hadîth è riportato da Bayhaqî nel capitolo sull’ascetismo (zuhd) tra gli hadîth di Jâbir, con il seguente commento: “Questa catena di testimoni presenta delle debolezze”»