Il Sahel offre terreno fertile per la nascita di gruppi diversi di jihadisti, che grazie alla povertà diffusa e a confini porosi, facilmente reclutano combattenti

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Ultimo aggiornamento: 28/06/2024 10:34:38

Il Sahel offre terreno fertile per la nascita di gruppi diversi di jihadisti, che grazie alla povertà diffusa e a confini porosi, facilmente reclutano combattenti. Ma emergono anche nuovi predicatori e movimenti musulmani che, tra collusioni con i terroristi e ideali democratici, determinano il futuro di questa regione.

 

La regione africana del Sahel è teatro dal 2003 di una significativa attività jihadista. Nel frattempo nuove voci musulmane, per lo più non violente, chiedono più spazio in campo politico. Alcune di queste voci appartengono a “islamisti” che si propongono di costruire degli Stati islamici, ma la maggioranza è costituita da attivisti musulmani che sperano di definire ed estendere lo spazio dei valori islamici nella vita pubblica.

 

I governi e le società del Sahel si trovano a dover rispondere a questi nuovi ampi movimenti islamici che cercano di “mediare il cambiamento sociale”[1] e, nello stesso tempo, a operare una distinzione tra questi movimenti e la frangia dei jihadisti violenti. Tra urbanizzazione e questioni nazionali irrisolte, nel Sahel la politica legata all’identità islamica sta diventando sempre più urgente e complessa.

 

I gruppi jihadisti nel Sahel comprendono sia movimenti autoctoni che organizzazioni che hanno esteso la propria influenza oltre il Nord Africa, ma le linee di demarcazione tra gli outsider e gli insider sono sfumate. Nata in Algeria, al-Qa’ida nel Maghreb islamico (AQMI) si è rivolta al Sahara dopo che le atrocità commesse negli anni ’90 durante la guerra civile algerina le avevano alienato la popolazione civile, e dopo essersi ritrovata ai margini delle amnistie e degli accordi politici che alla guerra civile hanno (quasi) messo fine nei primi anni 2000. AQMI ha operato per radicarsi nelle società del Sahara attraverso la predicazione, le relazioni commerciali e i matrimoni, e prendendo sul serio le rimostranze delle popolazioni locali, come quelle degli irredentisti Tuareg del Mali.

 

Il confine tra combattenti stranieri (foreign fighters) e militanti locali è sfumato, anche perché i jihadisti attraversano le frontiere con facilità. Lo dimostra il caso di Hamada Ould Khairou, mauritano nato intorno al 1970. Tra il 2005 e il 2006 Khairou è stato in prigione in Mauritania per diversi mesi, dopo essere rimasto coinvolto in un scontro violento presso una moschea. Fuggito in Mali, ha combattuto a fianco del leader di AQMI, Mokhtar Belmokhtar, prima che le autorità maliane lo arrestassero nel 2009. A quanto pare, Khairou è stato rilasciato nel 2010 nel quadro di uno scambio di prigionieri per la liberazione di un ostaggio francese ed è riapparso sulla scena nel 2011 come fondatore di un ramo di AQMI noto come Movimento per l’Unità e il Jihad in Africa occidentale (MUJWA), uno dei gruppi dominanti nel Mali settentrionale durante la crisi del 2012-2013. Queste carriere contrastate e transnazionali sono comuni tra i leader jihadisti nel Sahel.

 

Rapimenti, occupazioni, raid

 

Nel Sahel il jihadismo ha assunto tre forme principali, ciascuna delle quali trae profitto dai confini porosi, dall’incapacità dello Stato e dalla corruzione. In primo luogo i gruppi jihadisti, specialmente AQMI, hanno messo in piedi una redditizia economia dei sequestri. Secondo un’indagine condotta dal New York Times, tra il 2003 e il 2014 i governi europei hanno pagato ad AQMI almeno 91,5 milioni di dollari per il rilascio di ostaggi europei[2]. Diversi tentativi di liberare gli ostaggi con operazioni militari hanno avuto esiti disastrosi e nei casi in cui i governi si sono rifiutati di pagare i riscatti AQMI ha giustiziato gli ostaggi. I fatti lasciano pensare a una complicità intermittente, specialmente nel Mali pre-crisi, tra funzionari locali corrotti, oscuri intermediari e squadre di sequestratori[3].

 

In secondo luogo, i jihadisti si sono impadroniti opportunisticamente di alcuni territori. Nel Mali settentrionale il Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad (MNLA), gruppo separatista Tuareg, ha scatenato una ribellione nei primi mesi del 2012 dopo tre precedenti richieste d’indipendenza. I ribelli Tuareg presunti laici si sono impadroniti delle capitali della regione e delle zone circostanti, ma ne hanno ben presto perso il controllo a vantaggio di AQMI e di due gruppi alleati, un’organizzazione jihadista a guida Tuareg nota come Ansar al-Din e il MUJWA, la propaggine locale di AQMI. Questa coalizione jihadista ha suscitato l’indignazione di tutto il mondo con i suoi tentativi d’imporre con la forza la propria versione della fede e della moralità islamica, distruggendo le tombe degli shaykh sufi, amputando le mani delle persone accusate di furto e vietando la musica e lo sport. Eppure la visione jihadista del law and order è sembrata accendere un tiepido entusiasmo tra alcuni abitanti locali, esasperati dalle rapine e dagli stupri commessi dal MNLA[4]. All’inizio del 2013, l’operazione Serval condotta dai francesi ha smantellato il controllo jihadista del Mali settentrionale, ma da allora si ripetono attentati suicidi, mentre molti comandanti jihadisti sono ancora latitanti.

 

In terzo luogo i jihadisti hanno effettuato alcuni raid, spesso come ritorsione per le mosse adottate dai governi nel tentativo di schiacciarli. Alcune di queste azioni hanno avuto dimensioni e obiettivi molto considerevoli: quando nel gennaio 2013 la Francia ha lanciato l’operazione Serval, l’ex leader di AQMI, Mokhtar Belmokhtar, ha preso in ostaggio più di 800 persone nell’impianto di gas di Tigentourine in Algeria. Altri blitz sono serviti per contestare le politiche estere dei governi del Sahel: nel 2008 AQMI ha fatto esplodere alcune bombe vicino all’Ambasciata d’Israele in Mauritania e nel 2009 nei pressi dell’Ambasciata di Francia.

 

Nonostante la ricorrente retorica allarmista dei media internazionali sull’ascesa del jihadismo nel Sahel, le fortune dei jihadisti sono state altalenanti. Anche se il Sahara e il Sahel sono in un certo modo “porti sicuri” per i jihadisti, essi li espongono anche al rischio di essere localizzati e uccisi. I jihadisti trascorrono la maggior parte del loro tempo in fuga, e anche veterani come ‘Abd al-Hamid Abu Zayd, comandante di AQMI, morto sulle montagne del Mali settentrionale nel febbraio del 2013, possono ritrovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.

 

Risposte di forza o di conciliazione

 

I governi del Sahel hanno risposto al jihadismo sia con la forza che con la conciliazione. Per esempio, nel 2010-2011 la Mauritania ha dato la caccia ai jihadisti nel territorio del Mali e ha arrestato dozzine di sospetti militanti. Ma l’amministrazione dell’attuale Presidente mauritano, Mohamed Ould ‘Abd al-‘Aziz, ha anche organizzato sessioni di dialogo in cui studiosi musulmani rispettati cercano di “de-radicalizzare” i prigionieri sospettati di jihadismo. Periodicamente ‘Abd al-‘Aziz ha rilasciato alcuni prigionieri, tra cui l’ideologo jihadista Mohamed Salem Ould Mohamed Lemine al-Majlissi. Queste risposte miste al jihadismo sono un riflesso delle difficili valutazioni che i leader del Sahel devono compiere nel momento in cui gli elettorati locali chiedono sia sicurezza che libera espressione.

 

I governi del Sahel mancano inoltre della capacità di rispondere fino in fondo al jihadismo. Il Niger è un esempio emblematico: con una popolazione di oltre 17 milioni di persone, in crescita, e un PIL che nel 2012 ammontava a soli 6,6 miliardi di dollari, il Paese è molto impoverito. Convinto che alla base all’estremismo si trovi la povertà, il Presidente del Niger Mahamadou Issoufou ha istituito programmi nazionali per rafforzare la sicurezza e lo sviluppo in tutto il Paese. Le forze del Niger hanno rivendicato alcuni successi contro i jihadisti, tra cui l’arresto di alcuni presunti trafficanti di armi. Resta però che tre dei sei Paesi confinanti con il Niger (la Nigeria, la Libia e il Mali) alimentano flussi di profughi e sono fonte di minacce, mettendo in tal modo a dura prova le forze di sicurezza del Niger. Gli attacchi jihadisti hanno portato alla luce alcune debolezze: nel maggio 2013 i jihadisti hanno bombardato le città settentrionali di Arlit e Agadez e nel giugno 2013 alcuni presunti combattenti di AQMI e MUJWA sono evasi dalla prigione di Niamey. Il Niger allora ha chiesto aiuto a Washington e a Parigi, accogliendo i droni americani per la sorveglianza e le forze speciali francesi.

 

Le relazioni che il Niger intrattiene con le potenze occidentali evidenziano il ruolo degli outsider nei tentativi di rendere sicura la regione. Washington dedica più attenzione ai jihadisti di Afghanistan, Pakistan, Iraq, Siria e Yemen di quanta ne riservi al Sahel. Ma è da dieci anni che i policy-makers americani esprimono la loro preoccupazione per la presenza di un “arco d’instabilità” in Africa. I programmi statunitensi come la Trans-Saharan Counter-Terrorism Partnership (TSCTP di cui fanno parte tutti gli Stati del Sahel occidentale) hanno cercato di aumentare la capacità degli eserciti del Sahel e del Nord Africa di garantire la sicurezza. Dopo il collasso del Mali però, i critici hanno messo in dubbio l’efficacia del TSCTP. Parigi intanto ritiene che nel Sahel siano in gioco interessi vitali, che vanno dalla stabilità delle ex colonie all’accesso delle società francesi all’uranio del Niger. Nel 2013-2014 il Presidente francese Francois Holland si è impegnato in prima persona nelle questioni saheliane, estendendo il raggio d’azione della Francia nella regione al suo vicino anglofono, cioè la Nigeria.

 

Il ruolo della Nigeria nel Sahel è complesso, così come lo è quello di due altre potenze confinanti, l’Algeria e il Marocco. Gli Stati settentrionali della Nigeria fanno culturalmente e religiosamente parte del Sahel. Con le sue grandi risorse e la sua popolazione, la Nigeria potrebbe potenzialmente agire da garante della sicurezza regionale, un ruolo che ha già svolto negli anni ’90 e 2000 nelle crisi dei Paesi dell’Africa costiera. Tuttavia nella prima decade del 2000 alcuni problemi interni hanno limitato la supremazia nigeriana e contribuito ad accrescere i mali del Sahel. Un movimento autoctono violento, Boko Haram, ha seminato il caos nella Nigeria nordorientale, bombardato Abuja e Lagos e compiuto rapimenti in Nigeria e Camerun. Le forze di sicurezza nigeriane hanno fatto ricorso a tattiche brutali contro i civili e contro sospetti militanti di Boko Haram, ma non sono riusciti a fermare il movimento o a prevederne le scelte tattiche, in continuo mutamento. I governi del Sahel, preoccupati che la violenza di Boko Haram potesse avere ripercussioni anche sul loro territorio, non solo non hanno ricevuto alcun aiuto decisivo da parte della Nigeria, ma si sono trovati a dover premere sulle autorità nigeriane perché s’impegnassero più a fondo per risolvere il problema dei loro jihadisti.

 

Anche l’Algeria e il Marocco si sono impegnati per la stabilità del Sahel, non ultimo perché questi due Paesi sono tutt’ora in contrasto sullo status del Sahara occidentale, rivendicato dal Marocco. Questa spaccatura ha fatto sì che ciascun Paese perseguisse la propria politica nel Sahel. L’Algeria, guidata dal Presidente malato ‘Abd al-‘Aziz Bouteflika, ha svolto un ruolo ambivalente durante la crisi del Mali, nonostante AQMI riaffiori periodicamente nel nord del Paese[5]. L’Algeria ha promosso la cooperazione regionale (escludendo il Marocco) con iniziative come l’istituzione di un comando congiunto nella città di Tamanrasset, nell’Algeria meridionale. Nel 2014 Algeri ha ripreso il suo storico ruolo di mediatore tra il governo del Mali e i separatisti Tuareg, ma ha continuato a sottrarsi alla piena responsabilità di leader della sicurezza regionale.

Il Marocco nel frattempo si è impegnato diplomaticamente e religiosamente. Nel 2014 il re Muhammad VI e il Presidente del Mali Ibrahim Boubacar Keita si sono scambiati visite ufficiali e il Marocco ha iniziato a “formare” gli imam maliani. Cercando in parte di conquistare i leader dell’Africa sub-sahariana alla sua posizione circa il conflitto nel Sahara occidentale, il Marocco si è presentato come nemico dell’estremismo nella regione[6]. Ma mentre il Marocco e altri attori sono in competizione per disegnare la traiettoria religiosa del Sahel, nuove voci musulmane rivendicano la guida religiosa.

 

Nuovi predicatori di successo

 

Solo una frangia dei musulmani del Sahel abbraccia il jihadismo. Tuttavia bisogna guardarsi dal ridurre le società saheliane a due soli poli: i leader tradizionali e sufi da un lato e i salafiti e i jihadisti dall’altro, con in mezzo una massa di giovani in bilico. Al contrario, le società del Sahel ospitano reti sempre più complesse di movimenti islamici. Gli islamisti organizzati in macchine politiche come quella dei Fratelli musulmani sono rari, al di fuori della Mauritania. Piuttosto, molti dei nuovi movimenti musulmani del Sahel provano a imporre una moralità pubblica. È nei loro sforzi di mobilitazione del pubblico musulmano e, a volte, nei loro rapporti ambigui con i jihadisti, che sta prendendo forma il futuro della vita politica musulmana nella regione.

 

La vita associativa musulmana nel Sahel è andata diversificandosi di pari passo con i tentativi di democratizzazione. Mentre negli anni ’80 a parlare in nome dell’Islam erano solo alcuni organismi ufficiali per ogni Paese – per esempio l’Associazione maliana per l’Unità e il Progresso dell’Islam, l’Associazione islamica del Niger, e l’Associazione culturale islamica della Mauritania – gli ultimi vent’anni hanno visto una proliferazione di nuovi gruppi. In Mali e in Niger si è registrata negli anni ’90 un’esplosione di associazioni e media musulmani in seguito alla liberalizzazione concessa dai dittatori militari. In Mauritania la dittatura militare è durata fino agli anni 2000, ma il primo governo civile, quello del Presidente Sidi Ould Cheikh Abdallahi (2007-2008), ha legalizzato un partito apertamente islamista, Tewassoul. Oltre a nuove associazioni locali, il Sahel è diventato meta di organizzazioni caritatevoli islamiche globali, che hanno costruito moschee, fondato scuole e guidato la predicazione.

 

Nel Sahel l’urbanizzazione e la crescita demografica hanno fornito alle nuove organizzazioni islamiche migliaia di membri, spesso radicati nelle città. La proliferazione di moschee urbane, a volte incoraggiata dallo Stato com’è accaduto per molto tempo in Mauritania, ha prodotto una “frammentazione dell’autorità sacrale”, permettendo a nuovi predicatori, spesso giovani, di contendersi i seguaci. L’ascesa di figure come lo shaykh mauritano Muhammad al-Hasan Ould Dedew e lo shaykh maliano Cherif Ousmane Madani Haidara mostra come i giovani predicatori con grande seguito e una presenza mediatica ben sviluppata stiano rimodellando lo stile e la sostanza della leadership musulmana nel Sahel.

 

Che cosa vogliono queste nuove voci? Esse sostengono un avanzamento nell’islamizzazione della vita pubblica e si oppongono a iniziative considerate secolarizzanti. Per esempio tra il 2009 e il 2012 le associazioni musulmane del Mali hanno unito le proprie forze riuscendo a bloccare le proposte di riforma del Codice di famiglia e hanno negoziato nuove riforme che non violassero quelli che gli attivisti musulmani consideravano criteri essenziali per il matrimonio, l’eredità e altre questioni. In Niger, nel 2000 le associazioni musulmane hanno organizzato grandi proteste a Niamey e Maradi contro il secondo Festival internazionale della moda africana, affermando che esso minava la moralità pubblica. In Mauritania gli attivisti di Tewassoul si sono opposti strenuamente al riconoscimento di Israele da parte del governo nel 1999 e le loro proteste hanno probabilmente contribuito alla decisione, dieci anni più tardi, di sospendere i rapporti con Israele. Gli attivisti musulmani del Sahel si sono dimostrati capaci di influenzare la politica del governo e di costruire un ampio consenso pubblico intorno ad alcune delle loro posizioni.

 

Talune nuove associazioni musulmane e alcuni leader hanno intrattenuto relazioni complesse con i jihadisti. Alcuni predicatori salafiti di spicco come Dedew in Mauritania e lo shaykh Mahmoud Dicko in Mali hanno denunciato i jihadisti, un fatto che può indebolire il messaggio di questi ultimi. Questi predicatori hanno anche cercato di coinvolgere i jihadisti in un dialogo, a volte con la benedizione o quanto meno il consenso dello Stato. Nel 2010 Dedew ha contribuito a guidare i dialoghi, patrocinati dal governo, con i sospetti jihadisti presenti nelle carceri e Dicko è stato in contatto con il leader jihadista Iyad Ag Ghaly dopo il collasso del Mali nel 2012. I frutti di questo dialogo non sempre sono chiari: alcuni detenuti mauritani che hanno partecipato alla “de-radicalizzazione”, in seguito si sono dimostrati recidivi e Dicko non è riuscito a mediare un accordo con Ag Ghaly. Ma questi contatti tra attivisti e jihadisti consentono di mantenere aperto il dialogo anche quando i governi mettono in atto misure severe contro i jihadisti.

 

A volte, tra i movimenti di attivisti musulmani e i circoli jihadisti si insinuano zone grigie. Si dice che il jihadista maliano Iyad Ag Ghaly, noto per una giovinezza “empia”, sia diventato più devoto e si sia convertito al jihad dopo essere entrato in contatto con i missionari del movimento di predicazione quietista Tabligh Jama’at[7]. Queste influenze tuttavia sono difficili da monitorare. I governi del Sahel a volte hanno difficoltà a distinguere i predicatori non-violenti dai jihadisti armati. Queste difficoltà possono avere gravi ripercussioni: al culmine della crisi del Mali i soldati maliani hanno ucciso sedici membri disarmati di Tabligh Jama’at, alcuni dei quali mauritani, generando tensioni tra i due Paesi. In Nigeria le critiche a Boko Haram da parte musulmana non hanno sempre trovato una sponda favorevole nello Stato: dopo essersi espresso contro Boko Haram, il predicatore Muhammad Auwal Albani Zaria è stato arrestato nel 2011 con l’accusa di favoreggiamento del gruppo. Boko Haram l’ha assassinato nel 2014.

 

Il modo in cui le società e i governi del Sahel gestiscono i delicati rapporti tra gli attivisti musulmani tradizionali, i jihadisti e lo Stato avrà conseguenze profonde sul futuro della regione. Nonostante la tradizione di un secolarismo d’ispirazione francese o “laïcité”, gli Stati e i politici del Sahel considerano vantaggioso prestare ascolto alle voci degli attivisti musulmani e favorire la loro partecipazione costruttiva alla vita pubblica per limitare la possibilità di reclutamento dei jihadisti.

 

Nel Sahel la popolazione è in crescita, il cambiamento climatico è sempre più rapido, e la povertà aumenta. Quasi ogni anno la regione fa i conti con devastanti ondate di carestia e siccità. Nonostante la paura del terrorismo occupi le prime pagine dei giornali e preoccupi i politici delle capitali, i “problemi di sicurezza” che la maggior parte dei saheliani deve affrontare sono legati al cibo e al lavoro. La politica dell’identità islamica s’interseca con questa lotta per soddisfare i bisogni fondamentali. La pace e l’emarginazione delle voci jihadiste richiederanno perciò una soluzione a due problemi impellenti: come sopravvivere e come essere musulmani.

 

Bibliografia essenziale

Baz Lecocq, Jean Sebastian Lecocq, Disputed Desert: Decolonisation, Competing Nationalisms and Tuareg Rebellions in Northern Mali in Afrika-Studiecentrum series, Brill, Leiden 2010.

Zekeria Ould Ahmed Salem, Prêcher dans le désert: islam politique et changement social en Mauritanie, Karthala, Paris 2013.

Benjamin F. Soares, Islam and The Prayer Economy. History and Authority in a Malian Town, Ann Arbor, University of Michigan Press 2005.

Abdoulaye Sounaye, Muslim Critics of Secularism: Ulama and Democratization in Niger, Lambert Academic Publishing, 2010.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

[1] Ousmane Kane, Muslim Modernity in Postcolonial Nigeria: A Study of the Society for the Removal and Reinstatement of Tradition, Brill, Leiden 2003, 2.
[2] Rukmini Callimachi, Paying Ransoms, Europe Bankrolls Qaeda Terror, «New York Times», 29 luglio 2014. Disponibile su http://www.nytimes.com/2014/07/30/world/africa/ransoming-citizens-europe-becomes-al-qaedas-patron.html?_r=0; consultato nell’agosto 2014.
[3] Wolfram Lacher, “Organized Crime and Conflict in the Sahel-Sahara Region”, Carnegie Endowment for International Peace, settembre 2012. Disponibile su http://carnegieendowment.org/files/sahel_sahara.pdf; consultato nell’agosto 2014.
[4] Julius Cavendish, Mali’s Fog of War: Refugees Tell of Terror, Hunger and Rape, in «Time», 30 aprile 2012. Disponibile su http://world.time.com/2012/04/30/malis-fog-of-war-refugees-tell-of-terror-hunger-and-rape/; consultato nell’agosto 2014.
[5] Andrew Lebovich, AQIM Returns in Force in Northern Algeria, «CTC Sentinel», 26 settembre 2011. Disponibile su https://www.ctc.usma.edu/posts/aqim-returns-in-force-in-northern-algeria; consultato nell’agosto 2014.
[6] Ann Wainscott, Morocco Steps Up Leadership in Religious and Security Affairs in West Africa, «Islamicommentary», 16 marzo 2014. Disponibile su http://islamicommentary.org/2014/03/morocco-steps-up-leadership-in-religious-and-security-affairs-in-w-africa/; consultato nell’agosto 2014.
[7] Laurent Touchard, Baba Ahmed, Cherif Ouazani, Iyad Ag Ghali: Rebelle dans l’âme, «Jeune Afrique», 2 ottobre 2012. Disponibile su http://www.jeuneafrique.com/Articles/Dossier/JA2698p024-033.xml11/mali-terrorisme-mouammar-kadhafi-mplamali-iyad-ag-ghali-rebelle-dans-l-ame.html; consultato nell’agosto 2014.