Cerchiamo di rispondere alle domande sul binomio fondamentalismo islamico e violenza, cercando di approfondirne la complessità e le sfaccettature
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:10:03
Introduzione di Andrea Plebani al volume La galassia fondamentalista tra jihad armato e partecipazione politica, edito da Marsilio.
I tragici attentati degli ultimi mesi, rivendicati da alcune delle sigle più estreme della galassia islamica fondamentalista, hanno portato ancora una volta sotto i riflettori la drammatica attualità di fenomeni che in Occidente, e soprattutto all’interno del contesto europeo, fatichiamo non solo a comprendere, ma anche a concepire. Certo non si è trattato di nulla di nuovo – al-Qaida prima e il sedicente Stato Islamico poi hanno fatto della reificazione e della reiterazione quasi standardizzata della violenza uno dei loro tratti più distintivi – ma, per la prima volta dai tempi degli attacchi di Madrid (2004) e di Londra (2005), il pericolo pare non più localizzato in teatri diversi e distanti (posto che Siria e Iraq, ma anche Libia, Tunisia ed Egitto possano essere considerati lontani), ma radicato tra le pieghe delle nostre stesse società, come hanno drammaticamente rivelato gli attentati di Parigi del gennaio 2015 e i fatti che ne sono seguiti.
A lasciare sgomenti, però, non è solo la vicinanza della minaccia, ma anche la sua completa alterità rispetto a un mondo, il nostro, che tende a rimuovere la violenza, tanto da porla ai margini dei propri orizzonti cognitivi. Quella che per decenni è stata ritenuta una conquista pagata a caro prezzo dai padri dei nostri padri si è rivelata un’arma a doppio taglio: di fronte alla brutalità di formazioni che fanno proprio della violenza e del terrore le loro risorse principali ci siamo ritrovati spiazzati e impotenti. Quasi che la massima sovente attribuita a Osama bin Laden, «Noi amiamo la morte più di quanto voi amiate la vita», fosse divenuta la realtà ineluttabile di un conflitto asimmetrico che, almeno su questo piano, vede il trionfo del contendente teoricamente più debole.
È questa una componente di quella «cultura della paura» descritta dallo studioso francese Dominique Moïsi nella sua Geopolitica delle emozioni. Essa si esprime principalmente sul piano della sicurezza, ma si estende anche agli ambiti socio-politico, culturale e identitario, come ben dimostrato dalla crescente ostilità nei confronti di tutto ciò che è “altro” o “diverso” – in una riedizione del concetto greco di barbarie che manca, però, di quel nucleo identitario originario che ne costituiva il motore immobile. Un timore che ci attanaglia, immobilizzandoci in cicli temporali di brevissima durata, che lasciano spazio all’indignazione e al rigetto, ma che lì si esauriscono per poi riattivarsi col puntuale riemergere di nuovi attentati, in questo modo non aggiungendo nulla alla comprensione di fenomeni che sfuggono a visioni manichee e rigidi schematismi, assumendo forme e dinamiche ben più complesse e sfaccettate di quanto i loro stessi sostenitori siano disposti ad ammettere.
Al netto dei proclami inneggianti a una prossima caduta di Roma o degli attacchi che pure hanno insanguinato il nostro continente e i quadranti geopolitici a esso più vicini, infatti, il conflitto che sta divampando in questo primo quarto di secolo assume sempre più le forme di una lotta combattuta in massima parte all’interno del mondo islamico. Una lotta che è emersa in tutta la sua intensità con il collasso di equilibri e strutture che hanno a lungo dominato quello che sempre più sovente è indicato, non a caso, come «arco di crisi mediorientale» e che costituisce il cuore pulsante della Dâr al-Islâm. Basti pensare, a tal proposito, alle cosiddette «primavere arabe» con i loro strascichi tuttora ben lungi dall’essersi esauriti, o agli effetti destabilizzanti provocati dalla caduta del regime di Saddam Hussein in Iraq.
Avvenimenti, questi, che hanno contribuito a liberare forze e tensioni che hanno covato a lungo sotto le ceneri di ideologie totalitarie ormai prive di ogni contatto con la realtà. La ripresa di formazioni a diverso titolo facenti parte della galassia del fondamentalismo islamico, infatti, è legata a doppio filo proprio al fallimento delle alternative esistenti (o, meglio, delle loro caricature rappresentate dai regimi totalitari dell’area), e a un ritorno del religioso dalle radici profonde, ben rappresentato dallo slogan «l’Islam è la soluzione». Un assunto divenuto un vero e proprio mantra tanto per quelle realtà ascrivibili al campo moderato (categoria scivolosa ma utile, in questo caso, per identificare quei movimenti che hanno accettato la via democratica denunciando il ricorso alla violenza) quanto per le formazioni eversive resesi responsabili di episodi di una violenza così efferata da causare sdegno e rifiuto in primo luogo all’interno della stessa umma. Alla luce di tali dinamiche, categorie come fondamentalismo, radicalismo, islamismo e jihadismo diventano etichette del tutto inadeguate a descrivere fenomeni così complessi, finendo col favorire una serie di visioni dicotomiche che non possono far altro che alimentare l’odio e la rabbia nei confronti dell’“altro”, di cui al-Qaida e ancora più il sedicente Stato Islamico sono l’espressione più evidente.
È in questo contesto che si colloca il principio ispiratore di questo volume: cercare di dare risposta ad alcuni dei principali interrogativi che circondano il binomio fondamentalismo islamico e violenza, attraverso una prospettiva multidisciplinare che possa restituire un quadro di insieme a una complessità che non può essere negata, ma che nemmeno deve essere usata come scusa per evitare di immergersi in una realtà troppo spesso considerata come un monolite privo di sfaccettature. Nata nell’ambito del progetto Conoscere il meticciato, governare il cambiamento promosso dalla Fondazione Internazionale Oasis grazie al sostegno di Fondazione Cariplo, questa iniziativa ha riunito un team di ricercatori provenienti da contesti e background disciplinari differenti per riflettere su tematiche che sono parte integrante del processo di meticciato di civiltà caratteristico delle odierne società plurali.
Un tema, questo, che si è deciso di articolare in tre macro-aree distinte, eppur fortemente interconnesse, che costituiscono i principi ispiratori dei capitoli nei quali è suddiviso il volume: Il richiamo del fondamento; Islam politico e Stato moderno; Il jihadismo contemporaneo: evoluzione e contromisure. Ad aprire l’analisi è il saggio di Paolo Monti, che presenta nella sua trattazione alcune prospettive filosofiche relative al posto che la violenza occupa all’interno della società e alle radici della convivenza civile. Si tratta di un saggio trasversale ai diversi temi trattati che spinge a riflettere su come la violenza costituisca un elemento intrinseco a ogni civiltà e presenti connessioni e linearità molto più significative di quanto si sia generalmente portati a considerare. Paolo Maggiolini, dal canto suo, esamina la questione della denominazione del fenomeno fondamentalista, evidenziando le difficoltà legate all’utilizzo di categorie interpretative importate o comunque parziali. La realtà del fondamentalismo islamico rifugge schematismi e classificazioni e ha nella sua profonda differenziazione e nella sua costante evoluzione le sue cifre distintive.
Nella sua trattazione sulle origini del jihad e sulle sue diverse interpretazioni, Ines Peta tocca uno dei temi più dibattuti e meno conosciuti dei nostri giorni. Mettendo a confronto le tesi di alcuni dei principali studiosi dell’argomento, il contributo mira a esaminare la natura polisemica del termine jihad, ponendolo al centro di uno spettro interpretativo che ha ai suoi estremi lo sforzo pacifico sulla via di Dio e il conflitto armato. Due visioni apparentemente inconciliabili che spiegano la triste fama che circonda questo concetto nella nostra era. Caterina Roggero apre invece, con la sua analisi, il secondo capitolo dedicato al rapporto tra Islam politico e Stato. Nel suo contributo vengono prese in esame le complesse relazioni tra movimenti fondamentalisti, autorità costituite e il modello di Stato Islamico ideale. Quest’ultimo, pur rappresentando l’obiettivo ultimo a cui tutti i movimenti fondamentalisti tendono, assume forme e tratti profondamente diversi a seconda di quale formazione si prenda in considerazione.
Proprio per sottolineare questa pluralità d’interpretazioni, il saggio mette a confronto le posizioni di alcuni dei principali attori del campo fondamentalista maghrebino con le tesi espresse da alcuni tra gli ideologi che più hanno influenzato le formazioni estremiste vicine a IS e ad al-Qaida. Il capitolo prosegue con il contributo di Eugenio Dacrema, che mette a confronto gli attori più importanti del salafismo e dell’Islam politico in Egitto e in Tunisia, ricorrendo a un’innovativa prospettiva socio-economica. Ancorando fenomeni tradizionalmente studiati dal punto di vista eminentemente religioso o politico alle loro constituencies di riferimento, lo studio fornisce un punto di vista in grado di spiegare molte delle dinamiche e delle peculiarità che animano realtà affini, ma distinte e spesso segnate da una marcata conflittualità. L’analisi realizzata da Marco Demichelis prende in esame le profonde trasformazioni che hanno investito il movimento wahhabita e l’Arabia Saudita nel corso degli ultimi ottant’anni, concentrandosi sui processi che hanno portato la monarchia saudita a divenire il punto di riferimento principale di un mondo salafita complesso e sfaccettato. Bishara Ebeid concentra la sua analisi sulle posizioni assunte dai gruppi fondamentalisti in merito alle relazioni con quanti non sono parte della umma islamica.
Per far ciò, egli seleziona i testi e le posizioni assunte da alcuni dei teorici e degli esponenti di maggior rilievo tanto dei Fratelli Musulmani (considerati come emblema dell’area moderata dell’universo fondamentalista), quanto di quelle aree più estreme vicine alle posizioni di al-Qaida e del sedicente Stato Islamico, accostandole alle fonti del diritto islamico a cui essi fanno esplicito riferimento. La terza parte del volume, infine, si concentra sull’evoluzione della galassia jihadista e sulle possibili misure da adottare per limitarne la minaccia. In questo contesto, Jean-Pierre Filiu analizza il processo evolutivo che ha portato alla nascita dell’auto-proclamato Stato Islamico, descrivendone origini, modus operandi ed evoluzione in un percorso che sin dal principio ha palesato una marcata discrasia rispetto alle forme e alle modalità proprie di al-Qaida. Nel suo contributo, Marco Arnaboldi si concentra su uno dei fenomeni mediatici associati all’ascesa di IS che più hanno attratto l’attenzione degli analisti e dell’opinione pubblica: il magazine online Dabiq. L’analisi presenta tanto l’impianto stilistico assunto dalla rivista quanto i concetti-cardine veicolati dal movimento attraverso un canale di comunicazione espressamente pensato per raggiungere sostenitori estranei ai tradizionali outlet in lingua araba.
Tra globale e locale, il saggio di Viviana Premazzi e Stella Coglievina presenta, attraverso un puntuale lavoro di analisi sul campo, le posizioni assunte da alcuni dei rappresentanti di maggior rilievo dell’Islam in Italia in merito ai massacri perpetrati da IS e dai movimenti a esso più prossimi e le contromisure adottate per evitare processi di fascinazione ed emulazione in particolare via web. Il saggio di Lorenzo Vidino, infine, chiude il volume proponendo una serie di misure da adottare nei confronti di una minaccia jihadista che assume contorni sempre più seri per il nostro Paese. Dopo aver esaminato alcuni tra i programmi più rilevanti adottati in Europa e non solo, l’autore concentra la propria analisi non tanto sui progetti di recupero, quanto su una serie di provvedimenti espressamente pensati per interrompere il processo di radicalizzazione mentre è ancora ai suoi inizi.
La sfida infatti che il jihadismo pone – ed è questa una convinzione che percorre tutto il volume – è innanzitutto culturale e di civiltà. È prima di tutto su questo piano che occorrerà cercare una risposta.
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