L’intervento americano in Iraq ha avviato un’imponente riorganizzazione degli equilibri mediorientali, innescando una lotta tra diverse comunità religiose ed etniche. Il processo è continuato in Siria
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:55:38
Intervista con Joshua Landis realizzata ad Arezzo il 10 aprile 2018 da Martino Diez.
L’intervento americano in Iraq ha avviato un’imponente riorganizzazione degli equilibri mediorientali, innescando una lotta tra diverse comunità religiose ed etniche. Il processo è continuato in Siria, dove i sunniti, sottostimando la natura regionale del conflitto, si sono illusi di poter rovesciare il regime di Bashar al-Assad in forza della loro schiacciante superiorità demografica. Tra i grandi sconfitti ci sono anche i cristiani, che, a differenza degli alawiti o dei curdi, non sono una minoranza compatta.
Martino Diez - Parlando di crisi e rinnovamento nel Sunnismo, la Siria è un argomento inevitabile. Subito però un’obiezione preliminare: secondo molti, l’elemento religioso o confessionale sarebbe secondario, un sottoprodotto delle politiche del governo, che puntavano a reprimere la rivolta, delegittimandola a livello internazionale e dividendo l’opposizione al suo interno.
Joshua Landis - È il classico problema dell’uovo e della gallina. Tutte le parti in Siria hanno usato la religione in modo molto politico per cercare appoggi e sostenere la loro posizione. Ma una questione religiosa esiste, altrimenti non avrebbe potuto essere strumentalizzata. È un circolo vizioso ed è difficile stabilire dove comincia. Ovviamente stiamo parlando di politica e di uomini che usano tutto ciò di cui dispongono, che sia l’appartenenza etnica, la povertà, le differenze di classe o i pregiudizi, per combattere una battaglia politica. Tuttavia, la questione religiosa è di estrema importanza e proprio per questo in troppi hanno tentato di occultarla. In Siria è stato un tabù per decenni, da quando è salito al potere l’attuale regime baathista proclamando che le identità religiose, tribali, regionali e subnazionali erano ormai bandite e che la nuova nazione araba non le avrebbe tollerate. Tutto ciò che sapeva di interessi comunitari e tribali era feudale, retrogrado e doveva essere estirpato. Ad esempio, negli anni ’40 e ’50 la montagna alawita divenne nota come “montagna costiera” e il Jabal al-Drūz (“la montagna dei drusi”) fu rinominato Jabal al-‘Arab (“la montagna degli arabi”). Queste mosse sono estremamente emblematiche, dal momento che i drusi, come gli alawiti, sono normalmente accusati di essere majūs, “persiani, zoroastriani”. Chiamando il Jabal al-Drūz “la montagna degli arabi”, i drusi stavano esibendo le loro credenziali in un universo nazionalistico.
Logo del partito Baath
MD - Come definirebbe la politica religiosa degli Assad, sia padre che figlio, prima delle rivolte? Il Baath iniziò con un programma piuttosto laico, ma Assad si mise ben presto alla testa di un “movimento correttivo”, che tra le altre cose cercò di trovare un modus vivendi con le religioni.
JL - La questione religiosa è sempre stata centrale in Siria, benché in alcuni periodi sia stata più importante che in altri. Può essere utile riandare per un attimo a un periodo precedente agli Assad. Quando nel 1920 arrivarono i francesi, iniziarono a fare dei censimenti, e scoprirono che in nessuna città di più di 2000 persone sunniti e alawiti vivevano insieme. C’era una forte segregazione demografica. Nel 1945 a Damasco vivevano 400 alawiti e ancora meno ad Aleppo. C’era davvero poca conoscenza reciproca, e gli alawiti erano percepiti come servi, in particolare le giovani ragazze che venivano prese a servizio dalle famiglie sunnite. Le principali città costiere, che sono oggi a maggioranza alawita, come Lattakia, Jableh, Tartous e Banyas, a quel tempo erano tutte sunnite, con una piccola minoranza cristiana che viveva all’interno delle mura della città vecchia. L’ascesa degli alawiti dal fondo della società siriana fino al suo vertice è stata repentina e ha cambiato la natura comunitaria della Siria generando un forte risentimento tra i siriani sunniti. Tutto il mondo ottomano era sunnita e secondo il pregiudizio sunnita gli sciiti erano una forma deviante d’Islam, fortemente influenzata dalla rabbia e dal risentimento persiani contro i conquistatori arabi. I sunniti più fondamentalisti, come Ibn Taymiyya, vedevano nello Sciismo, e in particolar modo nelle sue comunità eterodosse come gli alawiti, i drusi e gli ismailiti, una cospirazione interna all’Islam.
MD - Nel suo libro A History of the ‘Alawis Stefan Winter mette in discussione questa visione attraverso una ricerca d’archivio.
JL - Winter fa un buon lavoro mostrando come in varie epoche storiche gli alawiti abbiano ricoperto posizioni importanti o si siano presentati nei tribunali islamici, cose che non avrebbero dovuto fare stando alla segregazione vigente. Ma il successo di alcuni alawiti nell’Impero ottomano fu l’eccezione che conferma la regola della loro impotenza. Gli ottomani non hanno mai incluso gli alawiti tra i musulmani. Non li hanno mai pienamente integrati come cittadini. Ci fu un tentativo alla fine dell’Impero di creare una cittadinanza ottomana e di ridefinirla al di fuori di un’identità religiosa dinastica. In questo contesto gli alawiti e i drusi furono ribattezzati le “comunità perdute”. Era un’espressione più delicata di “miscredenti” o “apostati”, come erano di solito chiamati, ma rimanevano comunque “perduti”. Continuarono ad essere accusati di “estremismo religioso”, ghuluww.
MD - E questo non solo da parte sunnita. Anche gli sciiti duodecimani li guardavano con sospetto ...
JL - Nel 1947, quattordici alawiti ottennero delle borse per studiare a Kerbala. Abbiamo i diari di alcuni di loro, e sono molto amari. Furono costretti al ghasal al-tawba, a lavarsi le vesti, una cerimonia di purificazione che preludeva alla conversione. Ma siccome questi alawiti si consideravano buoni musulmani, non vollero convertirsi e, alla fine, nessuno di loro si diplomò a Kerbala a causa dell’atteggiamento denigratorio assunto dagli sciiti duodecimani.
Fu solo negli anni ’70, con Musa al-Sadr, che fu emessa la prima fatwa sciita duodecimana in cui si dichiarava che gli alawiti erano musulmani. Molte persone nutrono ancora dubbi su questa fatwa, perché in quel momento Assad era già potente e gli sciiti si stavano coalizzando. In ogni caso, un’ampia corrente dell’Islam non li riconosce come musulmani. Perciò, quando nel 1967 Hafez al-Assad arriva al potere, si trova di fronte a un dilemma. La Costituzione siriana afferma all’articolo 3 che il presidente dev’essere musulmano. Gli alawiti sono musulmani? Il primo istinto di Assad fu di eliminare l’articolo 3, in conformità con il principio di laicità, ma questo scatenò grandi manifestazioni, da Aleppo fino a Damasco, che respingevano questa iniziativa come un attacco all’identità siriana. Hafez al-Assad tornò sui suoi passi, reinserendo l’articolo 3 nella Costituzione, ma allo stesso tempo dichiarò che gli alawiti erano musulmani. La maggior parte del clero sunnita non ci credeva, ma dal momento che era il presidente e aveva dietro di sé l’esercito, si piegò al suo volere.
Non appena scoppiò la rivolta nel 2011, la maggior parte delle milizie prese a chiamare queste persone nusayrī, kuffār (“miscredenti”), rawāfid (“negazionisti”), al-nizām al-majūsī (“il regime zoroastriano”)... Il linguaggio della rivolta suggeriva che gli alawiti fossero apostati e che contro di loro fosse obbligatorio muovere il jihad, anche più violentemente che contro i miscredenti, perché i miscredenti possono non conoscere l’Islam, mentre queste persone lo conoscono, hanno letto il Corano, eppure... Nulla di nuovo in tutto questo: negli anni ’50 e ’60, una corrente importante all’interno dei Fratelli Musulmani sosteneva che gli alawiti fossero apostati e un bersaglio legittimo del jihad. Dal punto di vista intellettuale era questo lo spirito che animava la Talī‘a muqātila, l’ala della Fratellanza che insorse contro Assad alla fine degli anni ’70 e che guidò la rivolta di Hama del 1982, a cui seguì una repressione molto brutale.
MD - Hafez al-Assad era un settario?
JL - Sì, Assad aveva, per così dire, un modo di governare trasparentemente ipocrita. Da un lato, proibiva qualsiasi riferimento al confessionalismo e brandiva la bandiera del nazionalismo arabo, affermando che le divisioni tra i siriani erano responsabili delle varie occupazioni straniere subite dal Paese (ottomani, francesi ...). Allo stesso tempo, però, si aggrappava al comunitarismo, perché prima degli anni ’70 la Siria era stata la repubblica delle banane del mondo arabo, con una ventina tra colpi di stato, falliti colpi di Stato o purghe, in una girandola di governi. Quindi, l’unico modo per Assad di dare stabilità al proprio potere era ricorrere alle fedeltà tradizionali: prima di tutto la famiglia, poi gli amici e i collaboratori stretti, quindi le comunità religiose e infine il partito unico. Mise il fratello Rifaat al-Assad alla guida della sicurezza dello Stato, per vigilare su Damasco in modo che nessuna unità militare entrasse nella capitale per rovesciarlo, come era successo tante volte nei decenni precedenti. Bashar ha poi ripreso il copione del padre, lasciandolo pressoché invariato.
Poster con l'immagine di Hafez al-Assad
MD - Qual era esattamente la relazione di Bashar con il padre? Durante un soggiorno a Damasco, nel luglio 2008, ero rimasto colpito da un gigantesco manifesto di Hafez al-Assad che copriva gran parte della facciata del Ministero della Difesa. Ho avuto l’impressione che fosse un messaggio per Bashar da parte della vecchia guardia.
JL - Nel 2008 Bashar aveva già consolidato il potere. Nel 2005 aveva eliminato gli ultimi fedelissimi di suo padre, come ad esempio ‘Abd al-Halīm Khaddām, il vicepresidente. Usava l’immagine di suo padre perché gran parte della vecchia generazione lo ammirava e lo rispettava, mentre avevano dei dubbi su di lui. Bashar era timido e non era cresciuto nell’esercito. Nel 1994, quando dopo la morte del fratello era stato richiamato dai suoi studi di oftalmologia in Inghilterra, era stato spedito in Libano per essere temprato, come una sorta di scuola di addestramento militare, perché se sai gestire il Libano, puoi farcela anche con la Siria. Ma ha sempre avuto un lato leggermente indeciso e la gente non era sicura che fosse davvero abbastanza duro. Mantenere la gigantografia di suo padre era importante come segno di continuità.
A quel tempo, le repubbliche mediorientali stavano tutte attraversando una crisi di legittimità e stavano cercando di diventare monarchie, perché la monarchia risolve il problema della successione e la normalizza. Non c’era nulla di strano nel tentativo di Bashar: tunisini, algerini, egiziani, tutti stavano cercando di perpetuare il potere della famiglia dominante evitando conflitti civili e garantendo stabilità. Altre persone, naturalmente, come ad esempio molti militari, avevano uno speciale interesse nel mantenere la famiglia Assad sul trono per continuare a mungere il resto del paese. Abbiamo elementi per pensare che il 70-80% del nucleo dei funzionari di alto grado fosse alawita, non solo nelle forze armate e nella sicurezza. Abbiamo testimonianze di persone del Ministero degli Esteri che hanno fatto defezione durante le rivolte, secondo le quali la grande maggioranza degli alti funzionari era alawita o appartenente alle altre minoranze e solo il 20% era sunnita. Questo modello si applicava a tutti i ministeri più sensibili. In 45 anni sono stati innumerevoli i casi di corruzione e clientelismo. Tutte le istituzioni dello Stato erano piene di lealisti, che provenissero dal partito Baath e avessero dunque una lealtà ideologica, o che facessero parte della comunità alawita, di altre minoranze o di comunità rurali sunnite. È stato questo a rendere difficile, sin dall’inizio, un cambio di regime senza collasso totale. È stato lo stesso con Saddam Hussein. Nel momento in cui fai fuori la classe dirigente, distruggi il Baath e riorganizzi il nocciolo duro dei grandi funzionari e le più alte cariche militari – come è successo con l’intervento americano a Baghdad – l’intero edificio crolla. Bisogna ricostruire lo Stato da capo, perché per sbarazzarti di Assad devi accettare il collasso del regime. Tutto lo Stato è costruito attorno alla lealtà verso il leader. È stato il dilemma dell’Iraq ed è, in una certa misura, il dilemma della Libia, benché nel Nord Africa non esista un comunitarismo religioso paragonabile alla Siria, all’Iraq o al Libano.
MD - L’atteggiamento della popolazione sunnita delle città è sorprendente. Per esempio ad Aleppo molti di loro sono rimasti fedeli al regime fino al 2012 inoltrato, più di un anno dopo l’inizio delle rivolte.
JL - La cooptazione dell’élite sunnita è stato uno dei maggiori successi del padre di Bashar. Durante l’insurrezione di Hama del 1982, gran parte del Paese era in rivolta. Ma a Damasco Assad si avvicinò al presidente della Camera di Commercio, Badr al-Dīn al-Shallāh, un importante uomo d’affari sunnita, e lo avvertì del pericolo che il Paese cadesse nelle mani dei fondamentalisti. «Se resti con me, ti ricompenserò». Ed è quello che ha fatto l’élite sunnita di Damasco. I sunniti videro negli alawiti una guardia pretoriana che avrebbe promosso i loro interessi e trovarono un’intesa con Assad.
MD - Anche molti ulema predicavano il quietismo.
JL - L’élite clericale sunnita che Assad si era coltivato, composta da curdi e figure tradizionali, sosteneva l’idea che gli ulema non dovessero intromettersi in politica e che la fitna, la discordia civile, andasse evitata a tutti i costi. Era un atteggiamento coerente con il pensiero politico sunnita tradizionale, elaborato nel IX e nel X secolo, quando con la decadenza del califfato abbaside i musulmani si erano trovati a fare i conti con problemi simili. Figure come Muhammad Sa‘īd Ramadān al-Būtī, che erano a capo delle istituzioni islamiche in Siria, rappresentavano questo atteggiamento tradizionale. Ma la loro legittimità fu gradualmente indebolita da un gruppo di nuove figure che li hanno accusati di essere corrotti e venduti. E questo ha portato all’assassinio di Būtī nel 2013 e a diversi tentativi di uccidere il Gran Mufti e altri chierici.
MD - Eppure anche lo hanbalismo e il salafismo erano di casa a Damasco...
JL - Certamente, tutto il salafismo del XIX secolo, che era molto modernista, ha avuto in Damasco un centro importante e David Commins ha scritto cose magnifiche al riguardo. Storicamente, la Siria è stata la culla di un Islam cosmopolita, a tendenza sufi, dalle molte confraternite, strettamente legate alla Turchia e all’Iraq del Nord e con un particolare “tocco” siriano. Questa miscela di sufismo, misticismo, eterodossia, neoplatonismo e vari filoni gnostici fa parte del patrimonio della Siria e la pretesa salafita che siano tutte importazioni straniere è semplicemente falsa. Ibn Taymiyya in realtà è solo una voce fra molte.
Al contempo, la Siria ha anche conosciuto una forma più dura di Islam fondamentalista e letteralista che non può essere attribuita interamente all’Arabia Saudita, come spesso fanno i liberali, sebbene sia stata ovviamente influenzata dal wahhabismo. Prendiamo il caso dei libri di testo siriani. Il libro di testo sull’Islam per la nona classe conteneva fino a poco tempo fa una sottosezione su atei e pagani e insegnava che l’unico modo di trattarli è convertirli o ucciderli. In un certo senso, quando l’ISIS ha conquistato gli yazidi del nord dell’Iraq, stava semplicemente applicando i libri di testo siriani della nona classe. Non avevano bisogno di rivolgersi al wahhabismo per schiavizzare e uccidere, bastava seguire il programma scolastico siriano.
Per fare un solo esempio, c’erano circa 14 villaggi drusi nei dintorni di Aleppo. Quando l’ISIS li ha conquistati, ha filmato i combattenti mentre costringevano gli abitanti a convertirsi e facevano saltare in aria i loro santuari. Fortunatamente l’ISIS è stata poi espulsa dalle milizie di al-Nusra, che si sono rivelate leggermente più tolleranti: anche loro hanno insistito perché i drusi si dichiarassero sunniti, ma non li hanno costretti a convertirsi e Jumblatt dal Libano ha potuto intercedere in loro favore. In ogni caso, la vita di queste minoranze, sotto i gruppi salafiti, era miserabile. Torniamo così a quella che ritengo essere la tesi fondamentale: benché ci siano stati alawiti di successo sotto l’Impero ottomano, il loro status non fu mai normalizzato e sono sempre stati visti come devianti. Quando la politica è caduta a pezzi, a causa del malgoverno, della siccità, di fattori economici e di tanto altro, tutte queste questioni teologiche sono tornate a galla e, siccome non c’era una soluzione a portata di mano, la guerra civile ha preso una piega sempre più comunitaria e confessionale. E naturalmente anche i sunniti hanno avuto la loro parte di responsabilità, quando hanno fatto appello ai jihadisti per cercare di vincere la guerra. Così, si sono riversati in Siria e in Iraq tra i 40.000 e i 50.000 combattenti stranieri e tra questi i migliori e i più addestrati erano gli uomini di al-Qaida. Di fatto, questi gruppi radicali hanno sbaragliato molto facilmente le milizie che gli Stati Uniti stavano cercando di mettere in piedi.
Un'immagine della città di Hama, dopo la repressione della rivolta da parte del regime [Wikimedia Commons]
MD - Questo errore di valutazione dal lato sunnita è stato compiuto più e più volte, in Iraq, nello Yemen e altrove. Prescindiamo per un attimo dalla situazione sul terreno e supponiamo che un giorno la guerra finisca. Ci sarà ancora un posto per i sunniti in Siria (o in Iraq, se è per questo)? Ci sono tentativi di ripensare positivamente lo statuto delle minoranze?
JL - Sono molto pessimista. La comunità sunnita, sia in Iraq che in Siria, è stata fatta a pezzi in ogni modo possibile e immaginabile. Se guardiamo alla geografia del mondo sunnita che si estende da Baghdad fino ad Aleppo, tutte le città sunnite, Ramadi, Mosul, Deir ez-Zor, Raqqa e Aleppo sono state distrutte. In Iraq, all’inizio gli Stati Uniti hanno parlato di condivisione del potere tra le diverse componenti della società irachena, ma non è stato così. L’America in realtà ha innescato quello che definisco il “grande rimescolamento”, la lotta tra diverse comunità religiose ed etniche per il primato. I curdi hanno ormai ampiamente raggiunto la loro indipendenza, non del tutto perché ancora dipendono da Baghdad per i soldi, ma hanno un proprio esercito, le proprie scuole, insegnano nella loro lingua etc. I sunniti iracheni sono stati il gruppo dominante durante l’Impero ottomano, la monarchia, il governo del Baath e di Saddam Hussein. Come risultato dell’intervento americano sono stati gettati in fondo alla società, mentre gli sciiti hanno scalato il vertice.
MD - Era voluto?
JL - No, credo che gli americani non avessero idea della realtà con cui avevano a che fare. Pensavano che una volta cacciato il tiranno cattivo le brave persone avrebbero trovato il modo di condividere il potere. Ho passato gli ultimi anni cercando di fare un paragone con quello che è successo all’Europa centrale nel XX secolo. Gli imperi ottomano, austro-ungarico, tedesco e russo erano tutti multi-etnici e multi-religiosi. Sono stati sostituiti, dopo la prima guerra mondiale, da una sfilza di nuovi Stati nazionali, dalla Polonia fino alla Palestina. Li chiamo la “classe del 1920”. Hanno tutti clamorosamente fallito. Nell’Europa centrale, tra il 1930 e il 1950, 34 milioni di persone sono state vittime di pulizia etnica. Il crollo degli imperi multietnici ha aperto la strada a un lungo e sanguinoso processo di costruzione nazionale.
MD - Eppure l’anomalia in Siria consiste nel fatto che è la minoranza che sta cercando di ricollocare la maggioranza. Non si può costruire uno Stato nazione attorno a una minoranza.
JL - Questo è il motivo per cui tutti si aspettavano che gli alawiti sarebbero stati spazzati via, dal momento che sono al massimo 3 milioni, mentre il 70% dei siriani sono sunniti arabi. Anche dopo che Assad aveva dimostrato di essere molto più forte di quanto tutti si aspettassero, i ribelli e tutte le figure dell’opposizione con cui ho sempre dibattuto hanno continuato a pensare che non fosse nella posizione di resistere. «Se riusciamo a prolungare la lotta ancora per cinque o sei anni, avremo ragione degli alawiti per sfinimento». Non è andata così. Perché? Perché questa non è una guerra nazionale. È una guerra regionale e tra Libano e Iraq ci sono più arabi sciiti che arabi sunniti. E naturalmente non sono stati solo i sunniti a invitare i jihadisti a entrare nel Paese. Anche gli sciiti hanno chiesto aiuto ai loro jihadisti, che sono molto meglio addestrati ed equipaggiati per combattere. Hezbollah è l’unica forza araba che ha cacciato Israele da un territorio. L’Iran si è coinvolto e l’Arabia Saudita e le altre potenze sunnite non sono state in grado di contrastare il suo primato militare. A quel punto, anche la Russia e l’America sono intervenute, ma l’Iran è riuscito a mobilitare molta più forza militare e l’impegno russo in Siria è stato molto superiore. In definitiva, si può dire che il regime di Assad ha amici di gran lunga migliori.
MD - Intende dire che se la crisi siriana fosse stata solo locale, i sunniti avrebbero probabilmente vinto nel lungo periodo?
JL - Nemmeno questo è chiaro. L’esercito siriano era forte e non ha disertato. Molte persone se ne sono andate, ma l’esercito come tale non si è dissolto e Assad è stato in grado di ricostruirlo. A mio parere, Assad avrebbe comunque vinto anche in uno scenario puramente siriano, perché se il Golfo non avesse inviato denaro e la Turchia non avesse dato ai ribelli un santuario da cui attaccare, questi sarebbero rimasti intrappolati all’interno del Paese sotto i colpi di un sofisticato esercito nazionale. Questa però è storia controfattuale, la verità è che non lo sappiamo realmente. Sappiamo invece che i ribelli si sono rivolti ai jihadisti e hanno ricevuto decine di miliardi dal Golfo, dalla Turchia, dagli Stati Uniti, dall’Europa, da ogni angolo del mondo, per prolungare la loro rivolta. L’estate 2013 è stata sotto molti aspetti il punto di svolta. Assad aveva appena perso Idlib e Jisr al-Shughur e i ribelli stavano facendo reali progressi sul terreno. A quel punto, la Russia è intervenuta per aiutare il suo cliente, mentre l’America ha cominciato a preoccuparsi per il ruolo delle milizie jihadiste.
MD - Quale sarà il destino dei rifugiati, specialmente quelli nell’Anatolia meridionale?
JL - Sappiamo che tra i 5 e i 6 milioni di persone hanno lasciato la Siria, la grande maggioranza è sunnita e la maggior parte di esse probabilmente non farà ritorno. La Siria è devastata, la situazione della sicurezza non è per niente stabilizzata, le persone non sanno se al loro ritorno saranno incarcerate e torturate, i posti di lavoro non esistono più... La maggior parte troverà un modo per rifarsi una vita fuori dalla Siria. Non c’è nulla di nuovo: è già successo ai membri dei Fratelli Musulmani e a ondate di immigrati, famiglie liberali benestanti che ormai da un secolo lasciano regolarmente la Siria. Si stima che 11 milioni di siriani vivano nel continente americano. È una cosa che accade da molto tempo.
MD - Ma la dimensione del fenomeno è diversa.
JL - Sì, è molto più grande. E lascerà un’eredità molto amara. Oggi la comunità sunnita in Siria è davvero devastata e ci vorrà molto tempo perché si rimetta in piedi.
MD - Questo cambiamento non sarebbe in realtà del tutto nuovo. La Siria ha oscillato molte volte nella sua storia. In origine era il baluardo della dinastia omayyade, poi è passata allo Sciismo, fino alla rinascita sunnita dell’XI-XII secolo.
JL - È una cosa a cui penso sempre. Non so abbastanza sulla Siria medievale, ma il paragone mi tenta, perché per molti versi gli sciiti nell’XI-XII secolo stavano avendo la meglio, specialmente nella Siria settentrionale, attorno ad Aleppo. Alla fine, però, furono sconfitti dai mamelucchi e in seguito dagli ottomani e la Siria divenne parte del mondo arabo sunnita. Nel Medio Oriente settentrionale la comunità sciita è oggi alla ricerca non solo dell’uguaglianza ma anche della supremazia, due cose di cui la maggior parte degli sciiti si è sentita privata per secoli. Per alcuni, la lotta consiste nel vendicarsi dei sunniti, per altri si tratta di ottenere pari diritti: c’è un lato amaro e un lato più conciliante. L’Iran ha strumentalizzato all’estremo questo atteggiamento. I sunniti, da parte loro, sono in crisi, perché i salafiti hanno affermato che l’unica via d’uscita era il jihad, ma hanno perso. Evidentemente, però, le élite sunnite continuano a giocare la carta della soluzione militare, come dimostrano le dichiarazioni di Muhammad Bin Salman in Arabia Saudita. Non si è riflettuto molto su che cosa sia andato storto e questo non sembra promettere nulla di buono. Analogamente, il modo in cui Assad tratta i ribelli sunniti non conosce accomodamenti. O meglio ci sono accomodamenti con le persone, ma non con i gruppi, ai quali non si riconosce di aver avanzato alcune rimostranze legittime.
MD - Come spiega allora la politica del regime di trasportare i jihadisti nella regione di Idlib?
JL - Idlib è solo una mossa temporanea e strategica. Il regime sapeva che queste persone non si sarebbero arrese a meno che non venisse lasciata loro una via d’uscita (e alcuni hanno combattuto comunque fino alla morte). Stavano tenendo in ostaggio la popolazione civile, usandola come scudi umani, la questione stava diventando imbarazzante a livello internazionale e Assad ha dovuto lasciarli andare. Ma per lui Idlib rappresenta solo una fase interlocutoria prima di espellerli in Turchia. Dal suo punto di vista, Ankara se lo meriterebbe, avendo finanziato e addestrato queste persone. Però la Turchia è un Paese potente e non ha intenzione di stare a guardare. Nella provincia di Idlib, a nord di Aleppo e ad Afrin, la Turchia ha iniziato a creare un cantone in cui questi gruppi ribelli possano rimanere e i rifugiati possano essere rispediti indietro, sotto il controllo di milizie turcomanne e arabe, sbarazzandosi allo stesso tempo del problema curdo. Ma è una questione molto delicata per la Turchia: come normalizzare al-Qaida e gli altri jihadisti?
MD - Lo è anche per la Russia, che pure afferma di essere in buoni rapporti con Assad, l’Iran e la Turchia. Idlib può essere una spina nel fianco.
JL - La Russia sta cercando un accomodamento. Continua a insistere sul rispetto dei confini sovrani della Siria, ma allo stesso tempo si sta piegando alle richieste turche su Idlib. Molti cominciano a pensare che una zona turca che va da Idlib a Jarablus non sarebbe forse l’esito peggiore. In termini di giustizia sociale potrebbe anche essere il meglio che si può fare. In questa ipotesi, questa striscia di confine finirebbe un giorno come Iskenderun (Alessandretta) e la provincia di Hatay, che divenne turca nel 1938. La maggior parte delle minoranze di quella zona, gli armeni e gli alawiti, si trasferirono in Siria, dove tra l’altro contribuirono a fondare il partito Baath (il suo primo teorico, Zakī al-Arsūzī, era di Iskenderun). Ma i sunniti rimasero perlopiù in Turchia, perché si consideravano parte di un più vasto mondo sunnita. Ciò vale anche per Idlib: c’erano 700 famiglie cristiane a Idlib e sono fuggite tutte in 24 ore. In un certo senso, anche per Assad un risultato simile non sarebbe la cosa peggiore, dal momento che Idlib è tradizionalmente una delle zone più povere del Paese e un focolaio d’attivismo dei Fratelli Musulmani. Se Assad dichiarasse di essere stato costretto dai suoi alleati ad accettare questa soluzione, nessuno obietterebbe o combatterebbe per riprendersi una provincia che oggi è al 100% araba sunnita. Ovviamente, direbbero che i turchi sono mostri etc., ma questa sistemazione risolverebbe un problema.
MD - Quali sono, a suo parere, le prospettive per i cristiani?
JL - Il “grande rimescolamento” è uno scenario cupo per tutte le minoranze, ma per i cristiani è stato devastante perché non sono una minoranza compatta, a differenza degli alawiti o dei curdi. Prima della guerra, i cristiani erano in gran parte urbanizzati, sparsi e relativamente ricchi. Erano molto vulnerabili e sono diventati un bersaglio. Non hanno formato le loro milizie, a parte alcune limitate eccezioni; non sono stati in grado di difendersi e sono stati costretti ad andarsene. Aleppo è l’esempio per eccellenza: la città aveva una considerevole minoranza cristiana, che alla fine della prima guerra mondiale ammontava al 20-25% della popolazione totale. Con l’indipendenza, la città cominciò a esplodere per l’afflusso di persone dai villaggi circostanti, che erano tutti sunniti. Questo sviluppo demografico fu accompagnato dalla riforma agraria sotto Nasser e dalla nazionalizzazione delle scuole sotto il partito Baath. Ben presto, l’élite partì per il Libano e altre destinazioni. Oggi la popolazione cristiana di Aleppo è probabilmente calata a meno del 3%. Per la Siria nel suo complesso, i cristiani costituivano circa il 14-15% della popolazione alla fine del mandato francese, ora sono circa il 3%. Ma non è un caso isolato in Medio Oriente. Il futuro è fosco.
MD - Crede che il fatto di non ricorrere alle milizie sia stato solo accidentale per i cristiani o si è trattato di una scelta deliberata?
JL - Non credo che la debolezza militare delle comunità cristiane sia stata ispirata dai passi pacifisti della Bibbia. A mio avviso, si tratta piuttosto di una combinazione di fattori, principalmente legati al fatto che i cristiani non sono compatti. Quando sono stati compatti, come nel Monte Libano, hanno formato delle milizie e combattuto strenuamente fino a quando non si sono ritrovati in una situazione di completa inferiorità numerica. E in molti casi, come nel 1976, è stato Hafez al-Assad a intervenire a salvarli, all’epoca in cui perseguiva anche in Libano la sua politica delle minoranze.
MD - In passato sono circolate voci sulla presunta vicinanza di Hafez al-Assad al Cristianesimo. C’è qualcosa di vero?
JL - Gli Assad non sono religiosi. Bashar non è neppure iniziato alla religione alawita, di cui sa molto poco. È cresciuto a Damasco, parla con un accento damasceno e molti alawiti in passato si sono lamentati del fatto che non ha mai fatto veramente parte della comunità. In generale, tuttavia, cristiani e alawiti condividono un complesso di minoranza, alcune festività (Pasqua, Natale) e, religiosamente, formano gruppi vicini. Quando gli alawiti sono saliti al potere, i cristiani li hanno visti come protettori. Assad è stato molto bravo a sfruttare questi elementi. Pensiamo al famoso numero di Vogue del marzo 2011, poco prima delle rivolte... Era dedicato a Asma al-Assad, “una rosa nel deserto”, ma la foto del pezzo centrale mostrava Bashar al-Assad in abiti civili, rilassato, in compagnia della sua bellissima moglie e con i bambini in pantaloncini che giocavano sotto l’albero di Natale. Questa era la visione di una Siria laica, avanzata, occidentalizzata che Bashar stava vendendo all’America. A seconda del contesto, il regime poteva evidenziare il suo atteggiamento laico o filo-cristiano. Per un po’ di tempo l’Occidente se l’è bevuta, divinizzando la lotta di Assad, che è stata, ovviamente, molto violenta.
La pagina di Vogue dedicata ad Asma al-Assad
MD - Che cosa è mancato di più agli Stati Uniti?
JL - L’America non ha capito la regione, non aveva idea di cosa stesse facendo quando ha dato avvio al “grande rimescolamento” rovesciando Stati brutali e autoritari, che non avevano un alto grado di legittimità, ma che stavano cercando di fare i conti con realtà fortemente disfunzionali. Togliere di mezzo lo Stato porta solo a un inasprimento delle guerre civili. In Iraq, alla fine si è rimesso insieme uno Stato, ma non è certo quello che l’America sperava, ed è molto filo-iraniano. C’è stato un terribile errore di calcolo, e ora siamo sull’orlo di un nuovo errore di calcolo. L’idea che l’America possa recuperare la propria posizione nella regione costruendo uno Stato curdo nel nord della Siria è un azzardo puro e semplice. Costerebbe enormi somme di denaro, dal momento che la base sociale è inesistente: le città, Deir ez-Zor e Raqqa, sono in rovina e tutto deve essere rifatto da zero. Come si può ricostruire la regione inimicandosi i vicini? Inoltre, gli arabi e i curdi nella regione non sono alleati naturali, ma aspri concorrenti, e tutti cercheranno di sfruttare queste differenze per far fallire il progetto. Sarà un compito quasi impossibile per l’America. Certo, l’America ha un debito con i curdi e ha una lunga storia d’amore con loro, addirittura dai tempi di Woodrow Wilson. Gli Stati Uniti possono proteggerli e aiutarli a ottenere più risorse, ma all’interno della Siria. Assad ha bisogno dei curdi per governare la Siria settentrionale e i curdi hanno bisogno di Assad. Ci vuole un accordo per la ripartizione del petrolio, dell’acqua, dell’agricoltura e del commercio. L’America potrebbe agevolare questo tipo di diplomazia, ma l’élite politica non ci sente.
MD - Per concludere, una nota più personale. È chiaro che per lei la guerra siriana non è solo un argomento accademico. Da dove viene il suo interesse per la Siria e il Medio Oriente?
JL - È una relazione che dura da una vita. Sono nato a New York, ma quando avevo un anno ci siamo trasferiti in Arabia Saudita, dove mio padre ha aperto la prima banca americana del Regno, una Citibank a Gedda nel 1958. Ho trascorso i miei primi quattro anni in Arabia Saudita, ai tempi in cui era solo uno scatolone di sabbia, anche se si stava sviluppando a grande velocità. Poi mi sono trasferito a Beirut fino al 1967, il Libano dei tempi d’oro. Da bambino, ho viaggiato in tutta la regione e questo ha posto le basi per il mio ritorno a Beirut dopo il college. Ho insegnato due anni presso l’International College, nello stesso campus dell’Università americana di Beirut. A quel tempo, il Libano stava vivendo la sua guerra civile. Ho iniziato a studiare seriamente l’arabo e nel 1981 ho ottenuto una borsa Fulbright per l’Università di Damasco – ero in Siria durante la rivolta di Hama, ho fatto il giro della città in macchina appena una settimana dopo la distruzione. Quell’anno tumultuoso, per me, è stato davvero un’esperienza fondamentale; era l’anno dell’invasione israeliana del Libano meridionale. Per molti aspetti, il 1982 ha prefigurato gli eventi del 2011. Più tardi, nel 2002, ho incontrato mia moglie Manar, che è alawita, su un autobus delle Nazioni Unite a Damasco. Ci siamo sposati sei mesi dopo e da quel momento sono tornato in Siria ogni estate. Ed è così che il mio rapporto con il Medio Oriente e la Siria è diventato sempre più personale. Il mio primo articolo dopo la rivolta, nel 2011, era intitolato “Perché è probabile che il regime di Assad sopravviva fino al 2013”. Sostenevo che il regime fosse molto più forte e l’opposizione molto più frammentata di quanto si credesse. Così facendo, cominciai a farmi molti nemici, in particolar modo tra l’opposizione siriana. Mi accusavano tutti di avere queste posizioni poiché ero sposato con un’alawita e esprimevano le loro critiche in termini molto confessionali. Certo, non c’è dubbio che l’essere alawita o sunnita influisca sul modo di guardare le cose; è difficile sfuggire a questo mondo di confessionalismi. Il conflitto siriano, come quello israelo-palestinese, alla fine ha in sé un certo livello di tribalismo, ma ci si può sforzare di mantenere una certa oggettività.
La mia risposta alla critica che mi è rivolta è che in realtà difendo queste idee da molto prima di sposare mia moglie. Ho scritto una lunga dissertazione sull’indipendenza della Siria e sui colpi di Stato militari, la cui tesi principale era che la Siria moderna non è in realtà una nazione. I sunniti non sono stati in grado di unificarla né su base nazionale né di classe, mentre l’esercito ha potuto fare i colpi di Stato perché i sunniti erano frammentati, non democratici e non applicavano la Costituzione. Questa ricerca ha influenzato la mia visione di come si sarebbe svolta la guerra civile. Ero convinto che la Siria non fosse radicalmente cambiata tra il 1950 e il 2011 e penso che i fatti mi abbiano dato ragione. L’opposizione sunnita è rimasta estremamente frammentata ed è finita dominata dai jihadisti. L’America non è riuscita a produrre un governo alternativo che potesse gestire il potere in Siria. Non è stata la mancanza di denaro. Se l’opposizione fosse stata unita e avesse presentato un fronte non fondamentalista, l’Occidente sarebbe stato pronto a sostenerlo. Questo per quanto riguarda la mia difesa di non confessionalità; ma mi sento intimamente coinvolto in questa regione che frequento da una vita e che ha lasciato su di me un segno indelebile.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Per citare questo articolo
Riferimento al formato cartaceo:
Joshua M. Landis, Il Medio Oriente al tempo del grande rimescolamento, «Oasis», anno XIV, n. 27, luglio 2018, pp. 65-78.
Riferimento al formato digitale:
Joshua M. Landis, Il Medio Oriente al tempo del grande rimescolamento, «Oasis» [online], pubblicato il 3 settembre 2018, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/joshua-landis-siria-sunnismo-rimescolamento-etnie.