La catechesi morale dell’Islam non si fonda tanto sulla trasmissione di principi astratti, quanto sulla conformazione all’esempio di Muhammad. Ecco perché suscitano tanta indignazione le critiche e soprattutto la satira indirizzati a questo modello
Ultimo aggiornamento: 21/12/2022 12:04:28
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Introducendo La morale del Profeta e le sue buone maniere, compilazione di hadīth di Abū al-Shaykh al-Isfahānī (m. 979), celebre storiografo e tradizionista persiano, il curatore Sālih al-Wanyān scrive parole che meritano attenzione, per l’orizzonte e i nodi che lasciano intravedere:
Ciò che più di tutto mi ha spinto a curare l’edizione di quest’opera è il fermo desiderio di servire la Sunna dell’Inviato di Dio, di contribuire alla sua conservazione […] in questo tempo in cui molti musulmani dimenticano che Dio ha detto: «Avete nell’Inviato di Dio un buon esempio, per chi spera in Dio e nell’Ultimo Giorno e fa spesso memoria di Dio» (Cor 33,21). Tra loro c’è chi giudica bene, chi rinuncia a imitare Muhammad in molte delle sue buone maniere, come la modestia nell’abbigliamento, nel cibo e nelle bevande, nel riposo e nella preghiera. Troviamo oggi chi addirittura induce coloro che seguono la Sunna ad astenersi in cose come mangiare e bere seduti, accorciare gli abiti sopra i calcagni, considerandolo radicalismo e un modo di alienare i non-musulmani dall’islam[1].
Centrale, in questo passaggio, è l’idea dell’etica come imitazione, atteggiamento che dà sostanza al comando coranico dell’obbedienza, a sua volta pietra di fondazione della religione: «Chi obbedisce all’Inviato ha obbedito a Dio» (Cor 4,80). È a partire da qui che si sviluppa l’idea secondo cui a una fonte di autorità strettamente scritturistica, che ha cioè forma di Libro, se ne accompagna una seconda rappresentata dai comportamenti del Profeta. Entrambe godono della sanzione divina di autenticità, quindi della capacità di normare la vita dei credenti. Il meccanismo dell’imitazione si riproduce poi a livello interpersonale, poiché l’obbedienza non specifica solo la natura di un rapporto individuale di soggezione gerarchica (a Dio e al Profeta), ma modella anche la rete delle relazioni orizzontali: il credente agisce in obbedienza alla Legge non solo in vista del giudizio che lo attende di fronte al tribunale di Dio, ma anche in ordine all’edificazione della comunità di fede cui appartiene.
L’obbedienza individuale esprime lealtà e solidarietà con una comunità che ha ricevuto la Legge: ogni suo membro manifesta cioè la sua appartenenza con comportamenti degni di essere imitati. L’obbedienza per imitazione è dunque centrale nell’identità etica del musulmano: “a chi voglio somigliare facendo ciò che faccio?”. L’obbedienza-esempio caratterizza il ruolo profetico (Cor 60,4), si concentra in modo apicale in Muhammad (Cor 33,21) e ha il suo opposto nell’imitazione dei costumi pagani degli avi, elemento coesivo dell’altra comunità, quella ostile al messaggio della predicazione (Cor 43,22-23), tematica di stringente attualità in tempo di globalizzazione. È sulla forza edificante dell’obbedienza individuale che verrà elaborata la dottrina secondo la quale è bene agire pubblicamente nell’adempimento degli obblighi cultuali (ar. farāʾid), per dare “buon esempio”, mentre in modo riservato vanno compiuti gli atti di pietà supererogatori (nawāfil), che espongono al pericolo dell’ostentazione (ar. riyāʾ), vizio aspramente riprovato (es. Cor 4,38 e 142).
Queste premesse danno ragione della produzione incessante di opere di catechesi morale basate, come nel caso del classico di Abū al-Shaykh al-Isfahānī, sulla narrazione delle “buone pratiche” del Profeta. Si tratta di una letteratura sterminata, di taglio agiografico, nella quale non fa ancora breccia il metodo storico-critico, al di fuori del sistema classico, che giudica l’attendibilità di una narrazione sulla base dell’affidabilità delle personalità che l’hanno tramandata[2]. Poco più di vent’anni fa un editore saudita ha dato alle stampe un’intera enciclopedia di “galateo muhammadiano”, dal titolo Splendore delizioso nelle eccellenti virtù del nobile Profeta. In dodici volumi vengono documentate 200 virtù o qualità positive della personalità di Muhammad e, a seguire, 161 vizi dai quali si è accuratamente guardato. Nell’introduzione al primo volume, l’editore ‘Abd al-Rahmān bin Mulawwih spiega che l’iniziativa si colloca sullo sfondo della crisi morale che i musulmani attraversano, proprio per la perdita di un aggancio saldo con gli esempi del Profeta.
L’opera compilativa, che intende essere strumento di consultazione indispensabile per l’attività di predicatori, insegnanti ed educatori, pone nella predilezione del Profeta il punto di partenza, citando un famoso hadīth: «Nessuno è credente sin quando non mi ama più di suo padre, di suo figlio e di chiunque altro». A questo testo, ben famigliare a chi legge i vangeli (cfr. Mt 10,37), va aggiunta l’attestazione divina della stoffa morale di Muhammad: «La tua indole e nobilissima» (Cor 68,4). Vi si può aggiungere un hadīth di auto-testimonianza, che funge da incipit di tutto questo genere letterario: «Sono stato inviato soltanto per completare le migliori virtù».
Se è questa l’impostazione della catechesi morale dell’Islam, fondata non tanto sulla trasmissione di principi astratti quanto su una persona da imitare, si può ben comprendere quale sgomento, indignazione, persino rabbia possano suscitare dubbi e critiche – peggio se nella forma della satira – all’indirizzo del Sacro Modello. Se ne ha espressione colta nell’apologia scritta da ‘Abdurrahman Badawi, uno dei maggiori intellettuali egiziani e arabi del XX secolo, contro «l’incredibile bordata di menzogne che gli autori bizantini ed europei hanno prodotto da 12 secoli»[3]. Tarif Khalidi, autore della più completa (e linguisticamente accessibile) sintesi sulle virtù di Muhammad nei vari ambiti pubblici e privati della sua vita, ha illustrato bene il nocciolo del problema:
Nel 2006 Muhammad è stato oggetto di una serie di vignette sulla stampa danese. Il furore causato da quell’incidente, come sempre in questi casi, ha operato l’oscuramento del nervo scoperto toccato da queste vignette. Mi riferisco al fatto che poco è stato detto circa l’amore per Muhammad da parte della sua comunità, mentre molto è stato detto sul rispetto delle credenze religiose versus il primato della libertà d’espressione. Al cuore di quell’incidente c’era l’amore per Muhammad, che «corre come sangue nelle vene della sua comunità», come dice Muhammad Iqbal[4].
Anche il Cristianesimo ha elaborato una dottrina della vita del credente come “imitazione di Cristo”, fiorita sia in Oriente che in Occidente, e di cui meriterebbe studiare i rapporti con l’imitazione di Muhammad nell’Islam. Ciò che balza all’occhio, nel confronto tra le fonti, è la sproporzione delle informazioni “pratiche” offerte per il secondo Modello: del “Muhammad della fede” si trasmette il modo di camminare e di sedere, di accogliere e congedare gli ospiti, di sbrigare le faccende di casa, di curare l’igiene intima, di mangiare e bere, di vestirsi e profumarsi, di ridere e parlare, eccetera. Il problema è la forza potenzialmente normativa di questi dettagli, dalla quale consegue la possibilità di giudizio su chi non vi si conforma, com’è il caso, segnalato all’inizio, di chi non accorcia i pantaloni sopra i calcagni.
Una tale centralità del Profeta dell’Islam consente di immaginare una vita da buon musulmano senza la mole di regole che giuristi e predicatori estraggono dalle raccolte di hadīth? È quanto propone una corrente quantitativamente trascurabile, ma meritevole d’interesse, quella dei cosiddetti “coranisti”, per i quali basta il Corano, autentica parola di Dio, mentre gli hadīth non sono che parole di uomini, spesso contraddittorie e redatte a grande distanza dalla morte di Muhammad. Tra i suoi fautori moderni ci sono l’indiano Syed Ahmad Khan (m. 1898), il pakistano Abdullah Chakralawi (m. 1916), l’egiziano Muhammad Tawfīq Sidqī (m. 1920), autore di un manifesto dal titolo eloquente: L’Islam è soltanto il Corano[5]. L’esponente attuale più noto è l’egiziano Ahmad Subhī Mansūr, che dopo rocambolesche vicende nel suo Paese (carcere incluso), ha ottenuto asilo politico negli Stati Uniti.
Alla fine del 2019 Islamweb, uno dei network islamici più attivi nella promozione a livello globale dell’Islam tradizionale, ha pubblicato un articolo di severa condanna di questa corrente, della quale ha ricondotto la prima apparizione «alla fine del XIX secolo dopo il colonialismo straniero occidentale in molti Paesi islamici»[6]. Questo collegamento mira chiaramente a interpretare il “coranismo” come un fenomeno essenzialmente esogeno all’Islam, addirittura un pezzo del “complotto occidentale” contro la religione della Mezzaluna. In realtà esso è parte inseparabile della storia dell’Islam, della tensione originaria tra i partigiani dell’opinione e quelli della tradizione. Nel suo testo più celebre (e contestato) Ahmad Subhī Mansūr traccia un confine tra il Rasūl, latore dell’unica e suprema rivelazione, il Corano, e il Nabī, persona di eccezionale levatura ma non immune da limiti e difetti, soprattutto figlia del suo tempo:
Nei suoi movimenti e rapporti molteplici il Profeta pronunciava parole e discorsi (ahādīth) legati alle condizioni di tempo e di luogo nelle quali furono pronunciati, condizioni impossibili a ripetersi nello stesso modo in qualsiasi epoca successiva, poiché è una storia passata, che è finita con la fine dei suoi eroi e la loro morte, e non ne rimane che l’ammonizione e l’esortazione […] Le parole del Profeta fuori della rivelazione coranica, scritte nella Sira dai Trasmettitori dopo la sua morte, sono storie che includono vero e falso, assolutamente non sono parte della Rivelazione[7].
Il contrasto tra le due posizioni non potrebbe essere più stridente: facendo qui valere il principio sola Scriptura, si libera i musulmani dalla presenza ingombrante di Muhammad, consentendo loro di adeguare la propria vita ai tempi che cambiano, ma esponendoli alle incognite dell’assenza di un saldo modello di riferimento. Per quella che sino ad oggi si è imposta come la visione ortodossa, gli esempi di Muhammad sono parte integrante della Rivelazione: la loro imitazione corrisponde al disegno di Dio e proietta ogni credente nella comunità carismatica delle origini. È un ancoraggio che al tempo stesso dà sicurezza e destabilizza nel rapporto con la modernità.
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