Processo allo Stato islamico, un'impossibilità e una contraddizione in termini

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Ultimo aggiornamento: 27/06/2024 11:54:28

Hallaq.jpgRecensione di Wael B. Hallaq, The Impossible State. Islam, Politics, and Modernity’s Moral Predicament, Columbia University Press, New York 2013

«Mi trovo in Iraq a condurre il jihad insieme ai miei fratelli per creare una patria per l’Islam e uno Stato per il Corano». Quest’affermazione di al-Zarqawi, il “padre” di ISIS, è soltanto l’ennesima riprova di una realtà che Wael Hallaq, tra i maggiori esperti mondiali di diritto islamico, riassume con ammirevole chiarezza: «I musulmani oggi, compresi i loro maggiori intellettuali, sono giunti a dare per scontato lo Stato moderno, accettandolo come una realtà naturale. Ritengono spesso non solo che esso sia sempre esistito lungo tutto il corso della loro storia, ma anche che sia ratificato niente meno che dal Corano stesso» (p. x). A fronte di questa concezione «la tesi di questo libro è piuttosto semplice: lo “Stato Islamico”, giudicato secondo qualsiasi definizione normale di che cosa lo Stato moderno rappresenti, è al tempo stesso un’impossibilità e una contraddizione in termini» (p. ix).

Hallaq non è il primo a notare questa contraddizione: Olivier Roy infatti era giunto a conclusioni analoghe nel suo L’échec de l’Islam politique (1992). Mentre però lo studioso francese aveva adottato un approccio prevalentemente sociologico interrogandosi su come funziona nella pratica un movimento islamista o jihadista, Hallaq imposta la questione in termini teorici. Cinque sono a suo avviso le forme-proprietà dello Stato moderno: la concezione della storia; una precisa metafisica della sovranità; il monopolio legislativo; l’apparato burocratico; e infine una posizione egemonica nell’ordine sociale. Capitolo dopo capitolo, ciascuna di queste forme-proprietà viene posta a confronto con il paradigma del diritto islamico classico, dimostrandone la reciproca incompatibilità.

La conclusione è anticipata nell’introduzione: «Siamo costretti a liquidare l’esperimento moderno nel mondo musulmano come un enorme fallimento politico e legale» (p. 2). Andrebbe peraltro precisato che fallimento teorico non significa minore pericolosità pratica. Semplicemente, lo Stato Islamico lascia dietro di sé montagne di rovine nel tentativo impossibile di realizzare se stesso. Sbaglierebbe tuttavia chi pensasse che il libro di Hallaq si limiti a una critica dell’Islam politico. Al contrario, l’Impossible State di cui parla il titolo è prima di tutto lo Stato frutto della modernità occidentale, sottoposta a serrata critica, in particolare attraverso l’uso di categorie foucaultiane. «L’Islam e la sua promessa di una forma di governo islamica non hanno il monopolio della crisi» (p. 198), poiché «i problemi più fondamentali dell’Islam moderno non sono esclusivamente islamici, ma sono di fatto ugualmente parte del progetto moderno, in Oriente e in Occidente» (p. 163).

Ma se la crisi è dunque globale, quale soluzione è possibile? Qui le cose si fanno meno chiare – e l’autore stesso lo riconosce francamente. Quello che è certo è che Hallaq non auspica un ritorno a un’età dell’oro premoderna, benché la Islamic governship evocata nel libro presenti più di un tratto idealizzato. Piuttosto, la proposta sembra consistere in uno sforzo di rifondazione etica della dimensione politica, liberata dall’utopico progetto dello Stato Islamico. Hallaq stabilisce un esplicito parallelo tra il suo tentativo e quello di autori come Taylor, MacIntyre e Larmore, con la differenza – naturalmente – che l’ispirazione per questa riforma morale dovrebbe venire al mondo musulmano non da Aristotele o Tommaso, ma da una più adeguata comprensione della sharî‘a.

L’autore tuttavia sembra cedere più di una volta al fascino dello Stato Etico, in cui certamente numerose distorsioni contemporanee sono corrette, ma a prezzo di una forte compressione delle libertà individuali (significativo il modo in cui l’autore minimizza il problema dell’apostasia nell’Islam classico). Anche la critica dell’umanesimo universalista a cui sono dedicate le ultime pagine risulta evidentemente contraddittoria rispetto all’appello al recupero della morale «come l’ambito centrale delle culture mondiali, a prescindere dalle varianti proprie delle diverse civiltà» (p. 169). E tuttavia, malgrado queste riserve, la proposta di Hallaq non perde di validità: «I musulmani e le loro élites intellettuali e politiche dovrebbero interpellare le controparti occidentali circa la necessità di rimettere al centro la dimensione morale, ciò che richiederebbe a sua volta ai musulmani di sviluppare un vocabolario che questi interlocutori possano comprendere» (p. 169). È il concetto di rilevanza culturale reciproca, che – inutile precisarlo – è sempre bidirezionale. 

 

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