Due scrittori, Charif Majdalani e Camille Ammoun, fanno i conti con il drammatico susseguirsi di eventi che nell’ultimo anno hanno travolto il piccolo Paese mediorientale, dalle proteste dell’autunno 2019 all’esplosione al porto di Beirut

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:32

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Charif Majdalani, Beyrouth 2020. Journal d’un effondrement; Camille Ammoun, Octobre Liban

 

Per permettere che testi nati in un determinato contesto e in un determinato luogo diventino patrimonio condiviso con altri contesti e altri luoghi del mondo bisogna attendere un certo numero di anni, anni necessari ai tempi lunghi della scrittura creativa cui si aggiungono quelli quasi altrettanto lunghi dell’editoria. A volte, però, il processo subisce brusche accelerazioni. Accade, di solito, quando un romanziere, confrontato con l’urgenza di riflettere – e di far riflettere – sul suo presente più attuale, sceglie di accantonare la forma e il linguaggio della narrativa di finzione per privilegiare generi ibridi che, sconfinando dalla letteratura tout court, spesso intersecano altre discipline e diventano, grazie alla loro natura trasversale, fruibili – e vendibili – a un pubblico più vasto. Oggi accade, per esempio, in Libano, Paese che, nel corso dell’ultimo anno, è stato travolto da un ininterrotto susseguirsi di avvenimenti destinati a segnare indelebilmente il destino della totalità della popolazione (dalle manifestazioni di piazza iniziate nell’ottobre 2019 contro la corruzione e il malgoverno dell’élite al potere fino all’esplosione, il 4 agosto, delle due tonnellate di nitrato di ammonio stoccate nel porto di Beirut, passando per la crisi sanitaria dovuta al dilagare del coronavirus e la bancarotta dello Stato dichiarata nel marzo di questo 2020, con la sua inevitabile ricaduta in termini di inflazione galoppante e di mostruosa svalutazione della moneta nazionale).

 

Ed è così che, nella prima settimana di ottobre, sono usciti – contemporaneamente in Francia e in Libano – due testi in originale francese, entrambi scritti da romanzieri di successo ma redatti in prima persona nella forma di un diario personale.

Il primo è Beyrouth 2020. Journal d’un effondrement[1] (“Beirut 2020. Diario di un collasso”) di Charif Majdalani, un libro che, nel giro di poco più di un mese, ha ricevuto la menzione speciale della giuria del prestigioso premio Femina.

 

Majdalani è forse il più noto dei romanzieri francofoni beirutini, anche se di lui in italiano si può leggere un unico titolo, La casa nel giardino degli aranci[2], incomprensibilmente passato sotto silenzio. Docente di letteratura francese all’Università Saint-Joseph, fondatore e presidente della Bayt al-kuttāb (Casa internazionale degli scrittori), autore di sette romanzi pubblicati con ottimi riscontri di pubblico e di critica dall’editore parigino Seuil, editorialista e commentatore di numerose testate giornalistiche arabofone e francofone di entrambe le rive del Mediterraneo, Majdalani può essere a buon titolo elevato a simbolo della borghesia libanese. Ed è in questa veste che si rappresenta in Beirut 2020, una cronaca quasi giornaliera che tiene dal primo di luglio al 19 di agosto di quest’anno nella quale, con la maestria dello scrittore navigato, descrive un cittadino agiato, marito e padre appagato, professionista affermato, uomo soddisfatto della sua vita, che si vede costretto a confrontarsi con le paure e le ansie che gli derivano dalle degradate condizioni economico-finanziarie in cui il suo Paese precipita: lo stipendio svalutato di sei volte, i conti correnti congelati da un sistema bancario imploso, l’elettricità e l’acqua che non vengono più garantite dallo Stato, il settore privato che prende il posto del pubblico, i negozi che chiudono uno dopo l’altro, la disoccupazione in continua crescita, la constatazione che la Seconda repubblica somiglia in modo spaventoso alla Prima, la precarietà del presente e la difficoltà di immaginarsi un futuro per sé e, soprattutto, per i suoi figli. Tutto questo, in poco più di un centinaio di pagine. Pagine scevre da qualsiasi accenno di vittimismo, pagine che grondano dignità, pagine in cui il lettore libanese – ma anche quello europeo, e qui, forse, risiede la forza salvifica dell’agile volumetto – si riconosce immediatamente. L’afflato empatico, via via che le pagine scorrono, si espande fino a culminare nella comprensione profonda di un altro umanissimo sentimento: la collera. In una sorta di filo conduttore di tutta la narrazione, la collera di Majdalani cresce, si fa parola sempre più tagliente nei riguardi dell’impunita casta di oligarchi che tiene in ostaggio il Paese. E, per quanto possibile, trova sfogo nella sua partecipazione attiva alle manifestazioni che si susseguono nelle piazze e nelle strade libanesi: «l’ultima volta, due settimane fa, c’eravamo, mia moglie e io, come sempre». Interi paragrafi sono dedicati alla descrizione della marea che, a partire dal 17 ottobre 2019, monta esponenzialmente in tutto il Paese. Poi il lockdown e, ai primi di agosto, l’esplosione del porto, urlata in poche pagine volutamente cacofoniche, e un vibrante omaggio alla «immensa gioventù che si è alzata come un sol uomo per incaricarsi di cancellare le tracce dell’incubo e per aiutare l’inizio della ricostruzione» e all’altrettanto immensa folla che, l’8 agosto, «ha invaso la vastissima piazza dei Martiri e i suoi dintorni […] per gridare il suo odio nei riguardi dell’insieme della classe politica».

 

La collera, così come l’inossidabile determinazione e il per quanto flebile barlume di speranza presenti in Beyrouth 2020, sono parte integrante anche del secondo testo uscito in ottobre: Octobre Liban[3] (“Ottobre Libano”) di Camille Ammoun, una breve narrazione pubblicata in formato e-book prima ancora che in cartaceo proprio perché potesse essere disponibile nell’immediato non solo in Francia ma anche in Libano.

 

Ammoun, un architetto specializzato in urbanistica, nella sua veste di scrittore ha all’attivo un solo, peraltro riuscitissimo, romanzo, Ougarit[4], in cui va alla ricerca dell’anima di Dubai ponendosi all’intersezione di vari generi, dal romanzo d’avventura al poliziesco, dal politico all’urbano.

 

Se Majdalani ha ibridato la sua cronistoria con l’analisi socio-politica e con la cartografia di un anno caratterizzato da eventi eccezionali, Ammoun racconta le prime settimane della rivoluzione di ottobre 2019 squadernando la sua disciplina, focalizzandosi sulla topografia di Beirut e rendicontando le trasformazioni della città e del territorio. L’artificio letterario è una camminata che gli fa percorrere la via più lunga della capitale libanese, i cinque chilometri che portano dalla prima periferia al centro, nel giorno in cui «quella che chiameremo rivoluzione (perché è questo il nome che ha scelto di darsi) festeggia il suo primo mese». La via parte dalla «rotatoria di Daoura, città di immigrati, attraversa Bourj Hammoud, sobborgo armeno, Mar Mikhail, quartiere alla moda, Geitaoui, quartiere popolare; costeggia la sede della Compagnia elettrica del Libano, entra in Piazza dei Martiri e sfocia, infine, in piazza Riad al-Solh». È, in definitiva, una via simile a «un testo poliglotta che parla delle forze urbane che l’hanno plasmata: espansione, gentrificazione, immigrazione, ricostruzione, corruzione, pauperizzazione, rivoluzione». Ed è, in quei giorni, una via «invasa da una popolazione rivendicativa, urbana e ludica», una popolazione che sa cosa vuole: «Agire. Rispedire le menzogne ai bugiardi che le hanno pronunciate. Smettere di aspettare. Non sperare più. Perché la speranza addormenta. Non sperare più. No. E invece provare. Scendere in strada. Fare opposizione. Cantare. Insultare. Impuntarsi. Fallire. Disperare. Ricominciare. Organizzare la ripresa. Riprendersi questo spazio pubblico per molto tempo inaccessibile. Perché troppo caro. Perché consacrato alle automobili. Perché privatizzato da promotori collusi con i politici».

 

Ammoun percorre quei cinque chilometri monologando con se stesso fino al momento in cui «lì, nella piazza di Beirut, in tutte le piazze del Paese, la gente è convinta di esserci riuscita, di essere arrivata alla grande serata che vedrà sbocciare un Libano rigenerato, un libanese nuovo, libero dalle catene comunitarie, sociali, primordiali, corrotte. E tu [si dice Ammoun], anche tu hai i brividi, perché loro ci credono in massa. Hai i brividi perché ci vuoi credere. Eppure lo sai, le grandi serate appartengono alla mitologia delle rivoluzioni, che sono, invece, dei processi di maturazione molto lenti, tanto da snodarsi, a volte, su più generazioni. Ma c’è un’unica cosa che non può essere messa in discussione: in Libano, questo mese di ottobre segna una tappa fondamentale verso l’emergere di una società nuova».

 

«Poi tutto si ferma». Così recita il titolo dell’ultimo capitolo. A marzo, il lockdown e la bancarotta di Stato. Il 4 agosto, l’esplosione. In quell’esplosione, la lunga via descritta da Ammoun – una via che «corre parallela al porto, a 700 metri in linea d’aria dall’hangar numero 12» dov’era stoccato il nitrato d’ammonio – viene completamente devastata. Ed è impossibile non tornare a rileggerla: «la via è cambiata. Adesso ci vedo un tragitto disseminato di tappe che simboleggiano la corruzione della classe politica libanese. […] Ognuno dei luoghi situati lungo questa via partecipa, a suo modo, al mirabile sistema che ha condotto il Libano alla rovina».

 

Octobre Liban è dedicato alla memoria di Samir Kassir, compianto intellettuale ucciso nel giugno del 2005 da una bomba piazzata sotto la sua automobile. In un’intervista ad Agenda Culturel il 29 ottobre 2020, Ammoun spiega il perché di questa sua scelta: «Nel 2005, quella che chiamiamo la Rivoluzione del Cedro [e che ha portato in piazza un milione di libanesi su una popolazione che non arriva ai cinque ndr] per Kassir era stata una “primavera incompiuta”. Incompiuta perché all’epoca il movimento popolare non si era rivoltato contro i leader politici tradizionali e, perciò, non si qualificava come rivoluzione. Nell’ottobre 2019, invece, questo accade, è cosa fatta. E anche se la strada è ancora lunga, la popolazione – o comunque una sua parte – si è ormai convinta che, per il Libano, il solo modo di continuare a esistere risiede nel rinnovamento totale della sua classe politica. E così, con lo slogan «killun y‘ani killun» (tutti vuol dire tutti), slogan nato nel 2015 al momento della crisi dell’immondizia e ripreso nell’ottobre 2019, si è realizzata una piccola parte del suo grande sogno».

 

A dimostrazione che quando un romanziere, confrontato con l’urgenza di riflettere – e di far riflettere – sul suo presente più attuale, sceglie di accantonare la forma e il linguaggio del romanzo di finzione, il prodotto finale è quanto di più lontano ci sia da un instant book. Perché anche nell’urgenza uno scrittore tiene salda la barra della narrazione, persegue coerenza e coesione, rende imperativa la ricerca degli elementi di continuità e lascia che le analisi geopolitiche impallidiscano davanti alla messa in luce dell’elemento umano più profondo.

 

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[1] Actes Sud/L’Orient des livres, Arles/Beyrouth 2020.
[2] Edizione originale Histoire de la Grande Maison, Le Seuil, Paris 2005. Trad. italiana di Elena Chiti, Giunti Editore, Firenze 2010.
[3] Éditions inculte, Paris 2020.
[4] Éditions inculte, Paris 2019.