Parla Antoine Messarra, professore di diritto e testimone di mezzo secolo di storia libanese. Il tono è pacato,  i modi affabili, ma la visione audace: i regimi autoritari non proteggono nessuno, né i musulmani né i cristiani, il futuro è del diritto

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Ultimo aggiornamento: 30/07/2024 10:19:32

Membro del Consiglio Costituzionale e coordinatore del master in relazioni islamo-cristiane presso l’università Saint-Joseph di Beirut, Antoine Messarra è uno dei maggiori esperti del sistema costituzionale libanese, a cui ha dedicato numerose opere, e un acuto osservatore del dinamismo inedito che, a livelli diversi, investe da mesi i Paesi arabi. Invitato a Venezia dall’Alta Scuola Società Economia Teologia (ASSET) dello Studium Generale Marcianum, affronta in una conversazione appassionata i numerosi temi che le rivoluzioni mettono sul tappeto: lo Stato di diritto, la democratizzazione, il ruolo dei cristiani nel mondo arabo, il senso del Libano come nazione, le lezioni della Guerra civile. Un’analisi a tutto campo di un presente inafferrabile.

Professore, da dove viene il cambiamento che ha investito il Medio Oriente? È spontaneo o indotto?

Un mese fa in Portogallo, nel corso di un seminario, ho incontrato alcuni giornalisti che avevano partecipato alla copertura degli eventi in Libia e in altri Paesi arabi come l’Egitto. Mi hanno detto: «Abbiamo costatato e sperimentato che quella gente non ha bisogno di esperti in democrazia per sapere che cos’è la libertà». Se veramente riteniamo che la libertà sia un bisogno innato dell’uomo, si può comprendere facilmente ciò che sta accadendo. Gli eventi arabi mi hanno riportato alla mente il vecchio libro di Étienne de la Boétie, De la servitude volontaire, pubblicato nel XVI secolo. È un libro assolutamente precursore del pensiero liberale, anche se ai suoi tempi non ha avuto molta importanza. Afferma che l’autorità dei governanti, il loro preteso carisma autoritario, deriva in ultima analisi dal fatto che noi li accettiamo. Nel momento in cui non riconosciamo più l’egemonia del capo, crolla tutto.

Questa presa di coscienza sarebbe dunque all’origine delle recenti rivoluzioni?

Sì, è lo stesso processo che ha avuto luogo nell’ex Unione sovietica. L’Unione sovietica era una potenza nucleare; è crollata per ragioni economiche, perché non aveva più di che nutrire il suo popolo, ma anche a causa di una repressione durata 70 anni. La libertà è un bisogno atavico dell’uomo. Certo, ho bisogno di esperti che mi spieghino come gestirla. Ma la libertà in sé è un bisogno innato. Che si sia libici, che si viva a Cuba o altrove.

Per venire al Libano, fino ad ora il Paese sembrerebbe rimasto relativamente al margine dei movimenti di contestazione.

In realtà c’è stato anche in Libano un movimento di massa. Il 14 febbraio 2005 un attentato ha ucciso il presidente Rafiq Hariri in un’operazione militare terrorista che ha fatto 22 vittime. Si è verificato un sussulto immediato della popolazione, di tutte le comunità, di tutte le regioni, anche persone che non erano mai scese in piazza prima e non si erano mai interessate direttamente alla vita pubblica. Si sono viste allora manifestazioni spontanee gigantesche nel centro di Beirut, che hanno riunito oltre 1 milione di persone. Il movimento, che era nato come espressione di persone di tutti i partiti, di tutte le appartenenze e le non-appartenenze, in seguito è stato confiscato dai partiti. Per motivi regionali è diventato un partito-preso politico, ma all’inizio è stato un sussulto, un risveglio nazionale quasi unico nella storia del Libano. È istruttivo il confronto con un altro celebre attentato della storia libanese: quello che uccise il Mufti della Repubblica degli anni ’80, Hassan Khaled. Il giorno seguente vi furono proteste e indignazione ma niente di durevole, anche se si trattava di un atto contro un alto dignitario della religione musulmana. È possibile che gli autori dell’attentato terroristico contro il presidente Hariri abbiamo pensato che anche questa volta ci sarebbero state proteste e indignazione per tre, quattro giorni e che poi tutto sarebbe finito. Ma dopo il 14 febbraio 2005 la popolazione ha conosciuto un risveglio straordinario: «Vogliamo la verità, siamo tutti in pericolo, non ci sono né grandi né piccoli».

Tuttavia, dal 2005 a oggi sono successe molte cose. Ci sono stati cambiamenti di governo. Qual è l’atteggiamento del governo attuale nei confronti della situazione nella regione?

In Libano abbiamo talmente sofferto le ingerenze esterne che la nostra preoccupazione è il popolo. Il governo in questa fase non si coinvolge in questioni di cambio di regime. È una faccenda che riguarda il popolo di ciascun Paese e la sua stabilità. Vi è tuttavia un principio: i regimi stabili sono quelli che godono di legittimità. Più c’è legittimità, più c’è stabilità nei e con i Paesi vicini, più noi siamo tranquilli. Effettivamente il Libano è sempre stato un’eccezione, lo dico con fierezza e dolore allo stesso tempo. Siamo un’eccezione nella regione. Abbiamo a che fare con un vicino ostile che è Israele, e con dei vicini arabi in transizione democratica, a livelli diversi. Maggiore sarà la democratizzazione nei Paesi arabi e minore l’ostilità del nostro vicino-nemico, più grande sarà la nostra stabilità. È il caso della Svizzera. La Svizzera nella sua storia ha potuto trovare pace e stabilità solo quando i suoi vicini sono diventati meno ostili e più democratici. Noi ci troviamo in un contesto simile.

Si ripete spesso che il Libano è nato da due negazioni (né con l’Oriente né con l’Occidente), ma «due negazioni non fanno una nazione». Il sentimento di appartenenza libanese è più forte adesso o 10 anni fa?

La nozione/questione della libanesità è emersa il 14 febbraio 2005. Non dico il 14 o l’8 marzo perché mi situo al di sopra dei partiti. L’approccio al 14 febbraio 2005 in termini di appartenenza politica costituisce un’incomprensione e una banalizzazione del fenomeno. Il 14 febbraio è un fenomeno di riorganizzazione della società. Che cosa fa l’unità di una società come il Libano o come il Belgio o la Svizzera? Il sentimento condiviso del pericolo esterno. È un fattore fondamentale di coesione. Forse per la prima volta nella storia del Libano c’è stato questo sentimento collettivo condiviso: «Siamo tutti in pericolo». Era straordinario. Un leader musulmano e una religiosa recitavano preghiere sulla tomba di Hariri...

Sì...come ciò che è accaduto in piazza Tahrir.

Le persone che recitavano la Fâtiha [il primo capitolo del Corano] davanti alla tomba di Hariri e pregavano non appartenevano a questo o a quel partito. Venivano da lontano, erano sciiti, sunniti, maroniti...

Tutti libanesi dunque?

Sulla questione della libanesità, 30-40 anni di occupazione, d’ingerenza, di guerra civile, hanno lasciato postumi e fenomeni di subordinazione. Non si contano gli attentati terroristici contro musulmani, cristiani, sciiti, sunniti, maroniti..., civili di tutte le appartenenze. Bisogna capire che il Libano subisce un terrorismo intellettuale, un terrorismo di fatto. I martiri come Samir Kassir, Gebran Tuéni, Pierre Gemayel... dimostrano che ci sono dei postumi e che il pericolo permane. C’è un fenomeno di psichiatria e psicanalisi sul quale varrebbe la pena lavorare. Il libanese, dal tempo degli ottomani, è sempre stato abituato a rivolgersi a una Sublime Porta per regolare i conflitti. Adesso i libanesi hanno l’opportunità di gestire autonomamente i loro affari perché, di fatto, non c’è più nessuna Sublime Porta. Anche l’America è indebolita dalla crisi e tutti quelli che hanno tentato d’intervenire in Libano si sono ritrovati nelle sabbie mobili. La comunità internazionale sostiene il Libano, ma senza correre rischi e pericoli perché il trauma degli attentati terroristici contro le forze multinazionali è ancora vivo. I libanesi devono capire che sono adulti. Si comporteranno da adulti? Sapranno trarre profitto dal contesto regionale? Anche Israele si trova in un vicolo cieco. Ha condotto diverse guerre e Beirut è stata la sola capitale araba a essere occupata. La resistenza libanese ha conseguito risultati notevoli e perfino Israele è diventato relativamente più accorto per effetto del Libano. I palestinesi sono diventati più accorti per effetto del Libano. Si sono intromessi nei nostri affari e se ne sono pentiti amaramente. Gli altri nostri vicini si sono intromessi nei nostri affari e dicono di aver fatto molti sacrifici. Bene, per il futuro eviteremo loro i sacrifici e gli oneri derivanti. È necessario lavorare perché i libanesi acquisiscano autonomia. La non-stabilità nella regione, in Siria e altrove, è sicuramente nociva per il Libano. Non si può scommettere sull’instabilità. Il libanese accorto non deve scommettere su nessuna instabilità in qualsiasi Paese arabo, ma sulla democratizzazione.

Allo stesso modo gli altri Paesi non devono scommettere sull’instabilità libanese...

Ed è per questo che dobbiamo rivitalizzare il ruolo dei libanesi nella democratizzazione. Infatti è proprio questo il senso della celebre frase di Giovanni Paolo II: «Il Libano è più di un Paese, il Libano è un messaggio». La coscienza di questa vocazione è regredita enormemente tra i libanesi. La nostra missione è seminare, nel nostro Paese e negli altri Stati arabi, le idee di democrazia, di libertà e di pluralismo religioso. A questo proposito constato una decadenza sia tra i cristiani che tra i musulmani rispetto al ruolo pioniere assunto negli anni precedenti al ’75 da personalità libanesi di levatura internazionale, musulmane e cristiane. Questo lavoro dovrebbe riguardare sempre di più la Chiesa. Con i cristiani si è sfruttato il complesso di dhimmitudine, la condizione di minoranza protetta, e continuare oggi con questa manipolazione sarebbe un segno di decadenza culturale. Non dico che non si debba agire con prudenza. Ma trasformare questo complesso in strategia e in teoria, per i libanesi è un segno di decadenza. Ciò che mi protegge, ciò che protegge i cristiani e i musulmani, è la legge. È lo Stato di diritto che ci protegge. Quello che sta accadendo nel mondo arabo ne è la prova. Se in questo o in quel Paese arabo esistesse uno Stato di diritto, tutti sarebbero protetti. I regimi autoritari non proteggono nessuno, né i musulmani né i cristiani. Proteggono solamente i subalterni, i clienti e gli opportunisti.

Ciò non toglie che, anche oggi, «due negazioni non fanno una nazione»…

È vero, due negazioni non fanno una nazione. Georges Naccache lo ha scritto nel 1949 nel senso esatto del termine. Ma a quali negazioni si riferiva? Ha criticato la governance politica dell’epoca, il modo in cui erano condotti gli affari di Stato. La sua critica era legata alle scelte del momento e dev’essere contestualizzata. Io aggiungerei: due concessioni fanno una nazione. E quali sono le due concessioni di oggi? All’epoca, nel 1920, le concessioni erano “no all’Occidente” come tutore, e “no a un’unità panaraba”. Da allora i libanesi hanno sperimentato che nessuna comunità può fare uno Stato né un mini-Stato, mentre tutti hanno bisogno di uno Stato: ecco le due concessioni. L’esperienza della guerra tra il ’75 e il ’90 ha infranto allo stesso tempo il sogno di egemonia e il sogno di omogeneità. Siamo ciò che siamo. Abbiamo una quantità incredibile di problemi di governance, ma il Libano è il Libano. Non si può dividerlo, né annetterlo a qualcos’altro, né renderlo omogeneo… Ma soprattutto è difficile da digerire. Sia per Israele, sia per gli Stati arabi, che non ne hanno l’interesse.

La crisi economica, che è molto evidente in Europa, ha avuto delle ripercussioni sul Libano? Si vive forse una situazione di povertà tale da far presagire insurrezioni come quelle tunisine o egiziane?

Si corrono grandi rischi in questo senso, in Libano come in altri Paesi arabi. C’è il pericolo che si crei una mentalità del lamento continuo, gente in protesta permanente effettiva. Questo può far nascere una nuova dittatura. La mentalità di protestare senza sosta, di mugugnare, è il più grande pericolo che minaccia oggi alcuni Paesi arabi. Questo aprirà la strada a politici che potrebbero lanciare promesse vane e slogan demagogici. Bisogna agire contro questa corrente di recriminazione che si sta diffondendo anche in Libano, per motivi peraltro ben giustificati. Il cittadino non è chi mugugna ma chi agisce. La situazione è grave in Egitto. Tutte le rivoluzioni, nel corso della storia, di per sé non hanno cambiato nulla, hanno soltanto innescato una nuova dinamica. Il cambiamento è sopravvenuto per un lavoro culturale ed educativo.

Come vede il ruolo dell’Occidente nella primavera araba?

Dobbiamo riflettere enormemente sulla nozione di coraggio. L’umanità oggi manca spesso di coraggio. L’Occidente manca di coraggio. È stato il discorso di Solgenitsin a Harvard. L’Occidente vuole vendere armi, vuole fare affari e generalmente sottostà ai ricatti delle grandi dittature a patto che queste acquistino armi e concludano operazioni vantaggiose. Tutto ciò va a danno dei popoli. La democrazia è minacciata perché oggi, oltre ai regimi autoritari, ci sono correnti terroriste che vivono sul ricatto. Abbiamo bisogno di gente come Kennedy, come Churchill… che non necessariamente entrano nei conflitti ma certamente manifestano un’opposizione chiara e proclamano dei principi. L’Occidente è chiamato ad assumere una posizione più ferma. Ci sono regimi tirannici che hanno vissuto e si sono conservati approfittando del ricatto. È diventata una strategia diplomatica! Quel che c’è di positivo nella situazione attuale è che la logica della forza pura è crollata. Questa logica, in Medio Oriente, è stata inizialmente introdotta da Israele. Poi si è propagata per contagio in altri Paesi, ma i movimenti arabi di oggi ne hanno decretato la fine. La tattica di satellizzare gli Stati vicini non funziona più. Ci vuole una strategia di alleanza, di cooperazione un po’ alla maniera europea, forse anche alla maniera turca, quella maniera che Israele non conosce affatto.

 

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