Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:49:14
I cristiani del Medio Oriente sono colpiti da una crisi esistenziale, profonda e senza precedenti, mentre subiscono un'inesorabile contrazione, tanto per numero quanto per influenza. Che le comunità cristiane native della regione, che contano tra 12 e 15 milioni di individui in tutto, alcune delle quali risalenti agli albori della fede antica due millenni, stiano declinando rapidamente non è più messo in discussione da nessuno. Ciò che rappresenta ora una seria causa di preoccupazione è il ritmo accelerato di questo declino, che sta rendendo queste comunità cristiane vuote vestigia di quel che erano in passato e ciò che rimane di loro, come isole in continua contrazione, assomiglia a specie a rischio d'estinzione nell'autentica culla del Cristianesimo. L'Iraq, i territori palestinesi e il Libano, ciascuno a modo proprio, sono tre casi evidenti che illuminano l'allarmante dinamica di questo logorio della cristianità originaria. Una varietà di ragioni correlate ha concorso a provocare questa fenomenale erosione nelle fila e nell'impatto dei cristiani indigeni. L'emigrazione è forse il fattore individuale più corrosivo ed esige un pedaggio sempre più alto dai cristiani del Medio Oriente. In molte parti della regione, come l'Iraq, l'Egitto e i territori palestinesi, i cristiani sperimentano le pressioni congiunte di una crescita dell'estremismo islamico da un lato e della repressione di regimi dittatoriali dall'altro. A volte queste pressioni prendono la forma di persecuzione esplicita, come ha dimostrato la crescente violenza islamista contro le comunità cristiane dell'Iraq. Altre volte le spinte ad emigrare derivano dalla condizione occasionale di capro espiatorio che le comunità cristiane assumono per offese reali o percepite come tali, spesso commesse a distanza di migliaia di chilometri, come nel caso della controversia sulle vignette danesi dell'autunno 2005, dopo la quale alcune chiese irachene furono incendiate e un quartiere cristiano fu attaccato nei dintorni di Beirut; oppure come nel caso delle polemiche in merito alla lezione che il Papa tenne nel settembre 2006 a Regensburg, in Germania, dopo la quale i cristiani dell'Iraq furono di nuovo presi di mira. Quando si scatenano passioni come queste, nella memoria collettiva dei musulmani scatta qualcosa di atavico che rispolvera immagini delle Crociate: ciò induce a guardare improvvisamente i cristiani indigeni con estremo sospetto, come quinte colonne in lega con nemici stranieri. In questi casi l'unica risorsa lasciata aperta a molti cristiani assediati è di abbandonare le terre dei loro avi, in cerca di posti più sicuri e tranquilli per allevare le loro famiglie. Per molti il primo passo è verso un paese confinante della regione, come è accaduto con i cristiani dell'Iraq che sono scappati in Siria, o con i cristiani libanesi che si sono spostati nella vicinissima isola di Cipro. Ma poi segue inevitabilmente un secondo spostamento ancora più lontano e un gran numero di questi emigranti cristiani va a finire in Europa, Nord America, o Australia. Questo secondo spostamento è, per la maggior parte, di sola andata e definitivo - ci sono comunità copte ed armene in crescita nell'area della grande Los Angeles, una considerevole comunità assira di cristiani iracheni col proprio Patriarca a Chicago, centinaia di migliaia di cristiani libanesi a Montreal, San Paolo, Parigi e Sydney. Con la nascita dell'Islam e a seguito delle conquiste islamiche di Nord Africa, Levante e Asia Minore, le conversioni alla nuova fede dei trionfatori furono il più grande fattore che andò a incidere sul numero dei cristiani indigeni. Al giorno d'oggi, invece, le conversioni tendono a essere rare e non costituiscono più un elemento significativo nella storia complessiva della diminuzione dei cristiani. La maggior parte dei Paesi arabi, con l'eccezione del Libano, non vede bene il proselitismo praticato da aderenti a fedi diverse dall'Islam, e in gran parte di questi paesi sono in atto pressioni sociali per ostracizza¬re, se non peggio, chiunque abbandoni l'Islam, mentre i convertiti alla fede islamica sono i benvenuti. Purtuttavia, il numero di cristiani convertiti all'Islam rimane minimo. Nel complesso i cristiani in Medio Oriente hanno un tasso di natalità inferiore ai musulmani, e ciò soprattutto per ragioni socio-economiche e culturali. In passato, ad esempio, i contadini maroniti che vivevano nelle inaccessibili montagne del Libano tendevano ad avere molti figli, per assicurare un adeguato numero di lavoranti agricoli e una difesa contro i danni delle malattie e della carestia. Le cose sono nettamente cambiate con una maggiore urbanizzazione, l'allontanamento dalla semplice sussistenza agraria e migliori livelli di igiene ed educazione. Nelle comunità cristiane è strettamente osservata la monogamia e il divorzio è normalmente più difficile da concepire che per i musulmani. Una tipica famiglia cristiana della classe media ha due o tre bambini al massimo e considera un ottimo investimento fornire loro una buona educazione e un decoroso standard di vita. Anche se la poligamia è molto meno praticata negli ambienti musulmani di quanto lo fosse nei secoli precedenti, essa esiste ancora in località remote o arretrate accanto ad unioni temporanee, conosciute come "matrimoni di piacere", che sono approvate da specifici regolamenti religiosi, come accade spesso in alcune comunità sciite. È anche un dato sociologico che i maschi musulmani abbiano generalmente più opportunità di sposare donne cristiane che non il contrario, e in tali casi sono forti le pressioni per allevare la prole, frutto di queste unioni miste, come musulmana. Difatti, recentemente in Iraq si è registrata l'odiosa pratica di forzare centinaia di giovani ragazze cristiane a sposare uomini musulmani, che le hanno costrette a convertirsi all'Islam, impedendo loro qualsiasi contatto con genitori e fratelli, per allevare nella fede islamica tutti i figli nati da questi matrimoni forzati. L'Esempio dei Copti Tra i cristiani della regione serpeggia un dilagante, e purtroppo non ingiustificato senso di abbandono, se si considera l'atteggiamento prevalente nei grandi centri cristiani del mondo. Indifferenza e a volte incriminazione delle vittime sono spesso i marchi di questi detestabili comportamenti esterni. Cristiani nativi del Medio Oriente sono arrivati a nutrire sentimenti di profonda delusione, tinta di una non piccola dose di risentimento, nei confronti dei loro correligionari in Occidente, da loro accusati di trascurarli deliberatamente e di fatto abbandonarli in situazioni di grave pericolo. Questo è certamente vero riguardo alle esperienze registrate in anni e decenni recenti, tanto per i cristiani del Libano che per quelli dell'Iraq - due paesi con comunità un tempo fiorenti in cui i cittadi¬ni cristiani sono stati presi di mira deliberatamente e talora crudelmente "in quanto cristiani" senza che questo suscitasse quasi scalpore nel resto del mondo cristiano. In realtà, parlare oggi di un "mondo cristiano" può essere diventato anacronistico, data l'etica post-cristiana coltivata deliberatamente dall'Europa, e il notevole disprezzo dell'America per i problemi o le cause cristiane nella sua agenda di politica estera. La condizione dei copti d'Egitto costituisce un esempio evidente di violenza gratuita contro una delle comunità cristiane più antiche e radicate della regione, con poca se non nessuna speranza, da parte di questi copti assediati di ricevere dall'Occidente un sostanziale soccorso. Violenze si sono ripetute in anni recenti e sono culminate nell'ottobre 2005 negli attacchi a chiese copte ad Alessandria da parte di folle di fanatici musulmani. C'è da dire che soltanto un manipolo ignorante tra questi cristiani indigeni, copti o altri, nutre sul serio fantasie di flotte crociate occidentali in rotta verso le coste della regione per salvarli dai loro oppressori. Inoltre, i governi occidentali sono spesso inclusi nell'accusa espressa o mormorata, anche se gli accusatori sanno che questi governi, e gli stati che essi rappresentano, sono dichiaratamente laici, nonostante la schiacciante maggioranza della loro popolazione sia, in gradi diversi, di eredità cristiana. È vero, il Vaticano e altre chiese cristiane in Occidente hanno parlato con franchezza, in ripetute occasioni, spesso vigorosamente, contro l'oppressione subita da certe comunità cristiane in Medio Oriente. Ma grosso modo, chiese e altri gruppi cristiani in Occidente non sono stati capaci di produrre sensibili cambiamenti nella condotta dei loro rispettivi governi così da renderli più reattivi alle condizioni in costante peggioramento di questi cristiani perseguitati del Medio Oriente. Il risultato è stato il perpetuarsi di questo senso di abbandono, unitamente alle sofferenze dei cristiani della regione, tutte punteggiate da sporadiche condanne verbali, espresse qua e là in Occidente, forse soprattutto in forma di lamento ad alta voce per alleggerire il peso della coscienza. Esposti a persecuzione e marginalizzazione in patria, e rendendosi conto che le opportunità economiche diventano estremamente incerte durante periodi di prolungata insicurezza, molti di questi cristiani, già dolorosamente conscii della propria condizione di minoranza nella regione, scelgono di partire per i più verdi pascoli dell'Occidente. I fattori che maggiormente spingono a emigrare in questa situazione sono le prospettive di un misero futuro economico in patria, l'incertezza su come andrà a finire, e l'assenza di sicurezza in un ambiente in cui lo spazio per qualsiasi piccola libertà esistente va costantemente restringendosi. I fattori di attrazione dalla parte opposta sono un senso di affinità con gli altri cristiani di ogni parte del mondo, basato su una fiducia che l'assimilazione alla fine sarà completa, si potranno con successo sfruttare migliori opportunità economiche e si potrà essere ragionevolmente certi di una sicurezza a lungo termine. Le due serie di fattori combinati si traducono concretamente in un logorio sempre maggiore per i cristiani dal Medio Oriente. Beirut, Baghdad, Gerusalemme Gli esempi di questa emorragia di cristiani sono forti - vengono in mente Libano, Iraq e Palestina. In seguito alla guerra tra Hezbollah e Israele di luglio-agosto 2006, in Libano si è verificata una nuova ondata di emigrazione di cristiani e molti di loro questa volta giurano che non torneranno. Per alcuni questa era la seconda o persino la terza volta, durante gli ultimi tre decenni, in cui avevano sperimentato l'emigrazione, soltanto per ritornare con rinnovate speranze una volta che si fossero fermate le sparatorie e la polvere sembrasse essersi depositata. Non sono disponibili precise statistiche demografiche, ma gli esperti generalmente concordano nell'affermare che i cristiani del Libano, che erano la maggioranza della popolazione soltanto alcuni decenni fa, oscillano oggi attorno al 35% della popolazione e sono in diminuzione. Da parte loro, i cristiani palestinesi si trovano tra le devastazioni dell'occupazione israeliana da una parte, e l'emergere della spada militante dell'Islam rappresentata da Hamas dall'altra, e anch'essi sono sul punto di andarsene in numero crescente. Città bibliche come Betlemme e Nazareth - per non parlare della stessa Gerusalemme - dove i cristiani risiedono in numero consistente da secoli, fin dall'alba della fede, si sono abbondantemente svuotate dei loro abitanti cristiani. Per molti, il muro che Israele ha costruito è arrivato come la durissima misura finale con un impatto distruttivo sui loro mezzi di sussistenza. Ciò fa il paio con il fervore radicalista islamico che si è impossessato delle strade palestinesi escludendo ogni tendenza pluralista o secolare: i palestinesi cristiani invece che con le mani sono stati indotti a votare con i piedi, andandosene in massa. Dall'invasione USA dell'Iraq nel marzo 2003 le condizioni sono andate peggiorando per i cristiani del paese. Chiese in fiamme, bombe contro i negozi di bevande alcoliche di proprietà di cristiani, qua e là assassinio a sangue freddo di cristiani, e molestie a donne cristiane perché non indossano mantelli e veli neri, si sono verificate con allarmente regolarità fin dall'invasione, e di conseguenza i cristiani hanno cercato di andarsene. I cristiani d'Iraq sono visti con sospetto dai musulmani dal momento che condividono la stessa religione dei soldati americani invasori e gli americani fanno ben poco sforzo per distinguere tra musulmani e cristiani, quando agiscono per soffocare l'insurrezione che inghiotte il paese. Molti cristiani perciò richiamano con nostalgia i giorni prima del 2003, quando il partito Ba'ath, guidato da Saddam Hussein (lui stesso nominalmente un sunnita) governava su uno stato repressivo ma per lo meno laico. Oggi, nel mezzo di un confronto senza uscita sciiti-sunniti all'interno dell'Iraq, i cristiani non vedono alcun futuro per se stessi, e non importa quale sarà il risultato di questa sanguinaria e settaria resa dei conti dalle profonde radici storiche. Essi si sentono intrappolati tra due opposte versioni del radicalismo islamista, nessuna delle quali prevede un posto per i cristiani. Tolleranza o Liquidazione? Due distinte narrazioni storiche hanno definito e plasmato le peculiari identità e vedute dei cristiani del Medio Oriente, con un'abissale differenza tra le due narrazioni: il mantenimento o l'assenza di libertà e dignità individuale e collettiva. La schiacciante maggioranza di queste comunità cristiane, comprendente oltre il 90% dei cristiani nativi della regione, è caduta, in un momento o nell'altro durante gli ultimi 1.400 anni, sotto qualche forma di asservimento ed è stata relegata a uno status di seconda classe, o dhimmi, nella propria patria ancestrale. Questo è vero per i copti d'Egitto come per i caldei e gli assiri dell'Iraq e gli ortodossi greci di Siria, Palestina e Giordania, senza dimenticare le comunità cristiane un tempo esistenti in Arabia e Nord Africa, di qualunque entità fossero. La categoria dei dhimmi, come è stata tradizionalmente applicata dai musulmani dominanti alle comunità conquistate alle quali il Corano si riferisce come "Gente del Libro" (cioè cristiani ed ebrei), ha comportato l'imposizione di una serie di restrizioni che includono una speciale tassazione, un abbigliamento distintivo, interdizione alla partecipazione politica, divieto di portare armi, un atteggiamento deferente verso i musulmani, svantaggi legali, ostacoli per edificare o restaurare luoghi di culto, proibizione della celebrazione pubblica di feste e manifestazioni religiose, e molto di più. Alcune storie dell'Islam, a carattere romanzato o apologetico, scritte da occidentali, hanno descritto il sistema dei dhimmi come un regime di tolleranza e di accettazione della minoranze. Oggi questa non è più la definizione corrente e la dhimmitudine, come si è venuta a chiamare, è riconosciuta per quello che in realtà è: un sistema premeditato per la liquidazione organizzata e graduale delle comunità non musulmane oppure, quanto meno, per la loro marginalizzazione deliberata e protratta fino al punto della disumanizzazione. Che molte delle usuali restrizioni per i dhimmi siano state, in tempi moderni, eliminate nella pratica e cancellate dalla struttura legale della maggior parte degli stati arabi - con la stridente eccezione dell'Arabia Saudita - non ha comportato che gli effetti deleteri, cumulati e inveterati di secoli di marginalizzazione siano stati magicamente cancellati dalla psiche, tanto dei perpetratori che delle loro vittime, entro queste terre arabe. Il tratto fondamentale è che i dhimmi, che vivono sotto un regime islamico, allora come ora, sono stati privati di ogni parvenza di libera esistenza alla pari, e per secoli sono sopravvissuti come comunità di gente resa di fatto schiava. Il restante 8-10% dei cristiani nativi della regione araba - soprattutto quelli che vivono in Libano, come i maroniti nelle sue montagne - sono riusciti, attraverso una storia tumultuosa, a preservare un grado di libertà notevole per gli standard regionali, evitando l'urto delle devastazioni inflitte ai dhimmi. Ci sono riusciti, durante l'era pre-tecnologica, soprattutto grazie alla topografia aspra e inaccessibile del Libano; comunque, il prezzo che pagarono per mantenere questa libertà e dignità fu spesso esorbitante, in termini di sangue, territorio e risorse. Oggi, questi stessi cristiani del Libano, la cui storia li ha distinti, in un senso positivo e creativo, rispetto al resto dei loro correligionari nei paesi arabi circostanti, corrono il pericolo di soccombere al predomino di uno dei due progetti islamici rivali in gara per il potere, a livello locale quanto regionale: un attivismo sciita di ispirazione iraniana versus un'influenza sunnita promossa e finanziata dall'Arabia Saudita, che potrebbe facilmente trasformarsi in un virulento wahhabismo. Con Beirut e i suoi numerosi vescovati, rappresentanti ogni denominazione cristiana nella regione, che si comportavano tradizionalmente come i polmoni che respirano liberamente per le molte comunità cristiane dei paesi arabi interni, isolate, oppresse e meno libere, ogni indebolimento nella posizione della città come eccezionale finestra sul mondo e varco per le aspirazioni e il malcontento dei cristiani al di là della regione potrebbe esquivalere, nel lungo periodo, alla grave calamità sofferta nel 1453 con la caduta di Costantinopoli. Questa dicotomia di liberi e vincolati, affrancati e dhimmi, si applica anche ad altre comunità minoritarie non musulmane accanto ai cristiani, in tutta la regione araba. Fino a pochi decenni fa ogni paese arabo ospitava una comunità indigena ebraica, e alcuni, come il Marocco e la Tunisia, la ospitano ancora oggi. Le altre antiche comunità ebraiche, che vissero per secoli relativamente in pace tra gli arabi, sono quasi scomparse, in modo molto drammatico durante la seconda metà del ventesimo secolo. Il fattore trainante per molti di questi ebrei "arabi" fu senza dubbio la creazione dello stato di Israele, che in un certo modo rappresentò una delle cause dell'emigrazione: una crescita nell'antisemitismo alimentata dalla simpatia araba per i palestinesi e combinata in anni recenti con l'influenza dell'ideologia estremista islamista. Perché Occorre Fermare l'Esodo Forse è troppo tardi per impedire la scomparsa degli ebrei dai territori arabi ed è chiaro che per ora la schiacciante maggioranza degli ebrei orientali, o sefarditi, ha poco interesse a ritornare nei loro primitivi territori di residenza. Nel caso dei cristiani di Arabia e del Medio Oriente, invece, il numero dei residenti è ancora abbastanza significativo, e il desiderio di tornare, per molti emigrati, rimane forte - il che permette di porre la questione di arrestare, se non invertire, l'esodo. A parte l'intriseca ragione morale per cui un tale declino di cristiani indigeni dovrebbe essere fermato, o almeno rallentato, perché qualcuno nei circoli politici americani dovrebbe farsi carico da solo di queste comunità moribonde che assomigliano a inerti resti archeologici piuttosto che a realtà con un impatto tangibile e in grado di fare la differenza? Ci sono tre cogenti ragioni pratiche perché il protrarsi di questo declino dei cristiani lasci il campo aperto agli attivisti, con un impatto negativo sugli USA, come pure sulla politica europea e su altri interessi nel Medio Oriente arabo: Moderazione. L'esistenza in Medio Oriente di comunità cristiane indigene stanziali, stabili, prospere e ragionevolmente libere e sicure, è servita in molti casi come fattore di promozione dell'apertura e della moderazione islamica. L'Egitto, prima del 1952, quando Nasser salì al potere, mostrò una marcata tolleranza e una molteplicità di punti di vista politici insieme a una vibrante diversità culturale e un'aperta inclinazione verso i gusti europei - ciò a dispetto del nascente emergere, all'epoca, dei fratelli musulmani. Basta guardare, per esempio, una fotografia di un concerto di Umm Kulthum o di uno spettacolo pubblico analogo dell'epoca, per vedere che nessuna delle donne tra gli spettatori indossava il velo e un abito distinitivo islamico. L'Egitto era più liberale nei primi anni del ventesimo secolo che agli inizi del ventunesimo. In Libano, prima dello scoppio della guerra del 1975, si era formata una nuova specie di musulmani, grazie alla creativa quotidiana compenetrazione delle comunità musulmane del paese con la controparte cristiana, in una libera atmosfera di mutuo rispetto. I frutti di questo esperimento sociologico, unico, di coesistenza, sono evidenti oggi soprattutto tra la classe colta dei libanesi tanto sunniti che sciiti, che spiccano nel più ampio contesto islamico come esempi chiarissimi di modernità sotto ogni aspetto. Il merito di ciò va soprattutto al fatto che essi sono vissuti in pace per decenni, in stretta prossimità con i più liberi cristiani del mondo arabo - quelli del Libano. La moderazione islamica è indotta a rafforzarsi quando i musulmani hanno a che fare giornalmente con persone indigene di cui si fidano, aderenti a un credo che non scusa i kamikaze, rispetta le donne, non è in cerca di predominio religioso, aderisce ai principi del pluralismo religioso, è compatibile con la democrazia liberale, difende i diritti della persona e della collettività, sottolinea la centralità dell'educazione, e non è in contrasto con molte caratteristiche del modo di vivere laico moderno. I rilevanti contributi culturali e linguistici degli intellettuali cristiani del luogo, risiedenti sia a Beirut che al Cairo, al volgere del XX secolo, in quello che venne ad essere conosciuto come il rinascimento arabo, sottolineano come la libertà dei cristiani sia correlata al rafforzamento della moderazione islamica. In misura minore, il medesimo fenomeno della moderazione islamica sembra essere fiorito in certi settori della società giordana, come pure in Iraq e Siria, prima del Ba'ath (e sotto il Ba'ath, laico per certi aspetti). Ogni volta che i cristiani del posto si sono sentiti relativamente indisturbati, ne sono risultate avvantaggiate l'apertura, la tolleranza e la moderazione islamica. Mediazione. La presenza continua, in numero significativo, di cristiani in situazione di sicurezza in Medio Oriente, faciliterebbe anche la costruzione di ponti tra Est ed Ovest, mondo cristiano ed Islam, in modi che nessun altro gruppo potrebbe intraprendere. Viene ancora in mente il rinascimento culturale arabo della fine del XIX e dell'inizio del XX secolo, portato avanti soprattutto da cristiani di Beirut e del Cairo, movimento che, tra altre cose, ha creato il giornalismo arabo contemporaneo e il moderno romanzo arabo; ha conseguito risultati miliari nella poesia araba; ha aperto la via per diverse riletture critiche nella storia, nella cultura, nella politica araba e ha aiutato ad introdurre idee liberali occidentali nel discorso arabo. Nei decenni centrali del ventesimo secolo gli intellettuali arabi cristiani hanno mutuato e adattato i concetti non altrettanto liberali del socialismo e del nazionalismo, per forgiare un nuova identità-ombrello, controversa e ideologicamente connotata che essi hanno assunto sotto l'insegna dell'arabismo. Il dinamismo creativo di questo fermento culturale arabo, ispirato e catalizzato da cristiani del luogo, non si è fermato qui. Pensatori arabi cristiani influenti e di diverse vedute, come Albert Hourani, Charles Malik, Constantine Zurayk, Michel Aflaq, Antoun Saadeh, e Hanan Ashrawi, per non citarne che alcuni, insieme con i molti professori, studenti, monaci, giornalisti, giuristi etc., hanno mediato le idee occidentali nella regione, mentre contemporaneamente spiegavano il Medio Oriente agli occidentali. A prescindere dal fatto che si decida di essere più o meno d'accordo con questi sforzi di mediazione culturale, la loro mera esistenza, il loro innegabile impatto e, cosa più importante, l'identità della loro fonte, non si possono contestare. Il mondo arabo sarebbe stato di gran lunga più isolato e culturalmente impoverito, se questi risultati che abbiamo elencato e molti altri non citati non si fossero verificati, nell'ipotesi in cui i cristiani non fossero stati fisicamente presenti o fossero stati troppo oppressi per preoccuparsene. Senza tali autentici sforzi locali di mediazione, in cui i cristiani del posto hanno primeggiato, l'Occidente si sarebbe trovato nella situazione imbarazzante di far sempre la figura dell'intruso estraneo e non benvenuto, con tutto il bagaglio negativo che tale immagine comporta. Reciprocità. I musulmani, da ogni parte del mondo islamico, stanno dirigendosi in numero crescente verso l'Ovest, specialmente in Europa. Molti arrivano con l'espressa intenzione di rimanere, ma non necessariamente di assimilarsi. Questa nuova sfida ha messo alla prova i concetti occidentali di tolleranza, pluralismo e multiculturalismo, a volte fino al punto di rottura. Rimane il fatto, comunque, che i musulmani che emigrano in Occidente, specialmente in Europa e in Nord America, vivono per la maggior parte in situazioni tranquille, dove prevale il dominio della legge, dove i diritti della persona e della collettività sono protetti, e dove l'identità etnico-culturale e la specificità religiosa sono rispettate. Purtroppo, lo stesso non si può dire a proposito dei cristiani indigeni in molte parti del mondo arabo e islamico. Un paese come l'Arabia Saudita, per esempio, che finanzia con decisione l'erezione di moschee in tutto il mondo, incluso l'Occidente, proibisce rigorosamente che siano costruite chiese nelle sue città e metropoli, siano importate Bibbie ed altri articoli religiosi cristiani nel suo dominio, e vieta ai cristiani di pregare o persino di essere sepolti sul suo suolo. Il maltrattamento di comunità cristiane di minoranza in varie parti del mondo arabo, è sfortunatamente, ricorrente e, a volte, intollerabile per le vittime. L'Occidente non può sperare di mettere i governi arabi di fronte alle loro responsabilità sulla base di una serie di valori universali condivisi, a meno che non sia invocato e praticato il principio della reciprocità. Perché questo accada, in questi paesi arabi deve esserci spazio per comunità indigene non musulmane, e allora questioni spinose come proselitismo, diritti delle donne, libertà religiosa, apostasia, blasfemia, e così via potrebbero essere affrontati sulla base dell'applicazione di questo principio di reciprocità. Anche guardando solo al proprio tornaconto, perciò, l'Occidente ha interesse a sperare di preservare tali comunità non musulmane nella loro patria originaria, e di levare la voce, quando possibile, perché siano trattate bene dalle autorità locali, se deve esserci qualche speranza di collegare reciprocamente ciò agli alti standard di tolleranza sotto i quali i musulmani vivono in Occidente. Infatti l'insistenza dell'Occidente sulla reciprocità, come base per la responsabilità, deve idealmente abbracciare "tutti" i cittadini - cristiani, musulmani, Baha'i, ed altri - che vivono nei paesi arabi e islamici, dove le condizioni di libertà e i diritti per tutti passano dal discutibile al deplorevole. La recente sentenza di flagellazione e imprigionamento comminata a una donna musulmana, vittima di una violenza di gruppo in Arabia Saudita, è un caso spinoso al riguardo e il grido dell'Occidente contro questa barbarie è stato amaramente di gran lunga insufficiente rispetto a quanto era necessario. Porre in rilievo come un'esistenza dignitosa e protetta per i cristiani nella loro originaria terra mediorientale accresca la moderazione, faciliti la comprensione e il confronto reciproco attraverso una mediazione culturale creativa e costituisca un pre-requisito per invocare la nozione di reciprocità in relazioni internazionali ed intrecci culturali, non significa certamente insinuare che l'Occidente pecchi di favoritismo nei confronti dei cristiani indigeni dell'Oriente. A causa di un'ipersensibilità negli ambienti politici occidentali per questo che è un vero tranello, chi orienta la politica è caduto nell'estremo opposto, o mostrando una tendenza ad un totale oblio, quando si tratta di questi cristiani avversati o quella ad essere in aperta complicità con i loro aguzzini e persecutori. Ci si deve disfare al più presto di questo atteggiamento politico distruttivo se vogliamo che tutti, eccetto i trasgressori veri, ne traggano beneficio.