In Turchia, la religione islamica si è unita al sentimento nazionale ed è diventata un carattere imprescindibile dell'Anatolia. La secolarizzazione imposta da Mustafa Kemal ha acuito sia l'identità musulmana sia quella turca della popolazione
Ultimo aggiornamento: 21/06/2022 09:44:47
È abbastanza singolare la posizione della Turchia all'interno dell'Islam. Nonostante le origini prettamente arabe della religione, i turchi se ne sono appropriati con passione facendone un segno d'identità e di vanto nazionali. La fondazione della Repubblica sotto la guida di Mustafa Kemal Atatürk, capo militare e politico, geniale quanto spregiudicato, circondato quasi totalmente dai superstiti del vecchio partito Unione e Progresso (Ittihad ve Terakki) dell'ultima fase ottomana, non fece che acuire, per quanto paradossale ciò possa sembrare, sia la coscienza d'identità islamica sia il senso di distacco dagli altri popoli musulmani.
L'ideologia kemalista, che si fonda sul principio di assoluta fedeltà alla Repubblica, fino a poco tempo fa veniva quasi unanimamente percepita in Occidente come un movimento laico e occidentalizzante. Certamente vi era in tale assunzione una parte di verità. Occorreva però una grande cautela per evitare semplificazioni e malintesi, che hanno condizionato l'atteggiamento occidentale fin quasi agli ultimi, recentissimi sviluppi dello scenario politico turco, quando hanno cominciato a farsi strada tra i commentatori alcuni nuovi orientamenti, con una maggiore sensibilità alla sostanza più che alle apparenze. Lo stesso Mustafa Kemal, in una memorabile sortita, aveva lanciato una parola d'ordine fondamentale per ogni tentativo ermeneutico del suo pensiero: «Noi siamo simili a noi stessi!» (Biz bize benzeriz).
Per quanto riguarda la laicità, questa ha spesso assunto nei provvedimenti legali molto più le sembianze di un laicismo esasperato che di una equilibrata separazione tra sfera religiosa e politica. Si sa anzi, benché la storiografia ufficiale preferisca ignorarlo, che il Fondatore della Repubblica non nutriva alcuna simpatia per l'Islam. Nondimeno, risalgono proprio agli anni della sua presidenza, rafforzati poi sotto i suo successori, tutti i provvedimenti tesi a precludere ai minoritari non musulmani (gayrimüslim) l'accesso che non era impedito nell'Impero ottomano alle funzioni dell'amministrazione statale. Ma siccome un regolamento basato sulla discriminazione etnica sarebbe stato troppo stridente, la professione di fede musulmana offrì un valido e chiaro criterio di selezione. Vi erano, ovviamente, di mezzo i curdi, la minoranza etnica musulmana più numerosa, ed altre etnie di minore consistenza. Ma si sperava di poterle assimilare, cioè turchizzarle del tutto (dopo le decimazioni dei curdi tra gli anni Venti e Trenta) in nome della comune fede islamica. Il progetto, anche se riuscì solo in parte, è già sufficiente di per sé a porre in luce quanto fosse ambiguo, in sede di diritto e di politica, il concetto di laicità kemalista.
Vi è poi un altro aspetto critico dell'ideologia-prassi kemalista, altrettanto, se non ancora più fondamentale. È il concetto stesso di democrazia. È ovvio che né vivente Mustafa Kemal, né sotto il suo successore (Ismet Inönü) vi fu in Turchia una democrazia istituzionale. In verità ciò non dovrebbe neppure stupire più di tanto, se si pensa alla situazione vigente in Europa tra gli anni Venti e Trenta. Le istituzioni democratiche furono l'effetto dell'ingresso della Turchia nel sistema della difesa atlantica (NATO), dopo la seconda guerra mondiale. Ma ciò che costituisce l'anima e lo spirito di quelle istituzioni non penetrò nelle strutture profonde del sistema politico del paese; il sistema rimase basato sul principio, fatto risalire dai kemalisti allo stesso Fondatore della Repubblica, della prevalenza delle Forze Armate su tutto il resto, forze armate considerate come gli autentici eredi e i custodi giurati dei "principi kemalisti" e della "indivisibilità della patria turca". Infatti il Capo di Stato Maggiore è in Turchia il personaggio "politico" più in vista, più oracoleggiante, più riverito, e più attentamente seguito in tutto quel che dice e fa. I colpi di stato militari, susseguitisi infallibilmente a scadenza decennale, nel 1960, '70 e '80, ne sono la conferma.
Da questo punto di vista, l'ultimo ventennio ha rappresentato quasi una svolta. Ed infatti, sotto la presidenza di Turgut Özal e, poi, sotto la spinta dei "pacchetti" di riforme europei, si avviò timidamente un processo di democratizzazione che sembrava ricevere un'ulteriore accelerazione con l'avvento al potere, quasi plebiscitariamente, del partito Giustizia e Sviluppo (Ajkp), d'ispirazione islamica ma non fondamentalista, benché la "coalizione" kemalista-laicista-militarista cerchi di presentarlo come tale e, certamente, gruppi fondamentalisti vi guardino come a un punto di riferimento. È un po' il destino dei partiti ispirati a fedi religiose (e non solo di essi ovviamente) quello di far convivere nel proprio seno varie tendenze, come si è visto pure per la democrazia cristiana in Italia. Non va dimenticato, comunque, che dai tempi dell'Ittihad la religione, nella politica turca, fu il più delle volte solo un pretesto per il perseguimento degli obiettivi nazionalistici, dai sogni panturanici al genocidio degli armeni, fino all'effettiva "islamizzazione", cioè turchizzazione, dell'Anatolia.
Il partito Giustizia e Sviluppo è, nella vita della Repubblica, il primo gruppo di uomini al potere non settariamente kemalisti e senza un cordone ombelicale risalente agli ittihadisti. Era da aspettarsi che simili sviluppi suscitassero per reazione forti spinte nazionalistiche, anzi ultra nazionalistiche, e che i militari e i circoli kemalisti ortodossi facessero di nuovo sentire una voce minacciosa. Che fino a questo momento non vi sia un colpo di stato [l'articolo risale al 18 aprile 2009, ndr] potrebbe forse significare che rispetto alla seconda metà del secolo scorso qualcosa sia cambiato. Ma per un giudizio più congruo, occorrerà seguire con molta attenzione i prossimi esiti di questo duello, che pare decisivo, tra le fazioni kemaliste-militariste e quelle che vi si oppongono, con il rischio di degenerazioni sempre in agguato.