Negli ultimi anni, molti studi si sono concentrati sugli aspetti politici dell’Islam. Ma la dimensione etica è fondamentale nella vita dei musulmani

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:07

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Recensione di Ida Zilio-Grandi, Le virtù del buon musulmano, Einaudi, Torino 2020

 

È opinione diffusa che l’Islam sia religione normativa per eccellenza. È vero infatti che l’Islam stabilisce con precisione ciò che è lecito e ciò che non lo è. Tuttavia, la dimensione giurisprudenziale, accentuata dall’enorme quantità di fatwe emesse dalle autorità islamiche contemporanee, non può essere scissa dalla dimensione etica. Ed è propriamente a questa che Ida Zilio-Grandi, professoressa all’Università Ca’ Foscari di Venezia e direttrice dell’Istituto italiano di cultura di Abu Dhabi, dedica il suo ultimo libro.   

 

Del ruolo centrale dell’etica, in arabo akhlāq – letteralmente “caratteri”, termine che rimanda all’atto divino della creazione –, erano ben consapevoli i tradizionisti, e i primi teologi ed esegeti musulmani. Lo storico persiano al-Isfahānī, vissuto circa 400 anni dopo il Profeta dell’Islam, nel suo Ornamento dei santi riportava uno dei numerosi detti profetici che esortano il fedele alla bontà: «Dovete avere un buon carattere, chi di voi ha il carattere migliore è il migliore di voi nella religione».

 

Il libro è un compendio delle principali virtù del buon musulmano, che l’autrice esplora a partire dai testi fondativi dell’Islam – il Corano e le Tradizioni profetiche –, e dall’abbondante letteratura religiosa e sapienziale classica dedicata al tema. L’etica ha infatti toccato la sensibilità di molti dei più rinomati intellettuali dei primi secoli dell’Islam, che hanno redatto manuali di buona condotta e testi sapienziali o di tipo esegetico e teologico. Vanno in questa direzione gli scritti di Ibn Abī al-Dunyā (m. 894), precettore di califfi e principi, il Perfetto codice di maniere e moralità del celebre tradizionista al-Bukhārī (m. 870) o ancora Il buon comportamento nella religione del filosofo e mistico Abū Hāmid al-Ghazālī (m. 1111).

 

La pazienza, la gratitudine, l’assennatezza, la misericordia, l’ospitalità, il silenzio, la modestia, la bellezza, il pentimento, la tolleranza e la pace, la gentilezza e la cura degli animali: sono queste le principali virtù del buon musulmano. La pazienza spicca sopra tutte le altre qualità: al-Sabūr, il Pazientissimo, è il novantanovesimo nome che la tradizione attribuisce a Dio, mentre il Corano esorta incessantemente l’uomo a essere paziente, perché «Dio ama i pazienti» (3,146), concede loro il suo perdono (11,11) e li guida alla vittoria, come ricorda la sura della Vacca riprendendo la storia biblica di Davide e Golia (2,249-250). La pazienza inoltre è la caratteristica dei Profeti, dei Compagni di Muhammad e di quanti amano Dio.     

 

E poi la gratitudine, «necessaria a chi vuole evitare la disgrazia» (p. 29), da praticarsi a imitazione di Dio, cui la tradizione islamica riconosce il nome di al-Shakūr – il Gratissimo, e a alla quale il Profeta stesso esortava i credenti perché «La pazienza è metà delle fede, la gratitudine è metà della fede e la certezza è la fede tutta intera».

 

La basmala, la tradizionale invocazione che apre tutte le sure coraniche, salvo la nona, e in generale i testi di carattere religioso, introduce un’altra qualità divina che il fedele a modo suo è chiamato a imitare: la misericordia (rahma). Menzionata più di 100 volte nel Corano, la clemenza – ricorda Zilio-Grandi – «rappresenta la cifra del rapporto che lega il creatore al mondo» (p. 55), è «il libero atto di carità divino» verso l’essere umano. Questa caratteristica, che è primariamente attribuita a Dio – il Clemente e il Misericordioso, come recita la basmala –, qualifica anche l’essere umano di carattere nobile. La sura del Viaggio Notturno raccomanda ai figli di mostrare misericordia verso i genitori, la sura dei Rum fa della rahma l’essenza del legame tra i coniugi mentre la sura del Ferro attribuisce questa virtù a quanti «seguirono Gesù Cristo», e dunque i cristiani.

 

Tra le qualità nobili non poteva ovviamente mancare l’ospitalità, uno dei massimi valori del musulmano e «porta d’accesso al paradiso» (p. 70). Il Corano insiste a più riprese sui diritti del viandante o del «figlio della strada», come lo definisce la sura della Vacca (Cor. 2,215), che dev’essere accolto e ospitato con spirito di assoluta gratuità. Nella tradizione islamica Abramo, il padre del monoteismo, è stato il primo a dare ospitalità, un «principe dell’accoglienza» l’ha definito il già citato Ibn Abī al-Dunyā nel suo Libro dell’accoglienza dell’ospite, che «volle un palazzo con quattro porte, una per ogni punto cardinale, per accogliere con facilità tutti i viandanti di qualunque provenienza» (p. 73).

 

Il buon musulmano si astiene inoltre da sconcezza e scurrilità preferendo la modestia a ciò che è fonte di vergogna. È questa la virtù della pudicizia, in arabo hayā’, una qualità che riguarda le donne e gli uomini indistintamente, e che un detto di Muhammad circostanzia in questi termini: «Tra quel che la gente ha appreso dalla prima profezia, c’è questo: se non ti procura vergogna fa’ pure quel che vuoi». E se la sura della Luce è senz’altro quella più citata per corroborare il precetto della modestia, è altrettanto vero che la Tradizione islamica abbonda di riferimenti sull’opportunità di tenere un comportamento pudico. La pudicizia, infatti, è una qualità dei Profeti che hanno preceduto Muhammad, ma anche dei califfi ben guidati ‘Uthmān e ‘Alī, «talmente riservato che perfino gli angeli avevano pudore di lui» il primo, e «dolce e remissivo con la moglie Fatima» il secondo (p. 97).

 

Alla virtù del pentimento, o tawba, Zilio-Grandi dedica un lungo paragrafo in cui sintetizza le interpretazioni dei maggiori esegeti classici e contemporanei dei passi coranici dedicati al tema. Se la nozione coranica di tawba esprime contemporaneamente l’azione dell’uomo che torna penitente a Dio, e l’azione del Creatore, che accetta il ritorno della Sua creatura, gli esegeti hanno compiuto un’operazione che l’autrice definisce «correttiva» (p. 112), ponendo una distinzione tra l’azione penitente dell’uomo e l’azione perdonatrice di Dio. Questa operazione è piuttosto evidente nei commentari coranici più antichi, come quello di ‘Abd al-Razzāq al-Sana‘ānī (m. 827) e di al-Tabarī (m. 923). Nei secoli successivi sulla questione del pentimento sarebbero stati versati fiumi di inchiostro; una delle trattazioni più approfondite si trova nelle Mafātīh al-ghayb, il monumentale commentario coranico di Fakhr al-Dīn al-Rāzī (m. 1210) che, a partire dal racconto coranico del ritorno a Dio di Adamo (2,37), si dilunga in un vero e proprio trattato sulla tawba.  

 

E infine, la gentilezza (rifq), intesa come delicatezza nei modi e benevolenza verso l’intero creato. «La gentilezza è il capo della sapienza» (p. 146) recita un detto profetico riportato da al-Kharā’itī, teologo musulmano vissuto tra l’Iraq e la Siria nel X secolo. Ma volendo considerare narrazioni contenute in raccolte canoniche più note, sono senz’altro esemplificative quelli riportate nelle Sunan di al-Tirmidhī (m. 892), che promettono il paradiso a «chi è gentile con i deboli, insieme a chi è amorevole con i genitori e fa del bene a schiavi o sudditi» (p. 147).

 

L’ultimo decennio è stato segnato da un’inflazione di ricerche e analisi sul fenomeno salafita-jihadista e sull’Islam politico. Questi studi, indubbiamente favoriti dall’attualità (la Primavera araba prima, e l’ascesa dell’Isis poi), contribuiscono a spiegare dei fenomeni dalle conseguenze molto impattanti sia sulle società musulmane che su quelle occidentali, ma non rendono giustizia all’elemento morale che l’Islam veicola. Questo libro ha invece il grande merito di mettere in luce un aspetto generalmente meno indagato ma tutt’altro che secondario nella cultura islamica. L’etica è la bussola che orienta la vita del buon musulmano; in questo compendio Ida Zilio-Grandi riesce a illuminare in maniera magistrale questa dimensione dando voce ai grandi pensatori musulmani antichi e ai contemporanei.

 

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