Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:11:38

Due anni dopo l’inizio dei sommovimenti che sono tutt’ora in corso nel mondo arabo è assai difficile pronunciarsi sul loro esito e sulla loro direzione. Che cosa accadrà? Dove vanno? Sono domande alle quali si può rispondere solo con congetture. Le rivoluzioni del tutto inaspettate in Tunisia prima e poi, in Egitto, dalle quali sono scaturite le rivoluzioni in Libia, Bahrein e Yemen, le agitazioni in Giordania, le riforme in Marocco e, infine, il grande e complesso conflitto della Siria, con le sue ramificazioni in tutto il suo vicinato e nella regione stessa, sono state riassunte sotto la denominazione di “primavera araba” in Occidente. Gli occidentali hanno visto nelle rivoluzioni tunisina ed egiziana una continuazione della terza ondata di democratizzazione, iniziata dopo la guerra fredda con la caduta del comunismo in Europa orientale e in Russia e proseguita con le varie rivoluzioni “colorate” in Ucraina, in Georgia e altrove. Tutti furono impressionati in effetti dal fatto che i cittadini in rivolta non mettevano in discussione né la religione, né Israele, né gli Stati Uniti, ma puntavano direttamente alla loro libertà. Successivamente, si è visto che i rivoluzionari erano un’avanguardia urbana di un movimento destinato ad aggregare le forze ispirate all’Islam, ben più vaste e organizzate dell’avanguardia, e ad essere sovrastato da queste forze. Così, la primavera araba, come rivoluzione essenzialmente democratica e secolare, è rimasta un po’ pateticamente sullo sfondo. Sono prevalse di conseguenza le definizioni, fra loro antagoniste, di rivolte arabe e di risveglio islamico, a seconda degli angoli visuali e delle preferenze politiche e ideologiche. Perciò, un cambiamento che all’inizio sembrava essenzialmente democratico si è rivelato di gran lunga più complesso e, soprattutto, diversificato. Nondimeno un punto è sicuro: la storica passività araba rispetto ai regimi in essere è stata superata. Persino i salafiti, che danno per scontata la legittimità dei governanti (a meno di una fatwa dei loro leader religiosi) e sono politicamente quietisti, hanno fondato dei partiti politici. Specialmente in Egitto – assai meno in Tunisia – partecipano attivamente alla vita politica e prendono posizione. È difficile che questo sviluppo si mostri reversibile. Perciò – al di là della natura del movimento e della sua definizione – c’è in esso un fattore sicuramente democratico, cioè la presa di coscienza da parte dei cittadini e delle masse della propria individualità e dei propri diritti. Questo significa che, se sfortunatamente la transizione dovesse andare, come molti pensano, verso un nuovo autoritarismo, quest’ultimo non avrà una vita facile e dovrà fare i conti con una forte opposizione. In questo senso, le rivoluzioni del 2011 sono comunque un tornante democratico nella storia araba, con il quale prima o poi anche i regimi più chiusi, come quelli della penisola arabica, dovranno fare i conti. Nell’immediato, come abbiamo appena detto, mentre il movimento investe tutta la regione, gli sviluppi sono molto diversi da Paese a Paese. I due laboratori effettivamente aperti sono i due antesignani, la Tunisia e l’Egitto. Altrove il cambiamento ha preso strade diverse, come in Marocco e Giordania, dove l’effettiva legittimazione delle rispettive monarchie limita la spinta riformista, in Libia e in Yemen, dove i conflitti interni, religiosi e tribali, limitano severamente la sfera della politica, e in Siria e Libano, dove il cambiamento è impedito da potenti fattori regionali (l’Iran) e transnazionali (i jihadisti e Al-Qaida). Dunque, come procedono le transizioni in Egitto e Tunisia? Su due strade molto diverse. Mentre in Egitto, una dinamica confusa e ambigua sembra vieppiù indicare, ogni giorno che passa, la transizione da un regime autoritario secolare a uno religioso, ma ugualmente autoritario – un regime “faraonico”, come molti commentatori egiziani sottolineano - in Tunisia una transizione non meno complessa e penosa sembra invece diretta verso un regime autenticamente democratico, sorretto da un islamismo aperto e tollerante. Si può tentare di riassumere, molto brevemente, le due dinamiche. In Egitto, l’uscita di Mubarak è stata resa possibile dal fatto che i militari, approfittando della rivolta popolare, hanno fatto fuori il regime. Di fatto, c’è stato un colpo di stato dei militari, che hanno poi preso in mano la guida di un’annunciata transizione alla democrazia. Ma quando le elezioni legislative sono state largamente vinte dai Fratelli Mussulmani, i militari hanno iniziato una prova di forza coi vincitori in alleanza con le opposizioni, soprattutto il vecchio regime. Arrivate le elezioni presidenziali, i militari hanno desistito e hanno lasciato via libera all’elezione del candidato dei Fratelli Musulmani, Mohammed Morsi. Subito dopo l’ambigua vecchia guardia militare è stata messa in minoranza da militari più giovani, che si sono accordati con Morsi, ritirandosi dalla scena politica. Alla fine del 2012, in presenza di un’opposizione frammentata ma sempre più militante, Morsi ha fatto una serie di passi oggettivamente autoritari, fra cui l’avocazione a sé del potere legislativo, passi che hanno finito di spaccare il paese. Da allora, mentre si moltiplicano gli aspetti autoritari, la situazione socio-economica non fa che precipitare senza che il governo mostri la competenza necessaria. In Tunisia, gli esponenti dell’Islam politico hanno vinto le elezioni, ma hanno formato un governo di coalizione con due partiti secolari. Questo governo, a causa dei dissensi interni al partito di maggioranza an-Nahda fra una politica inclusiva e secolarizzante e una ideologicamente più ortodossa, nonché dell’opposizione irriducibile dei laici del vecchio regime, ha avuto vita difficile fino alla crisi politica scatenata dall’assassinio di un leader laico, Belaïd. Questa però è stata superata grazie al prevalere, dentro an-Nahda, dell’ala moderata di Rachid Ghannouchi. A questa maggiore stabilità politica fa riscontro un governo competente che, sebbene la Tunisia sia ancora in una situazione socio-economica molto seria, comincia però con ogni evidenza a risalire la china. Sia in Tunisia che in Egitto la questione centrale, sul piano politico, è la polarizzazione fra islamisti e non-islamisti. I non-islamisti, laici o minoranze religiose e culturali, non ritengono gli islamisti capaci di guidare il governo con spirito democratico, vale a dire inclusivo e rispettoso dei diritti delle minoranze. Gli islamisti sembrano più influenzati dalle loro correnti integraliste e assai meno da quelle consapevoli della necessità di costruire società inclusive, egualitarie e differenziate. Su questa base è emerso uno scontro sempre più irriducibile. Se in Tunisia la strada della democrazia appare irta di rischi, ma del tutto verosimile, lo stesso non si può dire dell’Egitto. Se si guarda agli stessi Paesi dal punto di vista delle riflessioni e dei programmi è anche chiaro che nell’élite governativa tunisina prevale una visione ideologica coerente con la sua apertura politica, mentre in Egitto, c’è una grande vivacità presso le opposizioni e vari rappresentanti islamisti lontani dal potere (come nell’università Al-Ahzar), ma dalla sfera del potere – in particolare – dai Fratelli Musulmani e dal loro partito, non viene nulla. Esiste perciò in Tunisia una speranza di dialogo interno che manca o è più debole in Egitto. Questo è ben documentato nel numero di “Oasis” dedicato alla transizione, dove sono numerosi i contributi tunisini, tutti di grande interesse. Quello della professoressa Zeghal spiega molto bene il percorso intellettuale tunisino così come si riflette nel pensiero di Rachid Ghannouchi. Da un lato, questo pensiero collega lo sviluppo della società islamica al grado di sviluppo della coscienza dei fedeli e del loro livello di istruzione; c’è dunque una lunga transizione, che era emersa già nella visione di Hamas, quando questo movimento parlò di “hudna” riguardo ad Israele. Dall’altro, lo sviluppo della società islamica si prospetta all’interno della storia e delle caratteristiche nazionali, come lo statuto personale introdotto all’epoca di Bourghiba, e non può non tenerne conto. Su questa base intellettuale, il destino della transizione politica tunisina appare ovviamente più lineare e certo di quella egiziana. Tuttavia, resta difficile ogni previsione. La transizione tunisina è un’opportunità di dialogo per gli occidentali interessati al dialogo più evidente di quella egiziana. Che cosa devono fare gli occidentali che guardano con interesse alle transizioni oggi aperte nel mondo arabo? Tentare di influire è inutile e rischioso. Moltiplicare le occasioni di dialogo e mantenere una grande apertura è invece utile ed è quello che occorre fare, secondo lo spirito del resto evidente del numero di “Oasis”. * Roberto Alibnoni è Consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali-IAI, Roma