Un'analisi delle società mediorientali post rivoluzioni attraverso la produzione letteraria araba contemporanea
Ultimo aggiornamento: 18/06/2024 14:28:22
Un’analisi anche solo quantitativa della produzione letteraria araba negli anni che hanno preceduto le proteste del 2011 avrebbe mostrato con una certa chiarezza l’ebollizione in corso nelle società del Nord Africa e del Medio Oriente. Nel periodo immediatamente successivo alle rivolte, gli scrittori hanno per lo più cercato di consegnare ai posteri le azioni e le emozioni delle manifestazioni di piazza. Oggi prevale l’idea di un futuro angosciante e disumano, ma non tutti si danno per vinti.
Per assistere dall’interno ai moti rivoluzionari arabi del 2011, il lettore italiano ha a disposizione due romanzi che, anche se non potrebbero essere più diversi tra loro, in ultima istanza risultano complementari: Sono corso verso il Nilo dell’egiziano ‘Ala al-Aswani[1] e La Siria promessa[2] della siriana Hala Kodmani.
Le differenze tra le due opere sono molteplici e di vario registro, e riguardano sia i loro autori sia il narrato. ‘Ala al-Aswani è probabilmente lo scrittore arabo più noto in patria e all’estero, Hala Kodmani una giornalista d’inchiesta per la stampa francese. Aswani scrive in arabo, Kodmani in francese. Aswani ha vissuto fino al 2018 al Cairo, Kodmani vive a Parigi fin dalla più tenera età. Aswani persegue la forma del romanzo realistico dando voce e sostanza ai suoi protagonisti, che vuole specchio e rappresentazione delle diverse anime della società nel momento storico di cui narra. Kodmani, qui al suo primo e probabilmente unico romanzo, si inventa un genere letterario ibrido che, in forma di scambio epistolare tra sé stessa e il padre scomparso da qualche anno, registra le proprie e altrui reazioni al riempirsi delle piazze arabe.
La complementarietà risiede nel fatto che i due romanzi si approfondiscono a vicenda. Sono corso verso il Nilo, dandosi i connotati dell’affresco sociale fotografato nel qui e ora, racconta l’euforia dei diciotto giorni di Piazza Tahrir, al Cairo, e si interrompe dopo aver dato conto delle prime derive e delle avvisaglie della controrivoluzione a venire. La Siria promessa persegue, invece, una ricostruzione più marcatamente storico-politica percorrendo in diretta da Parigi il susseguirsi frenetico delle date in cui si sollevano la Tunisia, l’Egitto narrato da Aswani, il Bahrein, l’Arabia Saudita, la Libia, lo Yemen e, il 22 marzo, la Siria, per poi arrestarsi bruscamente il 20 febbraio 2012, quando è ormai chiaro che il regime di Bashar al-Assad non cadrà e che gli altri regimi stanno reagendo. In entrambi i casi, quindi, si ravvisa la volontà di fermare l’analisi al momento in sé, quasi una richiesta nemmeno troppo velata di spostare l’attenzione dalle cause nazionali, dalle incivili guerre interne che verranno e dal complesso groviglio di rapporti internazionali in essere, per riportarla sulle persone, sui cittadini, sulla gente comune.
Pur nelle loro differenze, i due romanzi concordano nell’intento dei loro autori di raccontare dall’interno fatti che sono stati spesso mal interpretati dai commentatori e ancora più spesso dismessi con un eccesso di faciloneria. Qui, al contrario, quegli stessi accadimenti vengono presentati come una pietra miliare della storia araba nel suo insieme e, pur se sottotraccia, spingono a credere che siano destinati a riverberarsi nel lungo – se non lunghissimo – periodo.
Il romanzo come documento storico
A ben vedere, Aswani aveva già affrontato i medesimi argomenti nel suo precedente romanzo, Cairo Automobile Club[3], raccontando di una lotta di classe ambientata negli anni ’40 all’interno di un prestigioso circolo che poteva vantare tra la propria clientela addirittura re Faruk. Ma con Sono corso verso il Nilo sceglie di narrare l’attualità. Ed è un atto di coraggio riconosciutogli anche dalla critica letteraria solitamente poco generosa. Scrive infatti Elias Khouri in un editoriale pubblicato sul quotidiano al-Quds al-‘Arabī il 9 agosto 2018: «Sono corso verso il Nilo è, a mio avviso, l’unica documentazione letteraria completa della rivoluzione e del tragico destino che ha colpito i giovani uccisi, imprigionati e torturati dalla diabolica alleanza tra l’esercito egiziano e la Fratellanza Musulmana. […] L’importanza del romanzo risiede in questo, nella sua eccezionale capacità di raccogliere e documentare i fatti, di rendere omaggio alla memoria della sofferenza egiziana raccontando la storia dei giovani della rivoluzione e il modo in cui l’esercito e la Fratellanza hanno usurpato i loro sogni di cambiamento. […] È un romanzo significativo perché fornisce una documentazione importante sulla rivoluzione del gennaio 2011 e sulla nuova generazione che ha “dato l’assalto al cielo” nonostante vivesse in un mondo politico stagnante dove, dopo lunghi anni di tirannia, le uniche forze organizzate erano la polizia segreta, l’esercito e la Fratellanza. […] [Oggi] la controrivoluzione sembra essere riuscita a creare una nuova tirannia anche peggiore del passato, più sfacciata nel rompere ogni convenzione umanitaria. Il coraggio del romanzo di Aswani sta nell’aver rotto il silenzio. Per questo motivo merita di essere letto come una testimonianza dei nostri tempi e dei sogni infranti del popolo egiziano».
Aswani, dunque, mette in scena, attraverso protagonisti di fantasia ma attenendosi ai dati di realtà, le due generazioni di egiziani di varia estrazione e di diversi orientamenti che hanno vissuto in prima persona la rivoluzione nei primi mesi del 2011. La prima generazione, quella dei padri, è un ampio ventaglio che va dal capo dei servizi segreti all’autista della dirigenza di una fabbrica, dal direttore dello stesso stabilimento agli operai che ci lavorano, dal promettente avvocato che si è rovinato la carriera con la politica fino a quella che è probabilmente la figura più riuscita: Ashraf, l’attore fallito, il borghese che vive di rendita e che, mentre osserva il dipanarsi della rivoluzione sotto le sue finestre, trova la propria redenzione. È una generazione in cui le madri, personaggi quasi sempre meno pregnanti, fanno per lo più da corollario e da portavoce ai mariti. La seconda generazione, invece, quella dei loro figli e figlie non conosce sperequazioni di genere e cerca di superare quelle di censo. In gran parte istruiti, informati e connessi, quando non lo sono hanno comunque una coscienza di sé che stride con la retorica tradizionalista. È una gioventù in rottura con il proprio passato, vuoi per dissenso ideologico con i propri padri e madri, vuoi per l’evolversi delle condizioni materiali del Paese.
La Siria promessa, dal canto suo, restituisce la cronistoria familiare dell’autrice dando conto di ben quattro generazioni. La prima è quella del nonno paterno e di quanti hanno attraversato la prima metà del XX secolo, e cioè gli ultimi decenni di sottomissione all’Impero ottomano e il momento della sua dissoluzione. La seconda generazione, narrata in prima persona dal padre dell’autrice, copre gli anni della lotta per l’indipendenza (ottenuta nel 1946), l’esplodere del panarabismo, le varie declinazioni della modernizzazione in atto nel mondo arabo, fino all’instaurarsi di uno Stato di polizia con il suo corollario di repressione di ogni opposizione.
La terza è la generazione della stessa Hala Kodmani e dei suoi coetanei cresciuti, dentro o fuori i confini della Siria, in una sorta di disaffezione per il proprio Paese, una generazione che solo a partire dallo scoppio delle rivoluzioni del 2011 riscopre le proprie origini, ritrova un senso profondo di appartenenza e la fierezza della propria sirianità e arabità, con tutto l’attivismo che questo comporta. La quarta – alla quale, come in Aswani, viene dato ampio spazio – è la generazione della gioventù rivoluzionaria, di cui dall’esterno non si sospettava l’esistenza, una gioventù che comunica attraverso la rete, che in Internet e nei social network ha trovato l’unica possibile alternativa per aggirare le leggi di emergenza e per creare virtualmente uno spazio pubblico di aggregazione nel quale ritrovarsi e contarsi. Una generazione che si esprime in una lingua diversa da quella di chi l’ha preceduta, soprattutto in materia di disparità di genere.
Nell’uno e nell’altro caso, perciò, a essere messo in evidenza è almeno un punto focale: il portato delle giovani generazioni, che – un dato che non deve mai essere dimenticato – rappresentano, a seconda dei Paesi, tra il 60% e il 70% dell’intera popolazione.
In breve, entrambi i romanzi danno volto e voce alla condizione che i demografi – in primis Philippe Fargues con il suo Generations Arabes[4], purtroppo mai tradotto in italiano – chiamano «crisi della transizione demografica», fenomeno che legano al «grado di alfabetizzazione della popolazione, più precisamente al momento in cui, in una determinata società, la metà degli uomini e delle donne dai 20 ai 24 anni è in grado di leggere e scrivere, quando cioè la prima generazione a maggioranza alfabetizzata arriva all’età adulta»[5].
È un cambio di passo culturale che non può non essere indolore perché innesca un processo di destabilizzazione dei «rapporti d’autorità nelle famiglie. La diffusione del controllo delle nascite che segue l’aumento del livello educativo fa vacillare le relazioni tradizionali tra uomini e donne, l’autorità del marito sulla moglie. Combinate o meno, queste rotture d’autorità producono un disorientamento della società e, frequentemente, crolli transitori dell’autorità politica […]. Detto altrimenti, l’età dell’alfabetizzazione e della contraccezione è anche, molto spesso, quella della rivoluzione»[6].
Le gioventù arabe scese in piazza nel 2011 rientrano a pieno titolo in questo processo e desta qualche meraviglia che le teorie dei demografi siano a stento citate nella discussione mainstream. Così come raramente citate sono quelle di un’altra categoria, quella degli studiosi che osservano da vicino i movimenti e i cambiamenti in ambito culturale[7] e, nelle loro ricerche, hanno da anni messo in evidenza come la gioventù araba apparisse frustrata nella sua effervescenza, naturalmente protesa verso l’universalità, dolorosamente in linea con i tempi moderni e i diritti/doveri che ne dovrebbero risultare. O ancora, più nello specifico, i rapporti sul mondo arabo del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (PNUD), che mostravano con chiarezza su quali coordinate stessero muovendosi le popolazioni.
Cronache della dissidenza
Durante le rivoluzioni del 2011 di cui narrano sia Sono corso verso il Nilo sia La Siria promessa, però, a trovare conferma alle loro aspettative sono stati soprattutto gli studiosi di letteratura. Da un’analisi anche solo quantitativa della produzione letteraria araba degli ultimi decenni si evinceva con chiarezza che la realtà aveva travalicato gli stereotipi correnti. A dimostrazione che la dissidenza politica è da sempre un fatto diffuso, per esempio, bastava guardare all’ampio filone, ormai “canonico”, che va sotto il nome di “letteratura di prigionia” e che tratta della detenzione di molti intellettuali arabi – musulmani, cristiani o laici, senza distinzione – che hanno trascorso mesi e a volte anni tra le quattro pareti di una cella a causa di una esplicita opposizione alle politiche dei governi in carica quando non per una semplice affiliazione ai partiti d’opposizione.
All’epoca, a dimostrazione della continuità del fenomeno, il lettore italiano aveva a disposizione, a titolo di esempio, le opere letterarie del saudita ‘Abd al-Rahman Munif con All’est del Mediterraneo[8], del marocchino Abdellatif Laabi con Ordalia[9], del siriano Ibrahim Samuel con i racconti che compongono L’odore dei passi pesanti[10], dell’egiziana Latifa al-Zayyat con Carte private di una femminista egiziana[11], dei marocchini Fatna El Bouih, Aziz El Ouadie, Abdellatif Zrikem e Noureddine Saoudi raccolti nel collettaneo Sole Nero. Anni di piombo in Marocco[12] e dell’iracheno Sinan Antoon con Rapsodia irachena[13], cui avrebbero fatto seguito, in anni più recenti e solo per citarne alcuni, La conchiglia[14] del siriano Mostafa Khalifa e Ogni volta che prendo il volo[15] del marocchino Youssef Fadel. A ben guardare, si tratta di opere che testimoniano dello stesso processo in atto nella totalità dei Paesi arabi.
Dalla stessa analisi quantitativa, inoltre, risultavano minati alla radice almeno altri due assunti dati per scontati. Per smentire l’obsoleta affermazione secondo cui le donne arabe non hanno voce, bastava guardare a come in pochi anni (1995-2000) la produzione di narrativa a firma femminile fosse passata, a seconda dei Paesi, da un risicato 5-15% sul totale del pubblicato a un robusto 50% generalizzato. E per controbattere alla radicata certezza che voleva le società arabe irrimediabilmente scisse tra una élite abbiente e “occidentalizzata” e un popolino incolto e tradizionalista, era sufficiente una scorsa alle biografie delle ultime generazioni di scrittori, biografie che evidenziavano come una cospicua fetta di popolazione fosse formata da giovani istruiti e proletari, difficilmente catalogabili in una bassa borghesia ma pronti ad assumerne il ruolo propulsivo.
Un’analisi qualitativa della stessa produzione letteraria, invece, metteva in evidenza come nelle loro opere le scrittrici affrontassero, esattamente come i loro colleghi maschi, i temi dell’impegno socio-politico, un argomento centrale delle lettere arabe contemporanee, portando avanti una serrata critica sociale che si schierava contro la dilagante corruzione e contro le tradizioni sclerotizzate. Il tema della sessualità, in particolare, veniva affrontato da angolazioni personali che mettevano in scena temi relativamente nuovi, quali, ad esempio la sessualità insoddisfatta e il tradimento da parte dei compagni di lotta e di letto, seppure operando, a volte, scelte di dichiarato stampo individualista, e reclamando, ognuna a suo modo, uno scollamento con le generazioni precedenti (una sorta di nuova rivolta contro i padri e le madri). Le più giovani, infatti, avevano spesso negato ogni richiamo all’impegno; si rivolgevano alle «piccole cose quotidiane»; si ribellavano ai canoni tradizionali; parlavano di sesso in modo esplicito, dando spazio alle sensazioni e ai piaceri del corpo, alle relazioni sessuali e, a volte, omosessuali.
A essere messo in discussione, poi, era anche l’assunto che vorrebbe dare per scontato l’orientamento prevalentemente religioso della gioventù araba. Per capirlo, era sufficiente una scorsa ai registri interpellati dai giovani scrittori nelle loro opere di narrativa, che in molti casi ricordavano molto da vicino l’exploit della nostrana letteratura «cannibale» di alcuni anni or sono. Dal Marocco all’Iraq, dall’Egitto all’Arabia Saudita, disillusi dalla politica, poco desiderosi di partecipare al sociale, ripiegati sull’esperienza del sé, ispirati da Internet e dalla nuova cinematografia, costretti ai margini della storia, i giovani talenti arabi non solo avevano prodotto e hanno continuato a produrre testi spesso di buon livello, ma avevano offerto e hanno continuato a offrire al lettore un’occasione per gettare uno sguardo sui cambiamenti esistenziali di una società considerata conservatrice e tradizionalista e invece, nella realtà, «globalizzata» e perciò preda di quei sussulti identitari che nascono – a ogni latitudine – da un cambiamento repentino.
In quegli stessi testi, il lettore trova anche conferma delle ricadute nel vivere quotidiano di fenomeni sociali, politici, economici e culturali che «pre/occupano» l’opinione pubblica araba da più di due decenni: la tendenza ad apparire più che a essere, l’acquisizione di beni di consumo a mo’ di status symbol, il turismo divenuto di massa, la privatizzazione imperante nel mercato del lavoro, l’impoverimento culturale, la decadenza del senso di appartenenza allo Stato, l’affievolimento dell’etica e della morale, l’arrivismo esasperato, il consumismo sfrenato, a tratti anche la richiesta di un’ecologia salvifica. A ben vedere, gli stessi argomenti ben noti anche all’opinione pubblica europea, avvezza a ritrovarli citati e commentati negli articoli di costume che la stampa dedica a intervalli regolari al cahier de doléances sulle problematiche inerenti alla civiltà dei consumi.
Ecco che, dunque, alla luce di questa rivisitazione della produzione culturale araba a cavallo del secondo millennio, la gioventù richiamata in Sono corso verso il Nilo e La Siria promessa, cessa di essere una variabile impazzita della storia e si dichiara come il prodotto di un processo in corso, ben lontano dall’essere nato dall’oggi al domani.
Un primo bilancio
Ma se, con le lenti del presente, è piuttosto semplice leggere il passato, ben altro è prevedere il futuro. Oggi, al momento del decennale delle rivoluzioni del 2011, è possibile, pur se con qualche difficoltà dovuta ai tempi lunghi della produzione letteraria e a quelli ancora più lunghi della traduzione, tentare un primo bilancio del decennio.
Nel biennio 2011-2012 è risultato subito evidente che il silenzio non si addice alle rivoluzioni e che, di conseguenza, non avrebbero taciuto né il mercato editoriale dei Paesi in cui le rivoluzioni si stavano compiendo né quello dei Paesi che vi stavano assistendo da lontano. E in effetti, in Egitto, per prendere come esempio il Paese più popoloso e tradizionalmente più attivo in campo editoriale, nelle molte librerie del Cairo (quelle librerie spuntate come funghi negli ultimi anni in una città che era da sempre sprovvista di esercizi commerciali indipendenti dedicati al libro e alla lettura) così come durante l’annuale Fiera del Libro (22 gennaio/7 febbraio 2012, ospite d’onore la Tunisia) si sono registrati inconsueti successi di vendita grazie ai numerosissimi testi dedicati ai diciotto giorni di Piazza Tahrir. Cronache individuali, perlopiù, narrate in forma di diario sia da scrittori di chiara fama (come Ibrahim ‘Abd al-Meghid, Nawal al-Sa‘dawi o Mekkawi Sa‘id) sia da giovani autori emergenti.
La volontà di consegnare ai posteri le emozioni e le azioni che avevano popolato quelle giornate cruciali sembra essere stata la caratteristica principale di una produzione che solo in sporadici casi ha assunto la forma compiuta di una docu-fiction letteraria (Hisham al-Khishin, Ahmad Sabri Abu-l-Futuh) o di un graphic novel (Ahmad Salim/Rami Habib, Muhammad Hisham ‘Obayah/Hanan al-Karargi) ma che, in ogni caso, si è rivelata talmente florida da spingere anche una casa editrice afferente al Ministero della Cultura a dedicare un’intera collana alla «creatività della rivoluzione».
Nel complesso, il mercato editoriale italiano, pur pagando lo scotto della sua inevitabile frammentazione, nello stesso periodo ha offerto un campionario piuttosto fedele di quanto si andava pubblicando in arabo e in inglese. E infatti anche da noi, proprio come accadeva nel mondo arabo, i testi più presenti e di maggior interesse sono state le cronache e i diari quotidiani, le raccolte di editoriali che illuminavano sui prodromi delle rivoluzioni, le ricostruzioni a posteriori degli avvenimenti, i componimenti poetici, i repertori di testimonianze raccolte in diretta e le riduzioni in volume dei post dei blogger. Con in più, come valore aggiunto, il fatto che qui da noi alla voce dei protagonisti diretti – talvolta, purtroppo, tradotti così malamente e/o frettolosamente da annullarne l’incisività – si era aggiunta quella degli italiani che in quei Paesi vivevano e che quei Paesi osservavano con partecipazione.
E sono stati proprio loro a riservarci le migliori sorprese. Mentre in Italia sembrava che ci si fosse limitati a sottolineare l’infinito numero di spazi incancreniti nei vari sistemi autoritari, loro, invece, si erano concentrati sulla ricerca e sull’analisi degli spazi democratici e di libertà che esistevano all’interno di quegli stessi sistemi. Ed è per questo che, già dai primi giorni delle rivoluzioni, hanno potuto consegnare alle stampe riflessioni strutturate e competenti che molto avrebbero dovuto far riflettere.
Tra il disincanto e l’attesa
Per quanto riguarda la letteratura araba nella sua forma più compiuta – il romanzo – gli anni più recenti sembrerebbero aver per lo più dismesso il tema della rivoluzione per indagare, piuttosto, le cause e gli effetti del suo fallimento. Ne è un lampante esempio il romanzo Non ci si bagna due volte nello stesso fiume del tunisino Hassuna Mosbahi[16] in cui vengono ampiamente sottolineati il disordine ingenerato dalla rivoluzione del 2010-2011 e l’insorgere della violenza, fisica e morale, elevata a paradigma della fragilità di tutto un popolo, pessimisticamente e quasi senza remissione descritto come debole e immaturo.
Altrove, appaiono romanzi distopici che mettono in scena un futuro disumano con esigue speranze di redenzione (succede, ad esempio, in Egitto) e fioriscono romanzi atemporali che raccontano di un mondo mostruoso, ammorbato da conflitti violenti e dal vuoto ideologico (succede in Siria). Se un cambiamento si nota è più nel linguaggio che nei temi, più nei linguaggi (la grafica, il video, la musica) che nella forma classica della narrativa.
Eppure, qua e là, vanno in stampa opere che sembrano perseguire la tradizione del romanzo storico o della ricostruzione storica in quello che ha tutta l’aria di essere un dovere di memoria, uno sprone a non dimenticare che, a tratti, si presenta prepotente. Che assume aspetti diversi e si declina in modalità diverse a seconda dello stile e della volontà di ogni autore: memoria di un grande e glorioso passato oggi dimenticato, memoria di eventi traumatici che ancora pesano sull’attualità più stringente, memoria dei capisaldi storici che spiegano come si sia arrivati ai drammi di oggi, memoria dei soprusi subiti al tempo dei protettorati e dei mandati e, soprattutto, memoria di una quotidianità serena, faticosamente strappata alle asperità della vita ma, proprio per questo, perseguita con caparbia determinazione negli affetti, negli amori, nei rapporti intergenerazionali, nelle passioni e nei sogni di un domani migliore.
Per fare un unico esempio che faccia da contraltare al romanzo di Hassuna Mosbahi, ecco che Ali Bécheur, il grande vecchio della letteratura tunisina francofona, nel suo travolgente I domani di ieri[17] ammonisce: «Un giorno va d’incanto, l’indomani è il disincanto, salvo che il disincanto dura più dell’incanto, infinitamente di più. […] Se la democrazia è un pontificare senza sosta, un denigrare e pavoneggiarsi, allora va bene, pontifichiamo, denigriamo e pavoneggiamoci. È troppo presto. Le piccole ondate sono insignificanti, solo le onde lunghe sviluppano movimenti profondi. Aspettiamo».
E mentre stavamo aspettando, abbiamo assistito – nel 2019 e nei primi mesi del 2020, a dieci anni dall’inizio delle rivoluzioni arabe – a nuovi e ingenti movimenti di protesta, soprattutto giovanile, in Algeria, in Sudan, in Libano, in Iraq e altrove. Siamo tornati a vedere il composto manifestare di ragazzi e ragazze per lo più istruiti, informati e connessi, con una coscienza di sé che stride con la retorica tradizionalista. Una gioventù in rottura con il proprio passato, vuoi per dissenso ideologico con i propri padri e madri, vuoi per il degradarsi delle condizioni materiali dei suoi Paesi. Una generazione, cioè, che appare in continuità con i manifestanti del 2011 così come i manifestanti del 2011 apparivano in continuità con le generazioni che li avevano preceduti durante le molte lotte di liberazione.
Con il diffondersi della pandemia di Covid-19, i movimenti si sono in gran parte necessariamente disciolti. Il coronavirus, però, esacerbando le disparità socioeconomiche e le disuguaglianze, proprio in questo autunno 2020 sta dando vita a nuove manifestazioni di piazza in Libano, in Iraq e in altri Paesi della regione. Timidamente anche in Egitto, e persino in Libia.
Che si tratti di una nuova ondata o dell’onda lunga? Per saperlo non resta che aspettare di vedere se – e come – verrà scritta.
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Per citare questo articolo
Riferimento al formato cartaceo:
Elisabetta Bartuli, Le rivoluzioni nel prisma della letteratura, «Oasis», anno XVI, n. 31, dicembre 2020, pp. 109-118.
Riferimento al formato digitale:
Elisabetta Bartuli, Le rivoluzioni nel prisma della letteratura, «Oasis» [online], pubblicato il 10 dicembre 2020, URL: /it/le-rivoluzioni-nel-prisma-della-letteratura