Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:57:30
La Conferenza per la Libia, tenutasi a Palermo all’inizio della settimana, ha catalizzato l’interesse dei media italiani ed esteri. L’incontro, scaturito dal faccia a faccia fra Trump e Conte del luglio scorso, aveva l’ambizioso obiettivo di raggiungere una risoluzione condivisa della crisi libica, in essere dal 2011 e dai costi umani, economici, politici molto elevati. La Libia potrebbe infatti beneficiare di un accordo che aggiorni il Libyan Political Agreement, firmato a Skhirat nel 2015 e che non è stato in grado di dar vita a un Governo di Accordo Nazionale (GNA) veramente inclusivo, a causa del germogliare di milizie (soprattutto a Tripoli) e dell’incancrenirsi del duopolio al-Serraj in Tripolitania e Haftar in Cirenaica. Il summit di questi giorni ha visto la partecipazione fra gli altri dell’inviato dell’ONU in Libia Ghassan Salamé, dell’Alto rappresentante per la politica estera europea Federica Mogherini e del Presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk. Si registrano però le defezioni di Macron, Merkel e Trump, che hanno di fatto alleggerito la Conferenza di quel peso politico necessario alla risoluzione del complesso libico, mentre Putin ha preferito inviare il Primo Ministro Medvedev e il viceministro degli Esteri Mikhail Bogdanov. Da ultimo, non è stato certamente d’aiuto il ritiro dalla Conferenza della Turchia e del vicepresidente turco Fuat Oktay, che ha affermato: «Non si può pensare di risolvere la crisi in Libia coinvolgendo le persone che l'hanno causata ed escludendo la Turchia». Il braccio destro di Erdogan, che può sfruttare il momentum di cui gode la Turchia grazie al ruolo chiave nella vicenda Khashoggi ed esemplificato dall’immunità alle sanzioni secondarie contro l’Iran, avrebbe inoltre mosso accuse non troppo velate al Generale Haftar, reo di aver «abusato dell’ospitalità italiana».
Il ruolo dell’Italia
E in effetti l’Italia nutre grande interesse verso il Paese nordafricano, che costituisce un asset energetico e una risorsa strategica nella gestione dei flussi migratori. Benché organizzatore della conferenza, il nostro Paese non è riuscito a delineare un progetto ben definito per la Libia, prigioniero com’è del sostegno ad al-Serraj e di una distanza non indifferente con Haftar. Nicola Pedde sostiene in un articolo per Huffington Post che l’Italia ha tre principali responsabilità nel fallimento del dossier libico: l'inadeguatezza nella gestione della crisi nel 2011, il sostegno a Tripoli, soprattutto nel 2015, guidato dal quadro diplomatico internazionale e infine la «pavida e inutile ricerca di consenso», senza pragmatismo nel breve periodo e senza accortezza a lungo termine. Tuttavia, la Conferenza è stata un’occasione (se sfruttata o no è ancora presto per dirlo con assoluta certezza) per avvicinare i due domini della Libia.
E infatti gli ospiti più attesi sono stati senza ombra di dubbio Fayez al-Serraj, Presidente del GNA, e Khalifa Haftar, capo dell’Esercito Nazionale della Libia e uomo forte del Parlamento di Tobruk. Benché quest’ultimo abbia disertato i lavori assembleari, l’incontro con il Presidente Conte e la successiva stretta di mano con il suo principale competitor hanno fatto segnalare un buon risultato, seppur parziale e probabilmente limitato al livello mediatico. Riccardo Redaelli su Avvenire ben sottolinea come l’esito dell’iniziativa sia «un onorevole compromesso per quasi tutte le parti in gioco», anche se le ambiziose intenzioni iniziali sono uscite ridimensionate dal summit. La Conferenza è comunque servita a delineare, sebbene senza alcun documento finale, la road map ideata dall’ONU per il 2019: una Conferenza nazionale programmatica a gennaio e infine libere elezioni in primavera.
Anche Russia ed Egitto giocano la loro partita
Se è ancora presto per valutare gli esiti di Palermo sul lungo periodo, è possibile altresì apprezzare come la presenza del Generale al-Sisi abbia provato il ruolo chiave dell’Egitto nelle faccende libiche. Gli sforzi anti-islamisti, la vicinanza ad Haftar e l’ambizione per un potere regionale smarrito, o quantomeno smussato, da ormai troppo tempo rendono Il Cairo imprescindibile in ogni discorso sul futuro della Libia. In più non va dimenticato come i due militari (Haftar e al-Sisi) condividano un rapporto privilegiato con Mosca. È infatti notizia della settimana scorsa che Ievgheni Prigozhin, lo “Chef di Putin” a capo dei contractors (mercenari) russi del Gruppo Wagner, sia stato avvistato a Mosca insieme proprio ad Haftar. Nonostante le smentite del Cremlino, si potrebbe azzardare l’ipotesi di un eventuale ingaggio di uomini al soldo russo nello scacchiere libico al fianco di Haftar.
Fra Libia e Siria: le mosse di Emirati e Arabia Saudita
Ma cosa potrebbe spingere Putin al fianco del Generale libico? Interessante è la lettura offerta da Joshua Landis, che aveva già parlato in questo articolo pubblicato sull’ultimo numero di Oasis del “rimescolamento” di cui è oggetto il Medio Oriente. Secondo il direttore del Centro per gli Studi sul Medio Oriente dell’Università dell’Oklahoma, ad avvicinare il leader russo ad Haftar sarebbero stati gli Emirati, il principale sponsor dell’azione politica di Tobruk invisa alla posizione italiana. Abu Dhabi avrebbe smosso Mosca anche grazie al riposizionamento emiratino e saudita in Siria, accantonando le inimicizie con il presidente Bashar al-Assad, a cui la Russia ha offerto un supporto determinante negli anni del conflitto.
La mossa di Arabia Saudita e EAU di riaprire le proprie sedi diplomatiche a Damasco rappresenta una delle svolte più significative del conflitto, usando l’espressione di Eugenio Dacrema. Monarchie del Golfo e Siria hanno quasi sempre assunto posizioni divergenti nella loro politica regionale, dalla guerra civile dello Yemen del Nord fra il 1962 e il 1970 fino alla Guerra Iraq-Iran degli anni ’80. La Repubblica alawita ha rappresentato, e rappresenta tuttora insieme a Hezbollah, un alleato chiave per l’Iran. L’avvicinamento all’asse MbS-MbZ può dunque costituire un momento chiave per il futuro siriano e regionale. Alla base della mossa si possono identificare cinque fattori: le ingenti risorse economiche del Golfo di cui la Siria avrà bisogno una volta esauritosi il conflitto (si stima infatti una perdita di 226 miliardi di dollari di PIL fra il 2011 e il 2015), l’opportunità di sottrarre alla sfera di influenza iraniana un prezioso asset, la necessità di stabilizzare un paese che è terreno fertile per la rinascita di forze jihadiste, la volontà di frenare i rami locali della Fratellanza Musulmana, geo-politicamente incarnata da Qatar e Turchia, e infine l’occasione per sfruttare la Siria in funzione anti-turca, dal momento che Ankara sta emergendo sempre di più come competitor all’egemonia saudita sul mondo sunnita.
I dubbi del Regno
L’Arabia Saudita sta infatti vivendo un periodo di profonda incertezza: i proclami riformistici del Principe Mohammad bin Salman mal si conciliano con l’indefettibile alleanza con il clero conservatore wahhabita, con la repressione ai danni dei dissidenti e con una politica estera aggressiva. Gli Stati Uniti, nonostante abbiano mostrato più volte una certa accondiscendenza verso il Regno, come nelle recenti dichiarazioni del National Security Advisor John Bolton, hanno comunque fatto registrare una presa di posizione critica verso alcune azioni saudite. Il Senatore Lindsey Graham ha definito MbS «instabile e inaffidabile» e Trump ha deciso di nominare un nuovo ambasciatore a Riyadh, John Abizaid, con l’obiettivo di esercitare un controllo più stringente sull’alleato nel Golfo.
A destare ulteriore preoccupazione a Washington è anche la guerra in Yemen, che prosegue ormai da più di tre anni. Gli Stati Uniti hanno supportato logisticamente la coalizione saudita con rifornimenti di armi e munizioni, con l’intenzione di affondare la resistenza ribelle houthi e di ripristinare il governo legittimo di Hadi. Dopo decine di migliaia di morti e milioni di persone ridotte sull’orlo della carestia, è di pochi giorni fa la decisione a stelle e strisce di fermare il rifornimento di armi alla coalizione saudita-emiratina, analizzata da Eleonora Ardemagni in questo nostro articolo. È comunque importante ricordare che il blocco, almeno per ora, non riguardi l’impiego di droni made in the U.S., che hanno contribuito pesantemente al bilancio di vittime civili, come dettagliatamente esposto in questo articolo di Associated Press. Infine va segnalata l’iniziativa di Emirati, Arabia Saudita, Regno Unito e Stati Uniti che hanno dato vita nella giornata di giovedì a un comitato per analizzare e reagire alla crisi economica e umanitaria del Paese, includendo anche il partito yemenita al-Islah, rappresentato dal Colonnello Mohammed Abdullah al-Yidoumi e dal Segretario Generale Abdulwahab Ahmad al-Anisi. La scelta di includere il gruppo affiliato ai Fratelli Musulmani, e per questo considerato alla stregua di un’organizzazione terroristica, mostra tutto il pragmatismo delle monarchie del Golfo nel trattare la questione yemenita al fine di scalfire la resistenza dei ribelli del nord.
Le scelte degli Stati Uniti
Per gli Stati Uniti si apre dunque una fase cruciale: la politica estera in Medio Oriente ha recentemente assunto le forme della dottrina nixoniana in cui due stati, supportati economicamente e diplomaticamente da Washington, dovrebbero garantire equilibrio alla regione. La questione è però che, a differenza dell’Iran e dell’Arabia Saudita negli anni di Nixon, gli attuali Israele e Arabia Saudita non paiono contribuire a una normalizzazione dell’area. L’ascesa al potere di MbS nel Regno e la recente decisione del Ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman di dimettersi a causa della tregua raggiunta a Gaza fanno quasi pensare che per alcuni l’aumento della tensione, piuttosto che la distensione sia l’obiettivo da raggiungere nella politica mediorientale. Starà ancora una volta agli Stati Uniti e all’influenza di cui sono capaci stabilizzare una regione il cui futuro è ancora molto incerto e in cui la recrudescenza degli scontri si staglia all’orizzonte.