Ciò che accomuna l'esperienza mistica nel Cristianesimo e nell'Islam è l'esperienza del "sé" umano e il suo legame con l'Assoluto

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:49:12

Il termine “mistico”, con i suoi derivati, è stato ampiamente banalizzato nella presente cultura di massa imposta dal consumismo globale. Esso è stato ridotto il più delle volte a significare quanto c’è di più stravagante, illogico e banale. In realtà il termine, come si sa, deriva dal greco myô che significa tacere, soprattutto sui segreti dei misteri religiosi. [1] In seguito è stato usato nel linguaggio religioso per indicare la realtà più profonda dell’essere umano, ciò che vi è di più reale nel fondo del cuore umano, là dove l’uomo s'incontra con l’Assoluto.

Prendere sul serio tale dimensione fondamentale dell’essere umano, volerla verificare nel proprio esistere quotidiano, scommettere su di essa la propria vita, questo significa entrare nella dimensione mistica. Essa si rivela prima di tutto come un’esperienza altamente drammatica: l’uomo infatti è quell’essere che è alla ricerca del senso più profondo e reale del suo esistere, cioè di ciò che vi è di più indispensabile e necessario per lui, e tuttavia egli non può raggiungere tale meta né conseguire tale scopo se non come dono assoluto e pura grazia.

L’esperienza mistica, in secondo luogo, ci porta ad un livello che sta al di là di ogni chiara formulazione logico-razionale. L’esperienza mistica infatti intende e deve essere esperienza concreta della Realtà assoluta, non un discorso astratto su di Essa. È quindi evidente che la mistica, cuore dell’esperienza religiosa, deve diventare il luogo privilegiato del dialogo interreligioso e base per un serio dialogo interculturale; un dialogo interreligioso che non arrivi ad una comunicazione al livello dell’esperienza spirituale è un dialogo ancora incompleto, monco. [2]

Poste tali premesse, intendo entrare ora nei campi in cui è possibile e, direi, doveroso l’incontro fra le varie esperienze mistiche, quelle del Cristianesimo e dell’Islam in particolare. Chiamo tali campi spazi o luoghi d’incontro, perché essi indicano problematiche comuni a tutte le esperienze mistiche e cui queste sono chiamate a rispondere. Leggere la propria esperienza mistica in dialogo e scambio con altre esperienze simili è non solo utile, ma necessario e anzi indispensabile nel nostro tempo: lo mostra bene l’esperienza di alcune persone dialogiche, come il sufi e studioso musulmano Sayyed Hossein Nasr, il monaco benedettino Bede Griffith o il monaco buddista Thich Nhat Hanh. [3]

 

1. Un’antropologia mistica 

Ogni esperienza mistica nel Cristianesimo, nell’Islam come pure nelle altre religioni, si presenta anzitutto come un’esperienza del “sé” umano, cioè di ciò che c’è di più vero e profondo nell’essere umano. I mistici sono stati da sempre dei grandi esploratori dell’interiorità umana. Essi sono i primi ad affermare che l’essere umano non è semplicemente una cosa fra le cose, e non può essere ridotto all’insieme dei suoi componenti fisio-bio-psicologici. L’essere umano ha profondità da cui scaturisce la sua vera identità, profondità indicate comunemente con il termine “anima” (psychê, nafs). Sondando le profondità dell’anima umana i mistici sono testimoni che questa è legata misteriosamente, ma realmente alla sua sorgente prima, l’Assoluto, l’illimitato, non-comprensibile e non-afferrabile, ma sempre presente Orizzonte di ogni attività umana, soprattutto nei suoi atti fondamentali di conoscenza, libertà e amore. È proprio la perdita di questa dimensione spirituale ad aver causato la profonda crisi che attraversa l’uomo moderno.

Questi infatti, nonostante il grande progresso tecnico-scientifico, sembra aver perso il senso della propria esistenza, della sua vera identità umana. L’uomo moderno si trova, come è stato accennato sopra, in uno stato di disgregazione, di caduta inarrestabile in un esteriorismo vuoto e sempre più meccanizzato e robotico, che ci piace sintetizzare nel detto: «L’uomo ha creato la macchina, e si è trasformato in sua immagine e somiglianza».

Recuperare quindi all’essere umano la sua dimensione di “essere-per-la-trascendenza”, come homo viator, cioè come essere in cammino orientato e aperto all’incontro con l’Assoluto, rimane uno dei compiti fondamentali delle religioni in generale, e dei cammini mistici in particolare. I sufi, i mistici musulmani, hanno lasciato pagine di interessanti e profonde riflessioni sulla reale “vocazione” dell’uomo, come essere orientato essenzialmente a Dio.

Al centro della loro riflessione sta infatti un noto hadith, detto attribuito a Muhammad, Profeta dell’Islam, che afferma: «Colui che conosce se stesso (lett. la sua anima, nafs), conosce il suo Signore»[4]. Nella visione islamica l’essere umano è qualificato da tre categorie fondamentali: egli è il servo (‘abd), il vicario o luogotenente (khalîfa) e l’immagine di Dio (sûra)[5]. L’essere umano è prima di tutto “il servo di Dio” (‘abd Allâh), egli è cioè totalmente relazionato a Dio, in assoluta dipendenza ontologica da Lui. Il qualificativo di servo (‘abd) non svilisce l’essere umano, come una superficiale lettura può fare credere, ma è invece la fonte e la ragione della sua nobiltà. Attuando totalmente e coscientemente tale dipendenza assoluta da Dio, l’uomo-servo (‘abd) incontra un Signore che lo onora, facendolo partecipe della sua signoria sulle creature, in forza della quale l’uomo viene chiamato ad essere il “vicario” o il “luogotenente” (khalîfa) di Dio sul creato. Tutto ciò però è fondato su un’altra realtà ontologica fondamentale: l’essere umano è stato creato ad “immagine” (sûra) di Dio[6]. Egli quindi può e deve riprodurre in sé i tratti (khuluq) di Dio: «Rivestitevi dei tratti di Dio», è pure un importante hadith che è diventato uno dei punti base del cammino sufi[7].

Tutto ciò è infine sfociato in molte correnti sufi, in quella di Ibn ‘Arabî in particolare, nell’elaborazione dell’idea dell’Uomo perfetto (al-insân al-kâmil), in cui l’essere umano è visto come il microcosmo, specchio delle qualità divine e sintesi delle manifestazioni del Reale-Assoluto (haqq) nell’universo (khalq). L’essere umano quindi è chiamato, secondo tale visione sufi, a realizzare il suo essere come completa manifestazione del Reale-Assoluto in una unione profonda di Reale creante-creatura (haqq-khalq) e di Signore-servo: egli diviene alla fine il servo-signoriale (‘abd rabbânî), cioè il servo rivestito delle qualità del suo Signore.

Queste speculazioni dei sufi ricordano temi simili della mistica cristiana. Anche nella visione cristiana l’essere umano è servo-immagine di Dio, incaricato della cura della sua creazione. Allo stesso modo le speculazioni dei sufi sull’idea dell’Uomo perfetto (al-insân al-kâmil) possono essere messe in parallelo con quelle dei mistici cristiani sulla “divinizzazione” (theopoiêsis-theiôsis) dell’essere umano, con beninteso tutte le differenze provenienti dalle differenti visioni di fede. Nella visione cristiana infatti non si tratta solo di una partecipazione alle qualità divine, ma di una partecipazione alla vita divina stessa nella sua fonte intima ed eterna che è la Comunione trinitaria. Un approfondito scambio fra tali visioni ed esperienze dovrebbe in ogni modo risultare illuminante per tutte e due le tradizioni mistiche.

 

2. L’essere umano e il suo ambiente: l’universo

L’essere umano si trova collocato in un universo che si estende e si amplifica verso dimensioni sempre più misteriose. E tuttavia è proprio in esso e attraverso di esso che egli è chiamato alla sua autorealizzazione, cioè a compiere il suo cammino verso l’Assoluto. Anche questo punto può divenire un ampio e fecondo campo di scambio e dialogo fra le due tradizioni mistiche. Ambedue le tradizioni infatti affermano che l’universo non può essere ridotto a “semplice materiale” manipolabile a piacere dall’uomo: l’universo è invece, nel suo senso più profondo e vero, lo spazio del cammino umano verso l’Assoluto.

Un maestro sufi contemporaneo, Sayyed Hossein Nasr, afferma che l’universo nella visione sufi ha due dimensioni o due aspetti fondamentali: uno mutevole ed uno permanente. L’aver dimenticato l’aspetto della permanenza per concentrarsi solo sull’aspetto della mutabilità e della sperimentabilità empirica è stato, secondo Sayyed Hossein Nasr, il grande errore della scienza moderna. Questo fatto ha portato ad una visione secolarizzata dell’universo, alla perdita della sua dimensione sacra, e conseguentemente anche alla perdita della dimensione sacra dell’essere umano in esso situato. Questi infatti, nonostante l’enorme progresso scientifico realizzato, sembra aver completamente smarrito il senso del suo esistere. Avendo ridotto l’universo a semplice “oggetto di uso e consumo”, come materia manipolabile a suo piacere, l’essere umano ha finito per ridurre anche se stesso a puro “oggetto di uso e consumo” in balìa della tecnologica consumistica da lui creata. Di conseguenza si è avuta una caduta totale di valori con un concentrarsi esasperato sui soli aspetti materiali e utilitaristici della natura che ha portato in fine a uno sfrenato sfruttamento delle sue risorse. Per questo occorre ritornare a ciò che Hossein Nasr chiama la “scienza qualitativa” delle grandi tradizioni religiose che da sempre hanno letto l’universo come l’essere relativo, mutevole, necessariamente rapportato all’Essere assoluto permanente che lo sostiene. Il senso profondo infatti del relativo-contingente è quello di essere manifestazione dell’Assoluto-Necessario.

 

3. L’essere umano e il suo fondamento ultimo: Dio

Infine però, l’essere umano trova la sua identità più profonda e vera quando si rapporta con la sua Origine prima e il suo Fine ultimo, cioè con l’Assoluto. Qui il dialogo fra le varie religioni raggiunge il suo apice perché è proprio nella presa di posizione di fronte all’Assoluto che ogni religione rivela la sua originalità più caratteristica, ma anche sorprendenti coincidenze con le altre religioni. Ogni religione è infatti ispirata dalla stessa Origine prima ed è orientata allo stesso Fine ultimo, cioè Dio.

 

Essere per l’Assoluto

L’Assoluto non può essere un prodotto dell’uomo stesso; sarebbe un idolo, quindi un inganno profondo e radicale riguardo la stessa identità umana. L’Assoluto resta sempre sovranamente libero da se stesso: Egli si comunica come vuole e dove vuole, senza alcuna previa condizione impostagli da chicchessia. Questo è il cuore di ogni esperienza mistica e un punto sul quale si possono trovare convergenze e consonanze interessanti fra le varie tradizioni mistiche, quelle abramitiche in particolare.

È noto l’apologo del sufi persiano Farîduddîn ‘Attar (d. 627/1230), nel suo libro Il Verbo degli uccelli. Quando i trenta uccelli (simbolo dei sufi alla ricerca di Dio) giungono alle porte del palazzo di Sîmûrgh, l’uccello misterioso della Cina (simbolo dell’Essere divino, termine ultimo della ricerca), alla loro richiesta di incontrarlo si sentono rispondere che se essi hanno bisogno di Lui, Lui non ha bisogno di loro. Dio rimane pur sempre l’Autosufficiente (ghanî), totalmente indipendente dalle sue creature e dalle loro richieste. Ma qui si pone un quesito fondamentale. Questo Assoluto, deve per forza rimanere solo un orizzonte lontano, una meta asintotica verso cui l’uomo proietta la sua esistenza senza ricevere alcuna risposta? Non può Egli farsi presente nella storia e svelarsi esplicitamente al pellegrino umano? E chi può porre previe condizioni all’essere e all’agire dell’Assoluto? L’Assoluto è pur sempre libero di disporre di Se stesso, senza condizioni. Il cammino verso di Lui, se vuole essere un’autentica ricerca di Lui, non può essere percorso che nell’umile attesa di un Suo possibile avvento nella storia umana. L’inesausta attesa umana può essere considerata come il solo presupposto che Egli stesso ha messo nel cuore dell’uomo per potersi svelare e donare a lui, secondo la nota espressione di Sant'Agostino: «Tu ci hai fatti per Te [o Signore] e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te» (Confessioni 1,1).

L’esperienza comune di tutti i mistici di tutte le tradizioni religiose testimonia che è necessario uno svuotamento totale dell’essere umano davanti all’Assoluto per essere riempito di Lui solo. I sufi hanno parlato a lungo del fanâ’ (l’annientamento, lo svuotamento di se stessi) per giungere al baqâ’ (il sussistere in Dio), termini che richiamano il “tutto e nulla” di tanta parte della tradizione mistica cristiana (vedi il todo y nada della mistica spagnola). Ma quando l’Assoluto irrompe nella storia umana, questa assume sensi e dimensioni nuovi. I suoi segni, pur presi dal mondo creato, si rivelano carichi di valenze e orizzonti impensati, che trascendono i limiti del creato. Il vero mistico, a qualunque tradizione religiosa appartenga, è colui che ha vissuto nel modo più radicale tale incontro con l’Assoluto e, come Mosè sul monte Sinai, ne è stato trasfigurato.

 

“Il più grande e il più vicino”

L’Assoluto quindi viene sperimentato dai mistici allo stesso tempo nella sua trascendenza e nella sua immanenza, nella sua unità e nella sua molteplicità, nella sua semplicità e nella sua varietà. Nessuno di tali aspetti può essere isolato e negato, perché appunto l’Assoluto in quanto tale non può essere che la coincidentia oppositorum, la sintesi degli opposti, o, come preferisco dire, Egli è la transcendentia oppositorum, il superamento degli opposti, al di là cioè delle distinzioni limitate e limitanti poste dalla ragione umana misuratrice e calcolatrice (‘aql). Questo è quanto i mistici di tutte le religioni non si stancano di ripetere. L’Assoluto infatti si presenta sempre come il Mistero che è compreso tanto in quanto non è compreso, perché «se lo comprendi, non è Dio» (S. Agostino).

Allo stesso modo recita un famoso detto attribuito a Abû Bakr al-Siddîq (m. 12/634), compagno del Profeta dell’Islam e suo primo successore (califfo): «Lode a Colui che non ha dato alle sue creature altre vie per conoscerlo se non la loro incapacità di conoscerlo»[8]. Nel pensiero islamico in particolare il problema della proclamazione dell’unità di Dio (tawhîd) unita alla realtà dei suoi diversi attributi ha affaticato a lungo il pensiero dei teologi senza che questi arrivassero ad una soluzione chiara, rimandando alla fine al silenzio del “non chiedere come” (bilâ kayfa). Credo che solo nei sufi tale problema abbia ricevuto un approccio più reale perché essi non hanno avuto paura di inoltrarsi nei “paradossi dell’Uno”. Il sufi andaluso Ibn ‘Arabî, ad esempio, vede il sommo della proclamazione dell’unità di Dio (tawhîd) non nell’affermazione di un’astratta unità divina, quale è intesa dalla maggior parte dei credenti e anche dai teologi musulmani. Il vero tawhîd per lui consiste infatti nell’affermazione paradossale dell’unità divina nella molteplicità delle sue auto-manifestazioni (tajalliyyât). Queste auto-manifestazioni sono aspetti reali del Reale-Assoluto (haqq) che è sempre e nello stesso tempo Uno e molteplice, Creatore e creatura, a seconda dei punti di vista sotto cui lo si considera. Il Reale-Assoluto (haqq) inoltre non deve essere concepito in uno stato di immobile stasi, ma in un inesausto dinamismo di essere, mosso da una misteriosa forza originaria, trascendente e creatrice: l’Amore (hubb)[9].

In un celebre passo delle Perle della saggezza Ibn ‘Arabî proclama:

«Il movimento che è l’esistenza del mondo fu un movimento di amore... Senza tale amore il mondo non sarebbe venuto all’esistenza; quindi il movimento dal nulla all’esistenza è il movimento del Creatore verso di essa (esistenza)... Resta quindi provato che il movimento fu un movimento di amore, e che quindi non c’è movimento nell’universo se non in relazione all’amore» [10].

Bastano questi accenni per mostrare come anche qui vi sia ampio spazio per riflessioni comuni che potrebbero rivelare parallelismi straordinari, impensati forse, fra le varie esperienze mistiche, in particolare quelle delle tre religioni abramitiche.

 

Il Mistero trascendente e trans-discendente

È qui che a mio avviso si potrebbe trovare un punto di comprensione su una questione che da secoli ha diviso e contrapposto cristiani e musulmani con reciproche polemiche e condanne, non solo teoriche. Intendo lo scontro tra il monoteismo islamico e la Trinità cristiana, dogmi questi, che nelle controversie teologiche del passato sono stati visti per lo più come posizioni inconciliabili, che si escludevano e si negavano reciprocamente. Non intendo qui evidentemente annullare le differenze che esistono fra le due tradizioni religiose in un compromesso che sarebbe in fondo un tradimento di ambedue le fedi. Si tratta invece di capire problematiche, simili da molti punti vista, che esistono in ambedue le visioni religiose e che possono aiutare ad aprirsi ad una maggiore comprensione reciproca, superando atavici pregiudizi.

Il problema di fondo che si pone a tutte e due le tradizioni può essere espresso nei termini sopraccennati: Dio, il Mistero ultimo verso cui l’essere umano è orientato, deve rimanere necessariamente chiuso nella sua trascendenza, quasi prigioniero di un limite a Lui stesso invalicabile? O invece, Egli è libero di dare non solamente delle cose e delle qualità (cosa ammessa dal sufismo come pure da altre tradizioni mistiche), ma di comunicare “Se stesso” alle sue creature superando il supposto limite della trascendenza? La fede cristiana si è espressa in senso positivo a tale domanda, basandosi sulla rivelazione di Dio stesso come amore assoluto e incondizionato: «Dio è amore» [1Gv 4, 8 e 16]. In tale visione, essere-Dio non significa in primo luogo il suo isolamento in un’unità trascendente e assoluta, inavvicinabile per le sue creature. Essere-Dio significa invece in primo luogo la sua trascendente capacità di donare Se stesso, proprio Se stesso, al di fuori di Se stesso, in una auto-comunicazione libera sì, ma anche totale.

La fede cristiana vede nella creazione una prima auto-comunicazione, chiamata “esterna”, di Dio. Ma tale auto-comunicazione esterna di Dio ha la sua radice e la sua fonte nell’auto-comunicazione interna di Dio da Se stesso a Se stesso. Dio infatti è per essenza Comunione, essendo in Se stesso l’eterno Amore, eternamente Amante e Amato; questo è il fondo, o l’abisso del mistero trinitario, che è e rimane un Mistero di amore. Ed è proprio per questo che Egli crea. Proprio per questo Egli è e rimane libero e capace di comunicare non solo delle cose o delle qualità, ma Se stesso, proprio Se stesso, al di fuori di Se stesso, alle sue creature che rimangono pur sempre libere di accettare o no tale auto-comunicazione divina. Questa è nella visione cristiana la radice prima ed ultima della “divinizzazione” (theopoiêsis-theiôsis) dell’essere umano che i Padri della Chiesa hanno espresso nel noto teologoumenon: «Dio si è fatto uomo affinché l’uomo diventi Dio».

Abbiamo accennato sopra come questo tema trovi paralleli interessanti nelle ardite speculazioni di molti sufi a proposito dell’idea dell’Uomo perfetto (al-insân al-kâmil). Qui evidentemente non c’è spazio per inoltrarci in ulteriori considerazioni su un simile soggetto, ma ci basta aver accennato a paralleli interessanti fra i due mondi. In ogni caso, dovrebbe risultare chiaro che il problema dell’unità e della molteplicità in Dio sta ben al di là della semplicistica aporia matematica dell’uno e dei tre, come è intesa comunemente dai credenti ed è stata fissata dalla tradizionale polemica islamica. Di fatto, l’aspetto paradossale dell’unità divina è stato in qualche modo intravisto anche dalle più profonde e ardite intuizioni dei sufi che sono andati ben al di là delle astratte categorie razional-teologiche dei teologi. Molti sufi hanno intuito infatti che l’abisso dell’Essere divino è mosso da un’insondabile Mistero di misericordia essenziale (rahma dhâtiyya) e amore originale (mahabba asliyya): questo è l’impulso primo che ha mosso il “tesoro nascosto”, cioè l’Essenza divina, a espandersi in una serie infinita di auto-manifestazioni che partono da Se stessa e a Se stessa fanno ritorno.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

[1] Vedi Introduzione alla mistica: unità di esclusione o unità di unione, in Giuseppe Scattolin, Spiritualità nell’islam, EMI, Bologna 2004, pp. 11-30. Un’interessante riflessione sulla mistica come esperienza di vita è quella Raimon Panikkar, L’esperienza della vita - La mistica, Jaca Book, Milano 2005 (originale spagnolo, 2004).

[2] Esempio di riflessione comparata fra le due mistiche è Arnaldez Roger, Réflexions chrétiennes sur la mystique musulmane, OEIL, Paris 1989.

[3] Cfr. a titolo di esempio Sayyed Hossein Nasr, Sufismo, Rusconi, Milano 1994; Bede Griffiths, A New Vision of Reality - Western Science, Eastern Mysticism and Christian Faith, Fount, London 1992 (1st 1989); Thich Nhat Hanh, La luce del Dharma. Dialogo tra Cristianesimo e Buddhismo, Oscar Mondadori, Milano 2003 (1999).

[4] Questo hadith, comunemente riportato nella tradizione sufi, nontrova però riscontro nelle raccolte canoniche, cfr. A. J. Wensinck, Concordance et Indices de la Tradition Musulmane, E. J. Brill, Leiden 1936-1969, 7 voll.

[5] Per una trattazione più completa di questo tema vedi L'uomo nell’Islam, in Giuseppe Scattolin, Dio e uomo nell’islam, EMI, Bologna 2004, pp. 36-68.

[6] Questo hadith è canonico, cioè riconosciuto come autentico dalla tradizione islamica, vedi Wensinck, Concordance, III p. 438b.

[7] Anche questo hadith citato spesso dalla tradizione sufi non trova riscontro nelle raccolte canoniche; cfr. il commento fattone da al-Ghazâlî, in Esperienze mistiche, III, pp. 241-242.

[8] Vedi testo e commento in Esperienze mistiche nell’Islam, vol. II, 1996, p. 189.

[9] L’hadith afferma: «Ero un tesoro sconosciuto e desiderai essere conosciuto, perciò creai il mondo e attraverso di esso mi conobbero (le creature)». Anche questo hadith, comunemente citato nella tradizione sufi, non trova riscontro nelle collezioni canoniche. Il testo qui riportato è tradotto dal testo arabo che si trova in Ibn 'Arabî, Fusûs al-hikam, Abû 'Alâ 'Afîfî (ed.), Dâr al-Kitâb al-'Arabî, Beirut 1980, pp. 203-204; cfr. anche Arthur John Arberry, Sufism. An Account of the Mystics of Islam, reprinted, Allen & Unwin, London 1990 (1st ed.1950), p. 28.

[10] Ibn 'Arabî, Fusûs al-hikam, Abû 'Alâ 'Afîfî (ed.), Dâr al-Kitâb al-'Arabî, Beirut 1980, pp. 203-204.

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Giuseppe Scattolin, Esplorando l’interiorità umana, «Oasis», anno IV, n. 7, maggio 2008, pp. 101-105.

 

Riferimento al formato digitale:

Giuseppe Scattolin, Esplorando l’interiorità umana, «Oasis» [online], pubblicato il 1 maggio 2008, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/mistica-sufi-cristiana-a-confronto.

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