Per Muhammad Iqbal il mondo dell’Islam è chiamato a un lavoro di “ricostruzione” del proprio pensiero religioso
Ultimo aggiornamento: 02/07/2024 12:50:31
Leggi l'introduzione a questo classico Compiuta la profezia, tocca alla ragione
Nel pensiero di Muhammad Iqbal emerge una provocazione di fondo: attrezzato di categorie e di esperienze nuove, il mondo dell’Islam è chiamato a un lavoro di “ricostruzione” del proprio pensiero religioso, che è molto di più di un semplice accomodamento nella modernità.
«Muhammad di Arabia ascese al Cielo più alto e tornò indietro. Giuro per Dio che se avessi raggiunto quel punto, non sarei mai più tornato». Sono le parole di un grande santo musulmano, Abdul Quddus di Gangoh. Nell’intero corpo della letteratura sufi sarebbe probabilmente difficile trovare un detto che, in una singola frase, manifesti una percezione più acuta della differenza psicologica tra il tipo profetico di coscienza e quello mistico.
[Esperienza mistica ed esperienza religiosa]
Il mistico non desidera far ritorno dal riposo dell’ “esperienza unitaria”; e anche quando effettivamente ritorna, com’è costretto a fare, ciò non significa molto per l’umanità nel suo complesso. Il ritorno del profeta invece è creativo. Ritorna per inserirsi nel flusso del tempo con il progetto di controllare le forze della storia e in tal modo creare un nuovo mondo d’ideali. Per il mistico il riposo dell’ “esperienza unitaria” è qualcosa di finale; per il profeta rappresenta l’occasione per risvegliare dentro di sé forze psicologiche in grado di scuotere il mondo, destinate a trasformare completamente il genere umano.
Nel profeta predomina il desiderio di vedere la propria esperienza religiosa trasformata in una viva forza mondana. Così il suo ritorno equivale a una sorta di verifica pratica del valore della sua esperienza religiosa. Nel suo atto creativo la volontà del profeta giudica sé stessa e al contempo il mondo di fatti concreti in cui si sforza di oggettivizzarsi. Nel penetrare il materiale impervio che gli sta dinanzi, il profeta si rivela a sé stesso e si svela agli occhi della storia. Un altro modo di giudicare il valore dell’esperienza religiosa di un profeta sarebbe perciò di esaminare il tipo di umanità che ha creato e il mondo culturale che è sgorgato dallo spirito di questo messaggio. In questa conferenza desidero limitarmi soltanto a questo secondo aspetto. L’idea non è di fornire una descrizione dei risultati raggiunti dall’Islam nell’ambito della conoscenza; piuttosto voglio portare la vostra attenzione su alcuni concetti dominanti nella cultura dell’Islam per intuire il processo d’ideazione soggiacente e così gettare uno sguardo furtivo sull’anima che trovò espressione in essi. Prima però di procedere oltre, è necessario comprendere il valore culturale di una grande idea dell’Islam – la finalità dell’istituzione della profezia.
[Muhammad: a cavallo tra due mondi]
Un profeta può essere definito come un tipo di coscienza mistica in cui l’ “esperienza unitaria” tende a debordare oltre i propri limiti e cerca il modo di ridirigere o riformare le forze della vita collettiva. Nella sua personalità il centro finito della vita s’inabissa nelle sue stesse profondità infinite per poi sgorgare nuovamente, con fresco vigore, e distruggere il vecchio, aprendo nuove direzioni di vita. Questo contatto con la radice del proprio essere non è affatto specifico del solo uomo. In realtà il modo in cui la parola wahy (“ispirazione”) è utilizzata nel Corano mostra che il Libro la considera una proprietà universale della vita, anche se la sua natura e le sue caratteristiche variano secondo le fasi dell’evoluzione. La pianta che cresce liberamente nello spazio, l’animale che sviluppa un nuovo organo per adattarsi a un nuovo ambiente, e un essere umano che riceve luce dalle profondità interiori della vita sono tutti casi d’ispirazione che variano nel loro carattere secondo i bisogni del recipiente o della specie a cui il recipiente appartiene. Ora, durante la minore età dell’umanità l’energia psichica sviluppa ciò che io chiamo la coscienza profetica – un modo di economizzare pensiero e decisioni individuali fornendo giudizi, scelte e modi d’azione già pronti. Tuttavia, con la nascita della ragione e della facoltà critica, la vita, nel suo stesso interesse, impedisce la formazione e la crescita di quei modi non razionali di coscienza attraverso i quali, in una fase precedente dell’evoluzione umana, l’energia psichica fluiva. L’uomo è primariamente governato dalla passione e dall’istinto. La ragione induttiva, che sola rende l’uomo signore del suo ambiente, è un traguardo; e una volta che lo si è raggiunto, va rafforzata impedendo la crescita di altri modi di conoscenza. Non c’è dubbio che il mondo antico abbia prodotto alcuni grandi sistemi filosofici in un’epoca in cui l’uomo era ancora relativamente primitivo e veniva governato più o meno dalla suggestione. Ma non dobbiamo dimenticare che questa strutturazione di sistemi nel mondo antico fu opera di un pensiero astratto che non può procedere oltre la sistematizzazione di vaghi concetti e tradizioni religiose, senza darci alcuna presa sulle situazioni concrete della vita.
Guardando allora alla questione da questo punto di vista, il Profeta dell’Islam sembra collocarsi a cavallo tra il mondo antico e quello moderno. Per quanto riguarda la fonte della sua rivelazione, appartiene al mondo antico; per quanto riguarda lo spirito della sua rivelazione, appartiene al mondo moderno. In lui la vita scopre altre fonti di conoscenza appropriate alla sua nuova direzione.
[L’abolizione della profezia]
La nascita dell’Islam [...] è la nascita dell’intelletto induttivo. Nell’Islam la profezia raggiunge la perfezione nello scoprire la necessità della sua stessa abolizione. Ciò comporta l’acuta percezione che la vita non può essere mantenuta per sempre entro imbragature predefinite, che per raggiungere la piena autocoscienza l’uomo dev’essere alla fine ridotto alle sue sole risorse. L’abolizione del sacerdozio e della monarchia ereditaria nell’Islam, l’appello costante alla ragione e all’esperienza nel Corano e l’accento posto sulla Natura e sulla Storia come fonti della conoscenza umana, sono tutti aspetti diversi della stessa idea di finalità. Quest’idea tuttavia non implica che l’esperienza mistica, la quale non differisce qualitativamente dall’esperienza del profeta, abbia ormai cessato d’esistere come fatto vitale. Di fatto il Corano considera sia anfus (il sé) sia afaq (il mondo) come fonti di conoscenza. Dio rivela i Suoi segni nell’esperienza interiore ed esteriore e l’uomo è tenuto a giudicare la portata conoscitiva di tutti gli aspetti dell’esperienza. L’idea di finalità, pertanto, non va intesa nel senso che il destino ultimo della vita risiederebbe nella completa sostituzione della ragione all’emozione. Una cosa del genere non è né possibile né desiderabile. Il valore intellettuale dell’idea è che essa tende a creare un atteggiamento critico indipendente verso l’esperienza mistica instillando la convinzione che ogni autorità personale che pretenda un’origine soprannaturale sia ormai tramontata nella storia dell’uomo. Questo tipo di convinzione è una forza psicologica che [da quel momento] impedisce la crescita di una tale autorità. La funzione dell’idea è di aprire nuovi squarci di conoscenza nell’ambito dell’esperienza umana interiore, esattamente come la prima parte della professione di fede islamica ha creato e potenziato lo spirito di osservazione critica dell’esperienza esteriore dell’uomo, spogliando le forze della natura di quel carattere divino di cui le culture precedenti le avevano rivestite.
L’esperienza mistica perciò, per quanto insolita e anormale, dev’essere ormai considerata da un musulmano come un’esperienza perfettamente naturale, aperta all’indagine critica come gli altri aspetti dell’umana esperienza. Lo mostra chiaramente l’atteggiamento del Profeta rispetto alle esperienze psichiche di Ibn Sayyâd[1]. La funzione del Sufismo nell’Islam è stata di sistematizzare l’esperienza mistica, anche se occorre ammettere che soltanto Ibn Khaldûn trattò la questione con spirito pienamente scientifico.
[Estratti da Allama Muhammad Iqbal, The Reconstruction of Religious Thought in Islam, Sh. Muhammad Ashraf Publisher & Bookseller, Lahore 1965, V conferenza, pp. 124-127]
[Ricostruire, molto più che adattarsi]
Attrezzato di pensiero acuto e di nuove esperienze il mondo dell’Islam dovrebbe accingersi con coraggio al lavoro di ricostruzione che lo attende. Questo lavoro di ricostruzione, tuttavia, è molto più che un semplice adattamento alle condizioni moderne di vita. La grande guerra europea, che ha portato con sé il risveglio della Turchia – l’elemento di stabilità nel mondo islamico – come uno scrittore francese ha recentemente scritto, e il nuovo esperimento economico tentato nell’ambito dell’Asia musulmana devono aprirci gli occhi al significato interiore e al destino dell’Islam. Oggi l’umanità ha bisogno di tre cose: un’interpretazione spirituale dell’universo, l’emancipazione spirituale dell’individuo e principi basilari di portata universale che dirigano l’evoluzione della società umana su una base spirituale. Senza dubbio l’Europa moderna ha costruito lungo queste linee dei sistemi idealistici, ma l’esperienza mostra che una verità rivelata attraverso la pura ragione è incapace di accendere quel fuoco di convinzione vivente che la rivelazione personale sola può portare. È questa la ragione per cui il pensiero puro ha influenzato così poco gli uomini, mentre la religione ha sempre elevato gli individui e trasformato intere società. L’idealismo dell’Europa non è mai diventato un fattore vitale nella sua esistenza e il risultato è un io corrotto che cerca se stesso attraverso democrazie reciprocamente intolleranti la cui sola funzione è sfruttare il povero nell’interesse del ricco. Credetemi, oggi l’Europa rappresenta il più grande ostacolo al progresso etico dell’uomo. Il musulmano, al contrario, è in possesso di queste stesse idee ultime sulla base di una rivelazione che, parlando dalle profondità più intime della vita, interiorizza la sua apparente esteriorità. Per lui la base spirituale della vita è oggetto di una convinzione per la quale anche il meno illuminato tra noi può facilmente sacrificare la vita; e alla luce dell’idea fondamentale dell’Islam che non ci possa essere ulteriore rivelazione vincolante per l’uomo, dovremmo essere uno dei popoli spiritualmente più emancipati sulla terra. I primi musulmani, emergendo dalla schiavitù spirituale dell’Asia preislamica, non erano nella posizione adatta per comprendere il vero significato di questa idea fondamentale. Siano allora i musulmani di oggi a prendere effettiva misura della loro posizione, a ricostruire la vita sociale alla luce dei principi ultimi e a far evolvere, muovendo dalla finalità dell’Islam fino a oggi solo parzialmente rivelata, quella democrazia spirituale che è lo scopo ultimo dell’Islam.
[The Reconstruction of Religious Thought, VI conferenza, pp. 178-180]
[Religione e scienza: convergenze parallele]
La verità è che il processo religioso e quello scientifico, pur implicando metodi diversi, hanno lo stesso scopo finale. Entrambi cercano di raggiungere il Più Reale. Anzi la religione, per i motivi che ho menzionato precedentemente, è molto più tesa a raggiungere l’Ultimamente Reale di quanto lo sia la scienza. E per entrambe la via alla pura oggettività passa attraverso quella che può essere chiamata la purificazione dell’esperienza. Per comprendere questo dobbiamo distinguere tra l’esperienza come fatto naturale, che rimanda al comportamento normalmente osservabile della realtà, e l’esperienza che rimanda alla natura interiore della realtà. Come fatto naturale, l’esperienza è spiegata alla luce dei suoi antecedenti psicologici e fisiologici; come significante della natura interiore della realtà dovremo applicarle criteri di un tipo diverso per chiarirne il significato. Nell’ambito delle scienze cerchiamo di comprendere i significati in riferimento al comportamento esteriore della realtà; nell’ambito della religione la consideriamo come rappresentativa di un tipo di realtà e cerchiamo di scoprirne i significati in riferimento principalmente alla natura interiore di quella realtà. Il processo scientifico e religioso sono in un certo senso paralleli. Entrambi sono realmente descrizioni dello stesso mondo con questa differenza soltanto, che nel processo scientifico il punto di vista dell’io è necessariamente esclusivo, mentre nel processo religioso l’io integra le sue tendenze contrastanti sviluppando un atteggiamento inclusivo che conduce a una sorta di trasfigurazione sintetica delle sue esperienze. Uno studio attento della natura e dello scopo di questi processi realmente complementari mostra che entrambi sono rivolti alla purificazione dell’esperienza nelle rispettive sfere. Un esempio servirà a chiarire quello che intendo dire. La critica di Hume alla nostra nozione di causa va considerata come un capitolo nella storia della scienza piuttosto che in quella della filosofia. Fedeli allo spirito dell’empirismo scientifico, non abbiamo il diritto di operare con concetti di natura soggettiva. Il punto nella critica di Hume è liberare la scienza empirica dal concetto di forza che, come egli insiste, non ha fondamento nell’esperienza sensoriale. Fu il primo tentativo della mente moderna di purificare il processo scientifico.
La visione matematica dell’universo di Einstein completa il processo di purificazione iniziato da Hume e, fedele allo spirito della critica humiana, fa completamente a meno del concetto di forza. Il brano che ho citato [precedentemente] del grande santo indiano mostra che lo studioso pratico di psicologia religiosa si prefigge una purificazione analoga. Il suo senso di oggettività è tanto acuto quanto quello dello scienziato nella sfera d’oggettività sua propria. Passa d’esperienza in esperienza non come un semplice spettatore, ma come un giudice critico dell’esperienza che, per mezzo di una tecnica particolare adatta alla sua sfera d’indagine, cerca di eliminare tutti gli elementi soggettivi, psicologici o fisiologici, dal contenuto della sua esperienza con l’intento ultimo di raggiungere l’assolutamente oggettivo. Quest’esperienza finale è la rivelazione di un nuovo processo di vita – originale, essenziale, spontaneo.
[Non vedere, ma essere]
L’eterno segreto dell’io è che nel momento in cui raggiunge questa rivelazione finale la riconosce senza la minima esitazione come l’ultima radice del suo essere. E tuttavia nell’esperienza stessa non c’è mistero. Né c’è nulla di emozionale in essa. In effetti proprio per assicurare un’esperienza totalmente non emozionale, la tecnica almeno del sufismo islamico si guarda bene dal consentire l’uso della musica nel culto e sottolinea con forza la necessità di pregare quotidianamente insieme alla comunità, per contrastare i possibili effetti antisociali di una contemplazione solitaria. Così l’esperienza a cui si perviene è perfettamente naturale e possiede un significato biologico della più grande importanza per l’io. È l’io umano che s’innalza al di sopra della pura riflessione e ripara alla sua transitorietà appropriandosi dell’eterno. L’unico pericolo a cui l’io è esposto in questa ricerca del Divino è il possibile rilassamento della sua attività a causa del diletto che prova e dell’assorbimento nelle esperienze che precedono quella finale. La storia del sufismo orientale mostra che il pericolo è reale. Questo è stato il cuore di tutto il movimento di riforma [...]. E la ragione è ovvia. Lo scopo ultimo dell’io non è vedere qualcosa, ma essere qualcosa. È nello sforzo dell’io di essere qualcosa che esso scopre l’opportunità ultima di accentuare la propria oggettività e acquisire un “Io sono” più fondamentale che trova la prova della sua realtà non nel cartesiano “Io penso” ma nel kantiano “Io posso”. Il fine della ricerca dell’io non è l’emancipazione dalle limitazioni dell’individualità; è piuttosto una definizione più precisa di questa. L’atto finale non è intellettuale, ma vitale e approfondisce l’intero essere dell’io, accentuandone la volontà attraverso la certezza creativa che il mondo non è semplicemente qualcosa da vedere o conoscere attraverso concetti, ma qualcosa da fare e rifare con una continua azione. È un momento di suprema felicità e anche il momento della più grande prova per l’io.
[The Reconstruction of Religious Thought, VII conferenza, pp. 195-198]
(traduzioni di Martino Diez)
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[1] Contemporaneo di Muhammad, pretese la profezia e fu identificato da molti con l’Anticristo (al-Masîh al-dajjâl) [N.d.T.].