Il progetto di ricostruzione finalistica di Muhammad Iqbâl

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Ultimo aggiornamento: 02/07/2024 12:50:05

 
Questo articolo è l'introduzione a L’eterno segreto dell’io

 

La ricostruzione del pensiero religioso nell’Islam è il titolo della più celebre opera filosofica di Muhammad Iqbâl (1877-1938), poeta e pensatore dell’India britannica nonché padre ispiratore del moderno Pakistan. Tale ricostruzione può essere intesa in due sensi: genealogico, come esposizione della traiettoria del pensiero islamico, e finalistico, come appello a rinnovarlo profondamente. Non v’è dubbio che Iqbal privilegi questa seconda accezione.

 

Nelle sette conferenze che compongono il libro, pubblicato nel 1930, Iqbal si propone di superare quell’opposizione tra pensiero analitico e consapevolezza religiosa che il teologo medievale al-Ghazali aveva posto alla base del sapere islamico. Il compito, come illustrato nel terzo brano che proponiamo, assume una particolare rilevanza nell’epoca moderna, in cui risulta particolarmente urgente «la richiesta di una forma scientifica della conoscenza religiosa» (Prefazione). Iqbal aveva trascorso tre anni in Europa, dal 1905 al 1908, conseguendo due lauree, a Cambridge e a Londra, e un dottorato a Monaco. Aveva quindi ben presente la difficoltà dell’uomo moderno a comprendere l’universo spirituale. La soluzione è individuata in un allargamento della categoria di esperienza che giunga a includere anche il fatto religioso, considerando il pensiero discorsivo e quello intuitivo come due modalità complementari ma ugualmente legittime di esercitare la ragione.

 

Tuttavia il tratto più sorprendente della Reconstruction è l’entusiastica celebrazione del perenne movimento dell’Io, nella sua dimensione esteriore e interiore. Il principio di valorizzazione del mutevole e dell’empirico sarebbe così caratteristico dell’Islam da ritrovarsi in tutte le sue espressioni culturali più autentiche, dalla visione ciclica della storia in Ibn Khaldûn alla cosmologia dinamica del mistico Rûmî. E analoga tensione al movimento dovrebbe esprimersi anche nella legge islamica, di cui Iqbal cerca di ritrovare la flessibilità (secondo brano).

 

Di tale tensione dinamica Iqbal offre un’audace esemplificazione nella personale reinterpretazione della formula “sigillo dei profeti” che il Corano attribuisce al profeta dell’Islam (primo brano). Il titolo infatti era sempre stato inteso come l’espressione della natura definitiva della profezia di Muhammad, a cui ritornare costantemente. Per Iqbal invece esso esprime la natura conclusiva di tale forma di conoscenza. «Nell’Islam la profezia raggiunge la perfezione nello scoprire la necessità della sua stessa abolizione» e diventa paradossalmente agente di secolarizzazione.

 

La visione di Iqbal in fondo non è lontana dalla lettura che l’idealismo tedesco aveva elaborato della persona di Cristo. E al pari di questo è percorsa da una costante tentazione monistica. Qual è infatti l’approdo ultimo del cammino di rivelazione dell’Io, prima attraverso la profezia, poi attraverso la ragione intuitiva e scientifica? In alcuni passi Iqbal parla apertamente di un «Infinito Immanente» e di una realtà senza misteri, mentre in altri, ispirato dai lavori che l’orientalista francese Louis Massignon aveva consacrato al mistico al-Hallâj, individua l’apice dell’esperienza religiosa nel potenziamento dell’identità umana individuale in un’amorosa prossimità al divino. È il dilemma su cui ogni monoteismo, filosofico o religioso, è chiamato a pronunciarsi.

 

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