Video intervista all’intellettuale turco Mustafa Akyol sulla libertà nell’Islam, il pluralismo, i musulmani d’Occidente e la repressione cinese dei musulmani uiguri
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:58:21
Come hanno dimostrato le rivoluzioni del 2011, il mondo musulmano è attraversato da una forte domanda di libertà. Nell’Islam questo principio necessita di una riflessione teologica adeguata, che permetta di superare l’utilizzo politico della dottrina della predestinazione, sostiene Mustafa Akyol, senior fellow del Cato Institute e autore di Islam Without Extremes: a Muslim Case for Liberty e The Islamic Jesus. How the King of the Jews Became a Prophet of the Muslims.
Oltre al tema della libertà, il dialogo con Akyol è l’occasione per riflettere sulla situazione dei musulmani uiguri in Cina, costretti a sottoporsi a una “rieducazione” forzata, sul confronto tra le comunità islamiche americane ed europee e sul valore del pluralismo. Senza tralasciare i prossimi appuntamenti elettorali in Turchia.
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Intervista a cura di Francesco Teruggi tenuta a margine dell’evento Gesù nell’Islam. La terza via tra estremismo e laicismo.
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Francesco Teruggi – Lei si è occupato della questione della libertà nell’Islam. Quanto è rilevante il tema della libertà per i musulmani?
Mustafa Akyol – Io penso che la libertà sia qualcosa che la maggior parte delle persone comprende quando la perde, quando non è libera, quando dice «forse è una buona cosa, forse dovremmo essere liberi». In altre parole, quando ci si sente perseguitati, oppressi e limitati allora si desidera la libertà. Per esempio, non è un caso che durante le Primavere Arabe molte persone siano scese in Piazza Tahrir in Egitto e in altre capitali arabe chiedendo libertà da regimi autoritari. Da questo punto di vista, vediamo una domanda di libertà in tutto il mondo musulmano. Sotto il dominio coloniale o in presenza di un governo opprimente, la parte della società che si sente oppressa e umiliata dai poteri forti chiede libertà. C’è comunque il rischio che le stesse persone che chiedono libertà, possano non garantirla agli altri quando essi stessi diventano autorità o quando considerano qualcosa la norma e vedono altre persone avere uno stile di vita, un pensiero o una filosofia diversa. Essi possono dire «no, non possiamo concedere loro la libertà. È perverso, pericoloso e inaccettabile». Perciò io non direi che non c’è una domanda di libertà nel mondo musulmano, al contrario. Ma non ci sono abbastanza principi, filosofie e riflessioni su cosa sia la libertà, su come essa vada sostenuta, sul perché sia importante, su come proteggerla e sul perché essa dovrebbe essere difesa come principio, e non solo in base a ciò di cui si ha bisogno. Un esempio è la Francia, la cui laïcité è qualcosa che critico, perché a volte, non sempre è una limitazione all’idea di libertà. Quando la Francia vieta il burkini o il velo in un liceo per esempio, ciò che la comunità musulmana, la comunità conservatrice musulmana, rivendica è il diritto di indossare ciò che si vuole. Ad esempio, dicono «noi vogliamo che le donne musulmane possano mettere l’hijab perché è un segno della loro fede», e via dicendo. Questa è un’idea che supporto totalmente. Ma cosa ne è del diritto di una donna musulmana in Arabia Saudita o Iran di non indossare l’hijab? Perché anche quella è una sua scelta. Alcune persone vogliono libertà in Francia, ma quando osservano altri casi dicono: «No, è un precetto dell’Islam. Devono farlo». Una cosa va chiarita nel mondo musulmano: sicuramente vi sono molti precetti nell’Islam, ma le persone sono o non sono libere di seguire tali prescrizioni? Voglio dire, c’è qualcuno che obbliga i fedeli a seguire questi vincoli? Digiunare durante il Ramadan è un obbligo per tutti i musulmani, non c’è dubbio, a meno che tu non possa, sia troppo anziano o abbia problemi di salute. Ma è una tua responsabilità personale oppure lo Stato e la comunità controllano in qualche modo se digiuni o no? E io sono assolutamente favorevole a definire le pratiche dell’Islam sulla base della libertà e della scelta individuale, perché l’alternativa non crea devozione, ma solo ipocrisia. Occorre dire che ci sono interpretazioni dell’Islam che dicono che bisogna forzare le persone a seguire i precetti per il loro bene. Ma io non credo sia per il loro bene, non credo sia per il bene di nessuno.
FT – Che posto occupa la libertà nella riflessione teologica dell’Islam?
MA – Penso che quando si parla di Islam, come di ogni altra religione, si debba considerare la diversità al suo interno. E chiedersi, cosa dice l’Islam su questo argomento? Ma io aggiungo, quale Islam? L’Islam mutazilita, asharita o salafita? C’è un’ampia gamma di posizioni sulle questioni teologiche. Ma è altrettanto vero che il filone dominante nell’Islam sunnita, l’asharismo, è una teologia che insiste meno sull’idea di libero arbitrio a diversi livelli. Un primo livello è l’idea stessa se gli uomini abbiano il libero arbitrio o se siano predestinati da Dio. Nell’Islam delle origini c’erano rigidi sostenitori della predestinazione e difensori del libero arbitrio, che sono poi sfociati nella corrente mutazilita, e altri chiamati jabariti, o sostenitori della predestinazione. L’asharismo ha trovato un compromesso, ma comunque più vicino alla predestinazione. Dunque essi credono che tutto sia deciso da Dio, anche se c’è un minimo di libertà di azione mentre seguiamo il cammino già tracciato da Dio. Ora, questa è una tematica teologica, che non si traduce direttamente in una questione politica. Tuttavia questo è successo, perché la dottrina della predestinazione è stata usata dai governi autoritari nella storia dell’Islam. La maggior parte dei sultani omayyadi era despoti autoritari e usavano l’idea della predestinazione per giustificare il proprio dominio, per affermare che ciò che li aveva portati al potere era la volontà di Dio e che quindi obbedire a loro significava obbedire a Dio. In questo si vede l’utilizzo politico della teologia. E ovviamente essi promuovevano questa teologia e non quella che sosteneva il libero arbitrio. Credo che nell’Islam vi sia una pluralità teologica, ma che allo stesso tempo si sia progressivamente formata un’ortodossia, che era quella preferita dal potere. Io credo che essere sotto il dominio di un potere forte sia stato una maledizione per l’Islam. Credo che i cristiani siano stati fortunati a non avere avuto inizialmente uno Stato per tre secoli. Normalmente i musulmani pensano: «siamo fortunati ad aver avuto un potere statale dalle origini. Non siamo mai stati oppressi. L’Islam è potente e glorioso, e così abbiamo preservato il Corano». Comunque, l’aspetto negativo è che l’essere in contatto con il potere politico fin dai primi anni ha creato non pochi problemi all’Islam. E oggi io penso che noi, musulmani del XXI secolo, dovremmo guardare indietro e capire che ciò che abbiamo ora nelle mani è una tradizione in parte formata da queste dinamiche terrene: non tutto viene da Dio. Abbiamo alcune dottrine che sono state promosse da poteri politici in base ai loro interessi.
FT – Un pensatore come Eboo Patel, che è molto impegnato nel dialogo interculturale e interreligioso, sostiene che maggiore è la diversità, maggiore è la sfiducia fra vicini. Come uscire da questa trappola e favorire un pluralismo positivo?
MA – [Eboo] Patel dice: «la diversità è una realtà, il pluralismo è lo sforzo per apprezzare questa realtà». In alcune società non c’è pluralismo. Mi riferisco ad alcune persone che vivono in Paesi senza troppa immigrazione. In realtà, i nostri Stati-nazione si sono allontanati dalla diversità. Probabilmente c’era più diversità in epoca pre-moderna, in Turchia, per esempio, il mio Paese, e a Istanbul, la mia città. Un secolo fa la sua popolazione era almeno per un terzo non musulmana. Ora è probabilmente intorno allo 0,1%, perché il nazionalismo turco ha ridotto il numero dei non musulmani, e in particolare dei cristiani. Qualcosa di simile è successo in Grecia o Bulgaria. Il nazionalismo ha infatti toccato tutta la regione. Ma ora stiamo entrando per definizione di nuovo in un’era della diversità, a causa dell’immigrazione, dei confini aperti, del fatto che le persone possono immaginare una vita nuova in un altro Paese. E non era così facile 50 o 100 anni fa. Se non c’è pluralismo per gestire tutto questo, si avranno razzismo, fobie, anti-semitismo, islamofobia, odio per i migranti e così via. Dunque dobbiamo affrontare la questione. Ma il pluralismo che invoco deve anche essere realistico. Mentre le società dovrebbero essere tolleranti e aperte verso i nuovi arrivati, allo stesso modo i nuovi arrivati o intere società dovrebbero essere pronte a trasformare alcuni dei loro atteggiamenti e valori per diventare una parte della società. Io vedo responsabilità da entrambi i lati. Per esempio Francia o Germania non hanno fatto un buon lavoro per molti anni nell’assicurarsi che i nuovi “ospiti” fossero considerati francesi o tedeschi, e quindi parte della società. D’altra parte, alcuni nuovi arrivati erano chiusi a loro volta in ghetti culturali. E io penso che entrambe le parti abbiano commesso degli errori. Ora, io penso che sia necessario costruire società dove le persone possano avere diverse culture, credenze e posizioni, pur avendo ancora qualcosa in comune, una basilare e minima comunanza per quanto riguarda il rispetto della legge, il rispetto della vita umana, la gentilezza di cui tutti hanno bisogno per vivere insieme. Poi, tu preghi in una sinagoga, io prego in una chiesa, tu sei cattolico, lui è protestante, alcuni sono atei e altri sono gay. Ogni tradizione religiosa, e in particolare l’Islam, deve ripensarsi. Perché magari il tuo vicino è gay e tu potresti leggere cosa è scritto sui gay in un testo islamico medioevale e scoprire che non è molto tollerante. O lo stesso sugli ebrei o i cristiani. Nell’Islam, in realtà, c’è una certa accettazione per ebrei e cristiani in quanto Popoli del Libro. Ma questa tolleranza dell’Islam verso ebrei e cristiani è scomparsa, in particolare verso gli ebrei, in epoca moderna. Nell’età classica c’era più accettazione e tolleranza. In epoca moderna, invece, le teorie del complotto sugli ebrei hanno fatto il loro ingresso nel mondo musulmano come mai prima era successo. Anche prendersela con i cristiani locali per le politiche estere dei Paesi occidentali è un grosso problema. A volte le persone si irritano per la politica estera americana e prendono di mira i cristiani copti in Egitto. Ma cosa c’entrano loro con la politica americana? Ma per alcuni musulmani la colpa è di tutti i cristiani. C’è molto lavoro da fare in ogni società. La diversità esiste, e probabilmente crescerà. Quindi abbiamo bisogno di più pluralismo, ma un pluralismo che non crei ghetti, dove le persone vivono fisicamente nella stessa città, ma sono in universi completamenti separati. Ci deve essere una comunanza civica, e solo dopo ci possono essere diverse comunità all’interno di quella cornice.
FT – Che differenze ci sono state e ci sono nel processo di integrazione dei musulmani fra Stati Uniti ed Europa?
MA – Ho recentemente letto un articolo sui giovani musulmani. L’America ha avuto un po’ più di successo nell’integrare i musulmani se paragonata alla Francia o ad alcuni modelli europei. Ci sono parecchie ragioni per questo. La prima, e forse la più importante, è che l’America è un Paese di immigrati, dove non ci sono “americani” in senso stretto. Puoi sembrare cinese, afro-americano, irlandese, ma se accetti la costituzione “diventi uno di noi”. Al contrario, è più difficile diventare francese o tedesco. Voglio dire, c’è la componente etnica, non è solo una questione legale: c’è la cultura e ci sono molto aspettative rispetto a ciò che ti rende un cittadino a pieno titolo. Allo stesso modo è difficile diventare turco. Queste sono nazioni con un’identità etnica radicata, mentre Stati Uniti e Canada, in quanto nazioni di immigrati, sono per loro natura più diversificati e plurali. In più, se paragonati a quelli in Europa, i musulmani emigrati negli USA avevano una migliore educazione, uno status sociale più elevato e andavano là come medici o dottorandi. Al contrario, per esempio, i turchi in Germania erano più dediti a lavori manuali. Essi iniziavano dal fondo della società, e quindi ci vuole più tempo a costruirsi una posizione, ad avere una migliore educazione, a imparare la lingua etc. Io credo che l’ampia idea di libertà, la convinzione che tu possa essere chi vuoi, l’idea di libertà che è parte degli Stati Uniti abbiano aiutato, al contrario di alcune norme in certi paesi europei che cercano di regolamentare il comportamento dei musulmani. Ciò che sta succedendo in America ora è che alcuni musulmani americani stanno entrando nella società, stanno diventando politici o attori a Hollywood. E io penso che questo sia molto importante. Lo stesso sta succedendo in Europa, dove ci sono alcuni politici e personaggi pubblici musulmani. E io penso che più ci saranno pittori, artisti, attori, ballerini musulmani impegnati nei più diversi settori, maggiore sarà il numero di musulmani che capiranno di essere europei, parte della società e occidentali, almeno per quanto riguarda chi vive in Occidente. E allo stesso tempo una buona parte della società dirà «i musulmani sono come noi», nel senso che sono persone moderne che vivono un’epoca moderna. Certi musulmani sicuramente avranno da ridire e obietteranno che «non siamo parte della loro società, siamo l’unica verità, l’unica vera religione. Tutto il resto è falsità, gli occidentali sono secolarizzati e senza Dio. Noi siamo gli unici credenti e devoti musulmani, mentre loro sono capitalisti, edonisti e materialisti». Penso che questo non sia vero. Innanzitutto, c’è ancora un senso religioso, una forte religiosità in molte società occidentali, e in particolare in Italia e negli Stati Uniti. In secondo luogo, il fatto che i musulmani siano tradizionalisti non li rende automaticamente più religiosi. Uno può essere più legato alle tradizioni e a un certo modo di pensare, ma questo non significa che è più profondamente legato alla dimensione divina. Io credo che sia giunto il momento che si sviluppi un Islam occidentale, e questo sta già accadendo. Credo che le persone che sono spaventate da questo siano i gruppi di musulmani più militanti che vogliono mantenersi separati dai kuffar, i miscredenti, o i nativisti culturali di estrema destra europei che pensano che l’Islam penetrerà nella società, che è un cavallo di Troia e che saremo governati dalla sharia nel giro di vent’anni. Credo che questo sia l’altro estremo.
FT – Recentemente lei si è molto interessato alla situazione dei musulmani in Cina. Cosa sta succedendo nello Xinjiang e perché Pechino sta reprimendo gli Uiguri?
MA – La persecuzione cinese degli uiguri è una storia che risale a molti decenni fa, non è nuova, ma negli ultimi tre anni ha vissuto un picco, a causa della posizione rigida assunta dalla Cina sulla questione separatista. La Cina ha per decenni popolato la regione degli uiguri portando più cinesi di etnia Han per cercare di trasformare la composizione etnica della zona. Gli uiguri si sono sentiti marginalizzati: non possono avere un lavoro, perché le persone di etnia cinese lo ottengono. Questo genere di problemi ha creato un certo risentimento e alcuni gruppi radicali si sono diffusi fra gli uiguri. Alcuni sono riusciti anche a portare a termine attacchi contro obiettivi cinesi. Ora, quando c’è una questione terroristica, è un problema, e i Paesi devono affrontarlo, i Paesi occidentali devono affrontare la cosa, e a volte anche loro reagiscono in maniera eccessiva. Ma la Cina ha reagito in maniera davvero totalitaria, cercando di rieducare milioni di uiguri, internandoli in campi e cercando di far loro il lavaggio del cervello. La Cina ha stabilito che un’interpretazione non estremista, tradizionale, normale e standard dell’Islam fosse qualcosa da estirpare. E lo ha fatto creando campi di lavoro, dove le persone sono obbligate ad assistere alle marce e ad ascoltare le dottrine del Partito Comunista e a rendere omaggio alla Presidenza. È il più grande ritorno totalitario al mondo. E questo va discusso, criticato e condannato. Eppure, come ho scritto in un articolo un po’ di tempo fa, la maggior parte dei Paesi musulmani è rimasta in silenzio. La Turchia, il Paese musulmano che avrebbe dovuto alzare la voce per primo per i legami storici che ha con gli uiguri, è rimasta completamente in silenzio fino a qualche settimana fa, quando il Ministero degli Esteri ha rilasciato una dichiarazione in cui esprimeva tutta la sua preoccupazione. E io credo che ciò sia successo perché in Turchia, nella base elettorale del governo, è emersa una certa apprensione per gli uiguri. Ma perché la Turchia non aveva parlato fino ad allora – ed è lo stesso motivo per cui molti altri Paesi musulmani non si erano esposti? Perché la Cina è una superpotenza economica a livello globale e molti Paesi musulmani hanno relazioni commerciali con la Cina. Per di più, la Cina rappresenta un modello attraente di un Paese che è economicamente ricco e in crescita, ma politicamente non libero e non democratico. Quindi, se sei un despota musulmano, la Cina è il tuo modello, vuoi essere come la Cina e averci ottime relazioni. Io penso, onestamente, che l’attuale élite al potere in Turchia abbia provato una certa simpatia per Cina e Russia negli ultimi cinque anni, più che per altre capitali occidentali. Dunque, il silenzio della Turchia è legato a questi elementi. E in un caso ancora più sconvolgente, il Principe ereditario dell’Arabia Saudita, Mohammad Bin Salman, ha addirittura sostenuto la Cina, dicendo che ha il diritto di comportarsi in questo modo contro i terroristi, che il governo ha il diritto di combattere il terrorismo. Sappiamo come Mohammad Bin Salman combatte il terrorismo: i giornalisti vengono uccisi e i loro corpi fatti a pezzi nei consolati stranieri, come è successo a Jamal Khashoggi. Un uomo così ovviamente apprezza il modello totalitario cinese. E questo ci mostra che è sbagliato per i musulmani pensare al mondo con l’idea che “ci siamo noi musulmani che ci aiutiamo a vicenda e poi ci sono i kuffar, i miscredenti”. No, chi difende i diritti umani degli uiguri in Cina? Non Muhammad Bin Salman, non la Turchia fino a poco tempo fa, non i Paesi musulmani, non il Pakistan, ma Human Rights Watch, Amnesty International, i media, persone che difendono i diritti umani a prescindere, persone che difendono i diritti umani siano di musulmani, cristiani, buddisti o atei. Io credo che per i musulmani questa sia un’occasione per capire che la nozione di diritti umani ha valore in sé, è universale ed è importante. Dovremmo abituarci a questo, piuttosto che pensare che il mondo si divida fra musulmani e non musulmani, e i musulmani sono bravi e i non musulmani sono meno bravi. Guardate per esempio chi difende i colleghi quando sono perseguitati e chi li sacrifica per interessi politici.
FT – Cosa prevede per le prossime elezioni amministrative in Turchia? Avranno un impatto sulla tenuta del governo Erdogan?
MA – Le prossime elezioni in Turchia sono elezioni locali, quindi non cambieranno la presidenza o il governo. Ma se il partito di governo, che ora è il partito di Stato, l’AKP, dovesse perdere alcune importanti municipalità, sarebbe un segnale di un declino nei voti. E questo potrebbe rappresentare uno slancio per l’opposizione, un problema per il governo e una preoccupazione per il Presidente Erdogan. Comunque, c’è anche un senso di rassegnazione in Turchia fra alcune figure dell’opposizione perché qualunque cosa succeda d’ora in avanti nelle elezioni, il governo non andrà a casa. Non dico che sicuramente sia così, ma sto dicendo che molte persone la pensano in questo modo. Perché? Perché l’attuale governo in Turchia non è semplicemente un governo. Sotto il Presidente Erdogan, c’è il governo, ovvero l’esecutivo, c’è il sistema giudiziario, il parlamento e anche un’opposizione, il Partito del Movimento Nazionalista, che dovrebbe essere tale ma che in realtà lo supporta. Inoltre, il 90% dei media turchi è sotto controllo, si trova nella stessa sfera d’influenza. Poi ci sono ONG, che dovrebbero essere organizzazioni non governative, ma che sono in qualche modo finanziate dal governo e che quindi si diffondono nella società. Dunque, sta diventando un regime, non un semplice governo eletto. E lo noto con una certa tristezza. È un problema. Io credo ancora che le elezioni in Turchia abbiano valore, che non siano falsate. Le persone votano e i voti oscillano nel tempo. Qualora il Presidente Erdogan perdesse una buona parte di voti, mi domando se rinuncerebbe alla carica o se i suoi consiglieri parlerebbero di un’ingerenza esterna nel processo di voto. Non lo so. Queste domande sono nella mente di tutti. Penso che la Turchia di oggi sia diventata un triste caso dove la democrazia può trasformarsi in un regime autoritario mantenendo le apparenze democratiche. Se vai in Turchia e senti Erdogan e i suoi seguaci, ti diranno che sono una democrazia, una splendida democrazia, dove l’85/90% della popolazione vota e che questa è la forza della democrazia turca. Certamente votiamo, e lo apprezzo, ma cosa succede quando si chiede uno stato di diritto, quando si rivendica la libertà di parola, quando si domanda libertà dopo aver parlato, come dice qualcuno. C’è un detto per cui a volte tu hai libertà di parola, ma la libertà dopo aver parlato è diversa: tu dici, o puoi dire, qualcosa, ma se lo fai ci saranno delle conseguenze. Secondo diverse fonti, circa 60.000 persone sono state indagate per aver insultato, soprattutto sui social network, la presidenza. Non era mai successo in Turchia. Il 90% dei media è in gran parte controllato da gruppi totalmente filo-governativi o da direttori che sono a favore del governo e che hanno soggiogato i media. Quindi, si può a fatica parlare di libertà di stampa. Io riconosco che la Turchia abbia affrontato molte sfide, come il tentato golpe militare che era una minaccia reale, la questione curda e la minaccia terroristica. Ci sono certamente pericoli reali, ma il modo con cui il governo ha affrontato questi problemi ha avuto un forte impatto negativo sulla libertà. Così tu puoi tenere delle elezioni, ma se non c’è libertà nella società non è un buon modello politico. Nel migliore dei casi si può parlare di democrazia illiberale, oppure di autoritarismo elettivo. Quindi la Turchia è in questa situazione. Non so cosa succederà alle elezioni. Io vorrei vedere le opposizioni guadagnare terreno, ma sicuramente il Presidente Erdogan governerà fino alla fine del mandato nel 2023. E dopo potrà ricandidarsi per altri cinque anni e se dovesse rivincere non sarei sorpreso. In conclusione, stiamo assistendo a una stabilità autoritaria in Turchia.