La disputa che vede coinvolte Turchia, Grecia e Cipro ruota attorno alla definizione delle zone economiche esclusive. Visioni geopolitiche contrapposte e ragioni di politica interna accrescono la tensione nell’area
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:35
Nel corso dell’ultimo decennio, il Mediterraneo Orientale è divenuto sempre di più un fulcro di tensioni geopolitiche e interessi energetici. Se questi ultimi sono affiorati in particolar modo dal 2009 con la scoperta del giacimento Tamar al largo delle coste israeliane, le tensioni geopolitiche hanno raggiunto il loro momentaneo apice nell’estate 2020, con l’acuirsi delle frizioni tra Turchia, Grecia e Francia – nonostante la comune appartenenza dei tre Paesi alla NATO.
Secondo numerose analisi, tali tensioni sono dovute alle scoperte di giacimenti di gas degli ultimi dieci anni. Tuttavia, se è vero che il potenziale energetico della regione è elevato[1], è altrettanto importante rilevare che il volume di gas scoperto finora e le condizioni generali del mercato energetico (regionale e globale) non permettono il completo sfruttamento di queste risorse. Al cuore delle tensioni regionali vi sono piuttosto dispute territoriali e l’aumento di aspirazioni geopolitiche contrastanti tra gli attori regionali.
Un primo livello di scontro verte sull’annosa questione cipriota. Dal 1974 l’isola è divisa tra la parte meridionale (Nicosia), riconosciuta dalla comunità internazionale, e la parte settentrionale, riconosciuta solamente dalla Turchia. Tale controversia impedisce tra le altre cose l’accordo tra le parti su quale entità abbia l’autorità di assegnare i blocchi di esplorazione e conseguentemente raccogliere le potenziali rendite petrolifere. Al contrario della comunità internazionale, Ankara ritiene che Nicosia non abbia il diritto di concedere i blocchi per l’esplorazione nelle proprie acque, non avendolo concordato con la parte settentrionale. Lo stallo politico tra le parti sembra essere destinato a perdurare, soprattutto a seguito delle recenti elezioni nel nord dell’isola che hanno visto la vittoria di Ersin Tatar – allineato con Ankara.
Il secondo livello dello scontro coinvolge Turchia, Grecia e Cipro ed è legato alle dispute dei confini marittimi e alla capacità delle isole di definire le zone economiche esclusive (ZEE). La Turchia ritiene che le isole, secondo il diritto internazionale, non godano della capacità di definire una ZEE, un diritto che spetterebbe invece alla sua lunga costa. Ankara sfida simultaneamente Atene nel mar Mediterraneo e nel mare Egeo – dove la maggior parte delle isole presenti sono sotto il controllo greco – e Nicosia nel Mediterraneo orientale. In diversi episodi, la Turchia ha tradotto queste rivendicazioni in atti concreti volti ad alzare la tensione, quali esplorazioni energetiche (non andate a buon fine) ed esercitazioni navali. Attraverso queste manifestazioni di forza, la Turchia ha un duplice obiettivo: legittimare le sue richieste riguardo le ZEE e depotenziare al contempo le rinvendicazioni greche basate sulla presenza delle isole di Creta, Rodi e Kastellorizo. Proprio attorno a quest’ultima si sono concentrate nell’ultimo periodo le tensioni tra Turchia e Grecia. La Turchia teme che la Grecia decida di attribuire all’isola una ZEE. In questo modo la ZEE greca si amplierebbe fino a unirsi con quella rivendicata da Cipro, limitando così sensibilmente le rivendicazioni turche sulle acque tra Creta e Cipro. Questa disputa è legata anche a quella tra Turchia e Cipro relativa alla capacità cipriota di definire la ZEE. Anche in questo caso, la Turchia ritiene che la propria ZEE dovrebbe essere più estesa di quella generata da un’isola come Cipro. Inoltre, nell’Egeo la Turchia e la Grecia hanno visioni opposte sulle acque territoriali, sullo spazio aereo e sulla piattaforma continentale che ogni isola può attribuirsi.
Al centro della crescente proiezione turca nella regione vi è la strategia “Mavi Vatan”, oltre a fattori di natura di politica interna. In quest’ottica si deve leggere anche l’accordo marittimo nel novembre 2019 tra la Turchia e il governo libico di Tripoli, col quale la Turchia ha ampliato sensibilmente la propria piattaforma continentale, creando ulteriori frizioni con Atene.
È vero che la Turchia ha condotto esplorazioni energetiche in acque cipriote ed esercitazioni navali nel Mediterraneo. Tuttavia, le tensioni si sono verificate a centinaia di miglia di distanza dai giacimenti di gas della regione. A ciò si aggiunga che la quasi totalità dei giacimenti scoperti finora è all’interno di ZEE già definite, tranne per il caso di Aphrodite, che si estende tra la ZEE cipriota e quella israeliana.
La dimensione energetica ha dunque acuito la competizione tra gli attori, che mirano a monetizzare le risorse presenti nelle loro acque, ma non è la principale causa delle attuali tensioni regionali. Tuttalpiù si può affermare che l’energia è un ulteriore elemento da cui dipendono la formazione e il consolidamento delle relazioni regionali, al centro delle quali vi è lo scontro tra Egitto e Turchia. In particolar modo, le alleanze tra gli attori regionali si stanno formando a seconda della preferenza per uno dei potenziali canali per l’esportazione di gas: gasdotti (la EastMed pipeline via Cipro e Grecia o un gasdotto da Israele alla Turchia) oppure utilizzo delle infrastrutture GNL (in Egitto, Cipro o Israele).
Attualmente le opzioni che sembrano aver raccolto maggior sostegno politico sono: i) la EastMed pipeline che porterebbe 10 bcm all’anno di gas israeliano all’Europa passando da Cipro e Grecia, e ii) l’utilizzo dei terminali, già esistenti, di GNL egiziani (Idku e Damietta con una capacità combinata di 19 bcm annuali). Entrambe le opzioni incontrano la forte opposizione di Ankara, che non solo non accetta di essere esclusa dal futuro energetico della regione, ma aspira da sempre a diventare un hub energetico tra Europa ed Asia. Va visto in quest’ottica anche il progetto Southern Gas Corridor che porta il gas azero fino all’Europa.
Il problema, però, non è solo l’opposizione turca ma è anche economico. La EastMed pipeline punta ad approvvigionare l’Europa direttamente, rafforzando la strategia di diversificazione energetica europea nei confronti della Russia. Tuttavia, il progetto è molto complesso (circa 2000km di gasdotto) e richiederebbe un investimento elevato (oltre $7 miliardi). Un tale investimento non sembra poter vedere la luce a causa dei prezzi bassi del gas oltre alle previsioni di una riduzione della domanda europea di gas nel medio/lungo termine a seguito delle forti politiche di decarbonizzazione che la Commissione Europea si presta ad implementare. Inoltre questa opzione sembra impraticabile con il permanere della questione cipriota. La soluzione egiziana (GNL) sarebbe quella più ragionevole dal punto di vista economico. Permetterebbe a Cipro, Israele e all’Egitto di sfruttare la prossimità geografica tra i principali giacimenti di gas scoperti[2]. Uno sviluppo coordinato dei giacimenti creerebbe la necessaria economia di scala per stabilire un’infrastruttura di export competitiva. L’utilizzo dei terminali egiziani di GNL risparmierebbe l’investimento in infrastrutturale iniziale (i terminali esistono già) e garantirebbe una maggiore capacità di esportazione (quasi il doppio rispetto a quella di EastMed e TAP). Inoltre i Paesi esportatori potrebbero beneficiare della flessibilità strategica garantita dal GNL, che permette di fornire gas sia in Europa che – attraverso Suez – in Asia (dove la domanda di gas è in crescita). Questa opzione vede il ruolo centrale dell’Egitto, uno dei principali antagonisti regionale della Turchia.
L’importanza del Cairo è testimoniata dall’inizio di esportazioni di gas israeliano in Egitto[3] e dalla creazione dell’East Mediterranean Gas Forum (EMGF). L’EMGF è un framework diplomatico creato a gennaio 2019 tra Egitto, Israele, Cipro, Giordania, Grecia, Italia e Autorità Nazionale Palestinese con l’obiettivo di coordinare la politica energetica. L’assenza turca ne segnala l’orientamento politico. Tuttavia, il coordinamento non è né facile né immediato. Infatti nel gennaio 2020, Israele, Cipro e la Grecia hanno firmato un accordo intergovernativo nel quale esprimevano il loro impegno per la EastMed pipeline, che però esclude inevitabilmente l’Egitto. Ciò mostra che per gli Stati della regione una soluzione al “problema” del gas dell’area non è ancora stata trovata.
Una delle principali cause dello scontro geopolitico in atto è l’assenza del ruolo americano e la mancanza di una forte politica estera europea, che ha permesso ad attori con evidenti mire geopolitiche di sfruttare la situazione alzando il livello della tensione. Tuttavia, è proprio l’energia che potrebbe riportare Washington nel Mediterraneo orientale. Nell’estate 2020 Chevron ha deciso di acquisire per $5 miliardi tutti gli asset di Noble Energy nella regione, facendo segnare l’ingresso di una major americana nel settore energetico israeliano. Una novità assoluta, perché finora le principali compagnie energetiche americane hanno evitato di investire in Israele per salvaguardare i rapporti con i Paesi arabi produttori di petrolio. Il 2020 ha portato al crollo di questo tabù, anticipando un altro importante sviluppo quale l’avvicinamento tra Israele e alcuni importanti Paesi arabi (Accordi di Abramo), di cui il gas israeliano potrebbe giovarsi sensibilmente.
In conclusione, se si considera che i giacimenti scoperti non sono in aree contese e che le attuali condizioni del mercato energetico non rendono il gas dell’EastMed economico per l’esportazione (specialmente via gasdotti), si comprende come il gas nel Mediterraneo Orientale non sia il cuore dello scontro. Piuttosto, le tensioni geopolitiche sono legate alle dispute territoriali e marittime, oltre alla crescente competizione tra i principali attori regionali (Egitto e monarchie del Golfo vs. Turchia) esplosa esplicitamente nel 2011 con le Primavere Arabe ed esasperata dal vuoto politico lasciato dagli Stati Uniti nella regione.
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[1] Nel 2010, due documenti della US Geological Survey (USGS) stimavano la presenza di 9.800 bcm di gas e 3,4 miliardi di barili di petrolio in giacimenti tecnicamente recuperabili ma ancora non scoperti nella regione.
[2] Il giacimento Zohr dista solo 90km da Aphrodite, il quale è a sua volta distante solo 7km da Leviathan.
[3] Israele ha iniziato ad esportare gas all’Egitto nel gennaio 2020, all’interno di un accordo storico di approvvigionamento di 85 miliardi di metri cubi (bcm) dai propri giacimenti offshore (Leviathan e Tamar) per prossimi 15 anni per un valore di $19 miliardi.