Dopo decenni di alti e bassi economici e politici, la Turchia ha saputo riformarsi fino a registrare oggi tassi di crescita tra i più alti al mondo. Un risultato sempre da consolidare
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:56:30
In questo inizio di XXI secolo la Turchia è un’economia emergente che conta. Membro dei G20, è tra i venti principali contributori del Fondo Monetario Internazionale, di cui era debitrice cronica. Nel 2011, con un PIL pro capite di 13.500 dollari (a parità di potere d’acquisto), il reddito medio della Turchia è il secondo più elevato dei grandi Paesi emergenti, dietro la Russia. Infine, la sua popolazione di 74 milioni di abitanti fa della Turchia il terzo Paese più popoloso d’Europa, dopo la Russia e la Germania. Questa potenza demografica è tanto più degna di nota se si considera che il primo dei mali di cui soffriva “il grande malato” d’Europa, come fu definito l’Impero ottomano all’inizio del XX secolo, era la sottopopolazione. Nel 1913 sul territorio dell’attuale Turchia, circa 800.000 km2, vivevano solo 15 milioni di abitanti, mentre territori meno estesi come quello della Francia (550.000 km2), della Germania e del Regno-Unito ospitavano rispettivamente tra i 40 e i 50 milioni di persone. Questa sottopopolazione dipendeva dalle guerre, dalle epidemie e dalle crisi di sussistenza che avevano colpito il Paese nei tre secoli precedenti la caduta dell’Impero nel 1918.
La debolezza del fattore lavoro ha fortemente limitato la crescita dell’economia ottomana, che per di più ha perso il treno della prima rivoluzione industriale. I prodotti tessili fabbricati nell’Europa del XIX secolo sono entrati facilmente in concorrenza con l’offerta artigianale delle regioni del mondo meno sviluppate ma aperte al libero scambio, come l’Impero ottomano, producendo una severa de-industrializzazione, più forte rispetto a quella conosciuta dall’India, dall’Indonesia o dal Messico. L’Impero si specializzò nei prodotti agricoli, la cui esportazione gli consentì di finanziare le importazioni di prodotti industriali europei.
Ne seguì uno sfasamento tra le dinamiche economiche ottomane e quelle mondiali: tra il 1700 e il 1913 la popolazione nel mondo aumentò 1,7 volte di più rispetto alla Turchia, il PIL 2,3 volte di più, il PIL pro capite 1,3 volte. Quando a partire dal 1854 l’Impero contrasse ingenti debiti con l’estero per finanziare la guerra di Crimea (1853-56), la guerra russo-ottomana (1877-78), e varie riforme dell’apparato statale, ciò mise in pericolo la sua sovranità. L’incapacità di rimborsare i debiti lo costrinse ad accettare nel 1881 l’istituzione a Istanbul dell’Amministrazione generale del debito, il cui consiglio direttivo comprendeva, tra i suoi sette membri, cinque rappresentanti degli Stati europei creditori: un tedesco, un anglo-olandese, un austriaco, un francese e un italiano. Stato nello Stato, con migliaia di impiegati, questa istituzione gestiva le entrate imperiali, dalle quali prelevava i rimborsi del debito. Nel 1912, questi ultimi rappresentavano il 31,5% delle entrate fiscali. L’istituzione rimase in vigore fino alla caduta dell’Impero, al suo smembramento e all’occupazione da parte delle forze alleate. Contro queste forze, e contro quelle del sultano, prese corpo in Anatolia una ribellione che si trasformò in Guerra d’indipendenza (1919-1922) sotto il comando di Mustafa Kemal Pasha, Atatürk, padre fondatore della Repubblica. Il contesto di disaggregazione dell’Impero e l’obbligo di addossarsi il debito ottomano (il cui rimborso si concluse solo nel 1954) pesarono sulle strategie di sviluppo perseguite dalla Turchia moderna.
1923-1980: dallo statalismo al mercato
Dopo aver riconquistato il nucleo dell’ex Impero, costituito dall’Anatolia e dalla Tracia orientale, la giovane Repubblica intraprese un lungo cammino di auto-costruzione. Ritenendosi tradita dai vicini arabi, che avevano preferito affidarsi alle potenze cristiane piuttosto che restare sotto il dominio ottomano, la nuova Turchia voltò loro le spalle. Agì allo stesso modo nei confronti dell’Islam, che le sembrava reticente a qualsiasi riforma e sul quale scaricò la responsabilità della decadenza imperiale. Così abolì il califfato per instaurare un regime laico e rinunciò all’alfabeto arabo a favore di quello latino.
Il 1923, anno della fondazione della Repubblica, appare come l’anno di una rivoluzione che puntava a fare della Turchia uno Stato europeo moderno. Nel 1923 la sua popolazione, rurale per il 76%, ammontava a soli 14 milioni di abitanti, il 50% dei quali con meno di 22 anni e l’81% dei quali analfabeti. Il miglioramento delle condizioni di vita e l’istruzione diventarono prioritarie. Il nuovo regime si ispirò con pragmatismo sia ai modelli occidentali che a quelli orientali. Il riconoscimento, per la prima volta in terra turca, della proprietà privata e dei diritti dell’uomo recava l’impronta del primo modello. Lo stesso valeva per la Costituzione, il Codice civile e le leggi sul commercio, l’indebitamento, il fallimento o la contabilità. Ma è con l’aiuto del vicino sovietico che, sotto l’egida del Partito Repubblicano del Popolo (CHP), iniziò la creazione delle infrastrutture necessarie allo sviluppo.
Il capitale umano della nuova nazione era composto essenzialmente da contadini e funzionari. Già sotto l’Impero infatti gli affari politici, militari e agricoli spettavano ai sudditi turchi mentre l’artigianato, i rudimenti dell’industria, il commercio e la finanza dipendevano dalle minoranze non musulmane, diminuite drasticamente nella tormenta d’inizio XX secolo. Per dotare il Paese di infrastrutture e industrializzarlo il nuovo regime dovette dunque, come i suoi omologhi sovietici e cinesi, affidarsi agli impiegati statali che, contrariamente alle masse contadine, erano istruiti. Adottò però la proprietà privata, rendendo il percorso della Turchia simile a quello dell’India. La strategia di sviluppo del nuovo potere era basata su un’industrializzazione che consentisse di evitare l’importazione di alcuni prodotti, in particolare quelli di prima necessità: fili, tessuti, carta, cellulosa, vetro, cemento, semicoke, prodotti per la trasformazione del ferro e dell’acciaio, etc. Per proteggere le industrie nascenti dalla concorrenza straniera e soddisfare la domanda interna con i prodotti nazionali vennero imposte alte barriere doganali sui prodotti di consumo.
Tali sforzi d’industrializzazione richiesero l’importazione di macchinari e attrezzi, ottenuti con le valute estere provenienti in gran parte dalle esportazioni di prodotti agricoli. Nel 1950, quando, con una tendenza regolare che dura ancora oggi, si accentuò fortemente la riallocazione delle braccia dell’agricoltura verso l’industria e i servizi, l’agricoltura impiegava ancora il 84% della popolazione attiva, ma generava solo il 42% del PIL.
I fondatori della Turchia riuscirono anche a impiantare grandi imprese industriali pubbliche, soprattutto minerarie e siderurgiche, a costruire nuove linee ferroviarie e ad aprire un gran numero di scuole senza squilibri per le finanze pubbliche. Nonostante la gestione rigorosa del bilancio e i progressi socio-economici realizzati a partire dal 1923, alle prime elezioni multipartitiche del 1950 il Partito Repubblicano del Popolo viene sconfitto. Rivolgendosi prioritariamente a una popolazione rurale che nel colossale sforzo di industrializzazione si riteneva abbandonata, il Partito Democratico (PD) prevalse nettamente promettendo di privatizzare le imprese pubbliche e promuovere l’agricoltura.
Tale strategia garantì quattro anni di successi. Poi, il deterioramento dei termini dello scambio modificò la situazione. Da liberale, il governo di Adnan Menderes diventò populista, finanziando in perdita il sostegno dei prezzi agricoli, e vinse le due elezioni legislative seguenti. La deriva delle finanze pubbliche si tradusse nell’esaurimento delle riserve valutarie, nell’interruzione delle importazioni, in un’inflazione galoppante e in una generale scarsità di beni, anche sugli scaffali dei negozi. Menderes venne rovesciato nel 1960 da un colpo di Stato militare in un contesto di diffuso malcontento sociale. Si tornò allora all’industrializzazione mirata alla sostituzione delle importazioni e organizzata secondo piani quinquennali.
Questa strategia permise di praticare un’economia di mercato protetta, in cui la crescita economica veniva trainata dalla domanda interna. Accanto alle imprese pubbliche, ancora potenti, assunsero un peso crescente le imprese private, che accrebbero le loro dimensioni, mentre prendevano corpo grandi complessi famigliari. Tra il 1950 e il 1980 la produzione fu quintuplicata e la popolazione raddoppiò. Nonostante la crescita demografica, anche il reddito pro capite raddoppiò, senza tuttavia riuscire a colmare il divario rispetto alle economie ricche. Nel 1980 il settore agricolo impiegava ancora la metà della popolazione attiva per realizzare un quarto della produzione nazionale.
1980-2002: verso la recessione
La ristrutturazione settoriale dell’economia non avvenne senza concessioni a un costoso clientelismo, in particolare nel mondo rurale, e alle conseguenti derive finanziarie che ripresero a partire dal 1970, proprio come all’epoca del Partito democratico. Ne risultarono aspre tensioni politiche, che rischiarono di degenerare in guerra civile e produssero due colpi di Stato militari, nel 1971 e nel 1980.
Nel 1980 gli indicatori economici erano in rosso: il tasso d’inflazione era dell’84%, mentre il fabbisogno delle amministrazioni pubbliche e il deficit commerciale rappresentavano rispettivamente il 7% e il 5% del PIL. Turgut Özal, vice Primo Ministro civile incaricato dell’economia nel governo guidato dai militari, impose alla burocrazia turca una cura di risanamento e una strategia di sviluppo basata sull’espansione delle esportazioni: forte svalutazione della lira turca e passaggio a un regime di cambio fluttuante, riduzione del peso economico dello Stato mediante la privatizzazione massiccia delle imprese pubbliche e la contrazione delle sovvenzioni all’agricoltura, liberalizzazione delle importazioni, sostegno alle esportazioni industriali attraverso sussidi e diminuzione delle imposte, incoraggiamento degli investimenti esteri. Grazie a queste riforme il settore industriale turco rafforzò il suo dinamismo.
Nel 1996 l’ingresso della Turchia nell’unione doganale con l’UE per i prodotti industriali coronava lo sforzo di adeguamento del Paese alle norme di produzione occidentali. Con questa modalità di crescita proiettata verso l’esterno, a partire dal 1980 il reddito pro capite turco prese ad aumentare a un ritmo nettamente superiore alla media mondiale. Ma si tornò ben presto agli errori del passato: politiche fiscali e monetarie più o meno lassiste, spese pubbliche insostenibili, cattiva regolamentazione finanziaria o politiche di cambio incompatibili.
La competitività delle esportazioni turche fu costantemente assicurata dalla svalutazione del tasso di cambio, che a sua volta faceva esplodere l’inflazione. L’instabilità macroeconomica che ne risultò a partire dalla metà degli anni ’80 venne favorita anche da una cronica instabilità politica: negli anni ’90 si succedono nove governi di coalizione, talvolta tra i partiti di sinistra, talaltra tra i partiti di destra moderati e il partito di estrema destra. Nel 2001, anno di grande recessione (caduta del 9.5% del PIL) il tasso d’inflazione superò il 50%, il debito raggiunse il 78% del PIL, il sistema bancario diventò insolvente e la diffidenza verso la classe politica raggiunse il suo culmine.
Fuori dalla crisi globale
È in questo contesto che nel 2002 il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) vince le elezioni, ottenendo il 34% dei voti ma la maggioranza in Parlamento grazie alla legge elettorale. Come il Partito Democratico cinquant’anni prima, l’AKP si rivolge prioritariamente agli “esclusi” dalla strategia di sviluppo, a cominciare dalle popolazioni che, per effetto dell’esodo rurale, si sono insediate in massa nelle bidonville delle periferie delle grandi città. In seguito il partito avrebbe aumentato la sua forza elettorale grazie ai successi economici dei governi del leader Recep Tayyip Erdoğan: 47% dei voti alle elezioni del 2007 e 50% a quelle del 2011.
Islamisti, i dirigenti dell’AKP sono anche pragmatici, pienamente convinti che la prosperità sia la migliore garanzia per conservare il potere. Liberandosi dalle derive delle vecchie élite e non sottraendosi alle riforme necessarie per far uscire il Paese dalla grande crisi del 2001, sono riusciti a conciliare le esigenze della politica di stabilizzazione raccomandata dal FMI con quelle indotte dalla candidatura per l’adesione all’UE.
La prospettiva di adesione, con i progressi istituzionali che essa implica, è servita al Paese da ancoraggio esterno. La stabilità dei prezzi, obiettivo prioritario della politica economica, è assicurata da una politica di bilancio molto severa e da una serie di misure che puntano a risanare le finanze pubbliche, ristrutturare e ricapitalizzare il sistema bancario e garantire l’indipendenza della banca centrale.
Queste riforme dei primi anni del 2000 hanno permesso alla Turchia di superare rapidamente la crisi globale del 2008-2009 e di far registrare in seguito tassi di crescita del PIL tra i più elevati al mondo, dopo la Cina e l’India: +9.2% nel 2010 e +8.5% nel 2011. Con un deficit e un debito pubblico pari rispettivamente all’1% e al 39% del PIL, nel 2011 la Turchia soddisfa i criteri di Maastricht. Le esportazione turche sono ormai composte per il 75% di prodotti industriali, in particolare veicoli da trasporto. Tuttavia la crescita turca ha i suoi effetti indesiderati che si traducono soprattutto in un forte deficit delle partite correnti (11% del PIL nel 2011) causato dalla debolezza del risparmio e da un’insufficiente competitività strutturale.
Un punto di svolta
Il settore informale impiega oggi il 40% della popolazione attiva (il 25% se si esclude l’agricoltura). La manodopera è spesso poco qualificata. Il tasso di partecipazione femminile all’attività economica resta molto fragile (29%). Anche se le imprese anatoliche contribuiscono molto più che in passato all’attività economica, permangono preoccupanti disparità di sviluppo tra l’Est e l’Ovest del Paese: il reddito pro-capite della regione più ricca della Turchia, Marmara, è tre volte superiore al reddito dell’Anatolia sud-orientale, la regione più povera. Nella sola regione di Marmara si concentra il 45% del PIL e il 31% della popolazione. La Turchia moderna si trova a un punto di svolta nella sua storia economica e politica. Se per lungo tempo si è sviluppata ispirandosi al modello occidentale, è sotto i governi “democratici musulmani” che, a partire dai primi anni del 2000, essa ha saputo riformarsi profondamente e porre fine agli errori del passato, e questo più sul piano economico che su quello politico.
Le politiche economiche praticate nell’ultimo decennio hanno reso l’economia turca ben più robusta di quanto non lo fosse nei periodi precedenti. Ma la crisi dell’eurozona e il rallentamento della crescita in Europa da un lato, la grande instabilità che prevale alle frontiere meridionali e orientali dall’altro, mettono a dura prova questa ascesa economica. Infatti, anche se la quota di esportazioni turche che essa assorbe è significativamente diminuita, l’Europa continua a essere il principale mercato della Turchia e la Primavera Araba ha parzialmente messo in discussione la riorganizzazione degli scambi verso i Paesi arabi. Vi è poi un altro motivo di preoccupazione: dopo dieci anni passati al potere, il governo manifesta tendenze autoritarie, come dimostrano i ricorrenti attacchi alla libertà di espressione. Queste tendenze sarebbero indubbiamente contenute se la prospettiva di adesione all’Unione Europea restasse viva. Ma l’Europa non fa avanzare i negoziati di adesione avviati nel 2005. In questo contesto geopolitico la Turchia si vede costretta, di nuovo in una certa solitudine, a ritrovare la propria strada che le permetta di proseguire nel recupero del ritardo economico e affermare il suo status di potenza regionale.
[Questo articolo è stato originariamente pubblicato col titolo Croissance économique turque : aux sources des dix glorieuses in «La Lettre du CEPII» 326 (novembre 2012)]