Dopo anni di confronto armato tra il PKK e lo Stato, i curdi hanno iniziato a privilegiare l’azione politica, con la fondazione di partiti puntualmente dissolti dalla Corte costituzionale. L’ultimo in ordine di tempo potrebbe essere l’HDP, la cui messa al bando rischia di segnare un punto di non ritorno
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:04:34
Una tragedia che si consuma da decenni, fra il più numeroso popolo senza terra del Medioriente e uno Stato, la Turchia, con una identità nazionale espressa fino all’esasperazione, che si è sempre rifiutato di riconoscere le specificità linguistiche e culturali di questa gente. Quella dei curdi, sotto certi aspetti, è una storia non solo tragica, ma anche paradossale. Sono fra gli abitanti più antichi di una terra chiamata Kurdistan, divisa fra Turchia, Iraq, Iran e Siria. Una terra che tutti conoscono e molti sentono nel loro cuore, ma che non esiste. Non esiste sulle carte geografiche, non esiste per la comunità internazionale. Esiste però per il popolo curdo. Anche se, forse, sarebbe più corretto parlare di popoli curdi. Perché queste genti, il cui numero è stimato fra 30 e 40 milioni, sono divise non solo geograficamente, ma a volte anche nel dialetto che parlano e nell’atteggiamento verso i Paesi in cui vivono. In questo articolo, è bene sottolinearlo subito, si parlerà dei curdi in Turchia: 20 milioni di persone che da anni aspettano un riconoscimento della propria identità e che, dopo una guerra durata decenni, adesso stanno sperimentando una persecuzione che rischia di portare a un’esplosione delle violenze e a un punto di non ritorno.
Fra due fuochi
Ripercorrere la storia dei curdi in Turchia, senza cadere nel tranello della faziosità e delle tifoserie contrapposte, è particolarmente complicato. Da decenni questa minoranza subisce da parte dello Stato turco, e di riflesso spesso anche da parte della popolazione, offese, attacchi e umiliazioni di ogni tipo. Non sorprende quindi, o quanto meno, sorprende solo fino a un certo punto, che, fin dalla sua fondazione, nel 1978, il Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, organizzazione militare, riconosciuta come terrorista da Turchia, Usa e Ue, e che ha avuto come obiettivo della sua lotta la creazione di un Kurdistan indipendente, abbia attirato le simpatie di generazioni intere. Il legame fra minoranza e organizzazione armata si è espresso in vari modi: dal sostegno economico, all’adesione ai reclutamenti, alla copertura dei guerriglieri nell’immenso sud-est del Paese. Un successo reso possibile anche dal carisma del suo fondatore, Abdullah Öcalan, che, nonostante si trovi prigioniero nel carcere di Imrali, in mezzo al Mar di Marmara, da oltre 20 anni, continua a essere un punto di riferimento per molti curdi di tutte le generazioni. È bene però sottolineare fin da questo momento che ci sono curdi che hanno sostenuto con convinzione le politiche del Presidente Recep Tayyip Erdoğan e lo favoriscono ancora con il voto, proprio perché non interessati alla causa separatista dell’organizzazione.
Il Pkk rappresenta uno Stato nello Stato, dove, non va dimenticato, alla causa separatista e alla guerra armata si sono sempre accompagnati traffici di droga e di armi. Come tutte le organizzazioni complesse, anche questa non è un monolite. Al suo interno si distinguono correnti, lotte di potere, una propensione più o meno marcata, a seconda dei momenti, a usare la violenza e fare scorrere il sangue. La guerra fra Stato turco e Pkk è costata oltre 40mila morti, per la maggior parte militari, spesso ragazzi che stavano svolgendo il servizio di leva. Significa oltre 40mila famiglie distrutte. Padri, madri, mogli, figli, fratelli che non hanno visto giovani di 20 anni tornare a casa. Per un tragico fato, a volte, sono morti anche ragazzi curdi. L’esercito turco, nelle zone sul confine con l’Iraq e la Siria, dove era più alto il rischio di attentati, mandava giovani di etnia curda per il semplice fatto che parlano da quando sono bambini lo zaza e il kurmanci, i dialetti parlati dalla maggioranza della popolazione. Questo succedeva soprattutto nei momenti in cui la lotta armata diventava più intensa. L’ala più eversiva del Partito dei Lavoratori del Kurdistan ha colpito i civili diverse volte, soprattutto negli anni fra il 2010 e il 2015.
Attentati a parte, la quotidianità della minoranza curda, quella che vive nel sud-est è stata ed è tutt’oggi divisa fra la violenza del Pkk e quella dei Korucular, i cosiddetti ‘guardiani del villaggio’, una milizia speciale, creata apposta per vigilare nelle aree del Kurdistan turco e che, negli anni, si è resa protagonista di crimini aberranti, come torture, rapine, distruzione di case e occupazione di proprietà altrui. La situazione non ha fatto altro che esasperare ancora di più la popolazione, anche quella che non ritiene il Pkk la soluzione al problema della minoranza. Diversa la vita nelle grandi città del Paese, dove, a fronte di una comunità agguerrita e ripiegata su posizioni autonomiste o indipendentiste, ci sono anche tanti curdi che, almeno fino alla virata autoritaria attuale di Erdoğan, non consideravano le loro condizioni di vita discriminatorie ed erano molto critici nei confronti dell’operato del Pkk.
La difficile strada della democrazia
In molti accusano i curdi di aver sempre fatto troppo affidamento sul Pkk e di non aver portato avanti le proprie rivendicazioni per via politica, se non negli ultimi anni. In realtà sono stati fatti alcuni tentativi, più o meno riusciti. Un paio di questi sono arrivati a vedersi riconosciuta una propria autonomia politica anche da parte della comunità internazionale e persino del popolo turco. Prima dell’attuale HDP, Halkların Demokratik Partisi, il Partito Democratico dei Popoli, la minoranza si è organizzata in diverse formazioni, puntualmente messe al bando dalla Corte Costituzionale turca, fine che, come vedremo fra poco, rischia di fare lo stesso HDP. Il primo tentativo di politica curda risale al 1990 con il Halkın Emek Partisi, il Partito dei lavoratori, che fu chiuso due anni dopo. Poi fu la volta dell’Özgürlük ve Demokrasi Partisi, il Partito della Libertà e della Democrazia, durato poco più di un anno, per lasciare il posto al Demokrasi Partisi, il Partito della Democrazia, ma, anche questo dalla brevissima vita, appena 13 mesi. Questi primi tentativi del popolo curdo di connotarsi politicamente falliscono sostanzialmente per due motivi. Il primo è che l’ideologia di tutte queste formazioni si richiamava al marxismo e a un forte nazionalismo curdo, due componenti viste con sospetto sia dalla magistratura sia dalla popolazione turca. La seconda è che molti membri di questi partiti avevano chiari legami con le correnti più belligeranti del Pkk. Fenomeno che, in maniera diversa, come avrò modo di spiegare, avviene anche oggi.
Il 1994 rappresenta un primo, importante momento nella politica curda. Nasce infatti l’Halkın Demokrasi Partisi, il Partito del Popolo democratico, in sigla Hadep. A fondarlo è un avvocato, Murat Bozlak, che cerca di dare una forma più inclusiva alla formazione politica: il partito inizia a occuparsi non solo delle rivendicazioni dei curdi, ma anche dei diritti delle donne e di ambientalismo. L’Hadep dura quasi 10 anni. Viene chiuso, anche questo dalla Corte Costituzionale, nel 2003. Dopo la sua fine la vita politica curda sembra frammentarsi in partiti minori, spesso nati per posizioni diverse all’interno della minoranza o per il desiderio di emergere dei singoli leader. Nel 2005 nasce il Demokratik Toplum Partisi, il Partito della società democratica, Dtp. Ad animarlo c’è Leyla Zana, una leggenda vivente della politica curda, la prima deputata ad avere parlato in curdo al parlamento di Ankara, finita in carcere per 10 anni. La formazione politica ha una linea molto dura e, fin dalla sua formazione, viene accusata di avere legami molto stretti con il Pkk e con l’allora presidente della Regione autonoma curda del Nord Iraq, Massoud Barzani. Il partito viene chiuso come di consueto dalla Corte Costituzionale nel 2009. L’attuale Presidente Erdoğan, a quei tempi, era già primo ministro della Turchia da diversi anni. Il suo stesso partito, l’Akp, aveva rischiato di essere chiuso nel 2007 e, nonostante questo, il parlamento non aveva ancora approvato una legge che rendesse più difficile la messa al bando delle piattaforme politiche. A quei tempi si parlò di una magistratura ancora troppo potente e ‘di traverso’ rispetto all’esecutivo islamico-moderato. Con il senno di poi, e visto che le cose non sono cambiate, si può tranquillamente dire che la possibilità di chiudere partiti scomodi attraverso la Corte Costituzionale continua a rappresentare una potente arma per reprimere il dissenso e gli oppositori pericolosi.
Effetto Demirtaş
Nel 2009, dunque, il Dtp viene chiuso e 37 suoi dirigenti vengono banditi dalla vita politica per cinque anni. Fra questi ci sono i nomi più significativi della politica curda, persone dal passato in qualche modo compromesso e poco pronte a una mediazione con la politica, ma soprattutto con la società turca. Sempre nel 2009, Erdoğan cerca di inaugurare una sorta di roadmap per la normalizzazione. Dal 2009 al 2013 vengono introdotte riforme che fanno ben sperare, soprattutto Bruxelles, in una maggiore democratizzazione del Paese, ma che vengono accolte con scetticismo e ritenute insufficienti dai curdi. Ai quali, però viene concesso un canale in lingua sulla Tv di Stato, per quanto solo con programmi di intrattenimento e non politici, e di poter utilizzare il curdo durante le campagne elettorali. Secondo i detrattori del premier, che sta cercando sponde per farsi eleggere presidente della Repubblica e cambiare la Costituzione in senso presidenziale, sono tutte operazioni di maquillage per nascondere una repressione che, in realtà, non è mai finita. La situazione nel sud-est rimane incandescente, con il Pkk che lancia le sue incursioni a fasi alterne e la polizia curda che arresta militanti e dirigenti, spesso senza prove. Il 15 ottobre 2012 arriva quella che è una vera e propria svolta politica. Nasce l’Hdp, Halkların Demokratik Partisi, il Partito Democratico dei Popoli. Un nome simile a quello della formazione fondata da Bozlak, da cui mutua anche il programma politico, ampliandolo ulteriormente. Non più solo i diritti dei curdi, ma quelli di tutte le minoranze, anche quelle religiose. Una particolare attenzione, denotabile anche dal logo, è dedicata alle politiche ambientali. Il focus si concentra sia sui diritti femminili, sia su quelle persone che si sentono discriminate in base alle loro scelte sessuali. L’Hdp, che per numeri è di gran lunga inferiore agli altri partiti dell’arco costituzionale turco, è però l’unico che possa definirsi davvero con un programma europeo.
Nel 2014, viene eletto come co-segretario (le massime cariche dirigenziali nell’Hdp vengono gestite da un uomo e da una donna) Selahattin Demirtaş. Giovane avvocato, specializzato in diritti umani, Demirtaş è uno che la guerra fra Stato Turco e Pkk ce l’ha in casa. Suo fratello Nurettin, dopo alcuni anni di attività politica e ancora di più di carcere, ha deciso di arruolarsi nel Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Selahattin non è certo insensibile ai problemi della minoranza e alle sue rivendicazioni. Per sua stessa ammissione, ha deciso di fare politica dopo aver partecipato ai funerali di Vedat Aydin, politico curdo assassinato dalla polizia turca e per il cui omicidio non è mai stato condannato nessuno. Ma capisce anche che, per l’Hdp, è venuto il momento di allargare la propria base elettorale e di costruire un ponte con quella parte della società turca che inizia a essere stanca dello strapotere di Erdoğan. Nel 2014, quando quest’ultimo viene eletto per la prima volta Capo dello Stato, Demirtaş si presenta come candidato. Sa benissimo di non avere speranze, ma si tratta di una operazione di immagine importante.
Con la sua campagna elettorale, il giovane avvocato ha l’occasione di farsi conoscere dal popolo turco. Nelle piazze, non certo sui media, che dedicano le loro attenzioni praticamente solo a Erdoğan. Ma Demirtaş è pronto a rischiare e, nella sorpresa generale, organizza un tour di discorsi pubblici molto fitto e per la maggior parte in luoghi dove storicamente le formazioni politiche curde non hanno presa. Sa benissimo che il sud-est voterà per lui, deve andare a farsi conoscere in quelle parti del Paese dove il programma dell’Hdp non è noto. Il leader della minoranza cambia completamente l’impostazione della comunicazione. Non si parla più dei diritti dei curdi, ma di una Turchia più democratica, dove ci sia posto per tutti, curdi in testa, ma anche donne e persone Lgbt. Sono mesi di speranza e di entusiasmo. Demirtaş sembra aver conquistato tutti con la sua energia e il suo dinamismo. In realtà, all’interno del partito curdo le tensioni non mancano, soprattutto quando, fatto storico, viene eletta come co-segretario Figen Yüksekdağ, che è di etnia turca. Anche alcune correnti del Pkk sono convinte solo fino a un certo punto di quel leader che non approva la lotta armata.
La sua strategia però si rivela vincente. Alle elezioni del 7 giugno 2015, l’Hdp conquista il 13,12% delle preferenze. L’Akp del presidente non conquista abbastanza seggi per formare il governo da solo. Per la prima volta il partito curdo inizia a essere votato anche da quella parte di turchi che sono preoccupati per la virata autoritaria di Erdoğan. «La potenza del messaggio di Demirtaş – spiega Garo Paylan, deputato del partito HDP di origine armena – risiedeva nell’idea di pace e prosperità per tutti. Una Turchia dove lavorare fianco al fianco e dove non ci fossero discriminazioni. Per la prima volta dopo tanti anni, gli elettori si sono trovati di fronte un partito che faceva politica in modo sereno, senza alimentare contrapposizioni». La sera del 7 giugno, sull’Istiklak Caddesi, il più famoso viale pedonale di Istanbul, fu festa grande. L’ultimo momento di gioia e speranza, prima della repressione e dell’orrore.
Verso l’inferno
Nell’estate del 2015 si assistette a un deprimente rimbalzo politico dei due principali partiti del Paese, quello islamico-moderato e quello repubblicano per cercare di formare un governo, ma era chiaro a tutti che l’intento principale fosse tornare al voto per cercare di migliorare la propria situazione elettorale. L’ingresso in parlamento dei curdi con 80 deputati aveva sparigliato le carte e dato fastidio a molti. Si decide di tornare alle urne il 1° novembre successivo, quando però accade qualcosa di irreparabile. Il 21 luglio un kamikaze dello Stato Islamico si fa esplodere a Suruç, dove un gruppo di giovani, soprattutto curdi e aleviti, si stava preparando per andare a Kobane, la cittadina curdo-siriana che ha resistito eroicamente all’Isis, e portare generi di prima necessità. Le vittime furono 30. Demirtaş non esitò ad accusare il governo di Ankara e i servizi di volontario omesso controllo. Questo, in un periodo in cui la Turchia era accusata di avere in qualche modo stretto un patto segreto con Daesh in chiave anti-curda e anti-Assad. Il 10 ottobre successivo, proprio a un corteo elettorale dell’Hdp, due kamikaze, sempre dello Stato Islamico, si fanno esplodere. Il bilancio è il più grave nella storia degli attentati del Paese: 103 morti, anche in questo caso quasi tutti giovani. Filmati delle telecamere di sicurezza riprendono la polizia che si allontana dalla zona poco prima delle esplosioni. A Diyarbakir la folla scende in piazza inferocita per quella che viene considerata un’altra strage di Stato. Le forze dell’ordine rispondono con botte, lacrimogeni e idranti, mentre l’esercito torna a pattugliare le strade del sud-est. L’Hdp, che fino a quel momento ha subito oltre 100 attacchi a candidati e sedi regionali, decide di interrompere la campagna elettorale e avviarne una più discreta, porta a porta. Alle elezioni del novembre successivo, i curdi perdono quasi tre punti percentuali e 21 deputati. Il partito di Erdoğan ne ottiene abbastanza per fare il governo da solo. La stagione dei sogni è finita, ma il peggio deve ancora arrivare.
Come prima, peggio di prima
I mesi successivi per i curdi si trasformano in un calvario di cui sono ancora vittime. Fra la notte fra il 15 e il 16 luglio 2016, la Turchia è vittima del quinto colpo di Stato della sua storia. Sugli avvenimenti di quella tragica notte pesano ancora parecchi dubbi, soprattutto sul fatto se Erdoğan fosse o meno al corrente del piano dei golpisti. Quel che è certo è che, a partire dalle prime ore dopo il fallimento del golpe, si scatena un’ondata persecutoria contro tutti quelli che Erdoğan considerava oppositori politici. Non solo i gulenisti, l’altra, importante parte della destra islamica turca, considerati i mandanti del golpe, ma anche i curdi, che pure con il colpo di Stato non avevano nulla a che vedere. Diyarbakir e il sud-est del Paese rimangono sotto coprifuoco e stato di emergenza per oltre un anno. Nel novembre successivo, Selahattin Demirtaş viene arrestato, insieme con Figen Yüksekdağ e altri dirigenti dell’Hdp. In pochi mesi, la dirigenza del partito viene letteralmente decapitata, indebolendo molto la formazione, ma non la presa che ha ancora sulla minoranza. La metà dei deputati del partito si trova sotto processo, di questi nove sono in carcere. Demirtaş ha già avuto due infarti e i suoi avvocati sostengono che in entrambi i casi i sanitari abbiano comunicato le sue condizioni con gravi ritardi. Gli attacchi a dirigenti e semplici militanti si contano a centinaia, come anche i raid della polizia turca nelle sedi del partito. Le operazioni della Turchia nel Nord della Siria, che hanno portato Ankara alla costituzione di una zona di influenza, hanno avuto l’effetto di isolare i curdi turchi dai curdi siriani. Il 21 giugno, la Corte Costituzionale turca ha messo l’Hdp sotto processo, accogliendo il ricorso della Yargitay, la Cassazione turca. Rischia la chiusura per attività volte alla dissoluzione dell’unità nazionale. Lo stesso capo di accusa con il quale sono stati chiusi tutti i partiti curdi dal 1990 a oggi. Secondo i magistrati, l’Hdp avrebbe guidato le proteste ai tempi dell’assedio di Kobane, quando la Turchia era accusata di non lasciare passare i guerriglieri peshmerga, ma di lasciare libertà d’azione ai terroristi di Daesh. «Siamo sotto attacco in modo feroce da anni – spiega Hişyar Özsoy, dirigente dell’HDP. Lo scorso marzo hanno tolto l’immunità parlamentare a Ömer Faruk Gergerlioğlu, poi ci hanno messi sotto processo. Sembra chiaro che l’HDP ha raccolto l’eredità di tutti quei partiti curdi chiusi dalla magistratura e che, nonostante le dichiarazioni, il presidente Erdoğan intende andare avanti con le politiche di repressione delle minoranze etniche e religiose. L’oppressione andrà avanti anche nei prossimi mesi e di sicuro ci sarà una risposta anche da parte del popolo curdo».
Capi di accusa vecchi, in un contesto attorno che però è completamente mutato. La Turchia si è palesemente trasformata in un regime autoritario, dove le minoranze fanno sempre più fatica a vedere riconosciuti i propri diritti e dove il presidente Erdoğan si è fatto promotore di una identità islamo-nazionalista che ha visto tornare in auge formazioni di estrema destra violente ed eversive. La minoranza curda è politicamente più consapevole del percorso fatto. Il Pkk è pronto a tornare a sparare. Il processo può durare due mesi come un anno e sarà sicuramente funzionale ai piani di Erdoğan. I giudici della Corte Costituzionale sono in larga parte di nomina governativa e controllabili. Una sentenza di chiusura potrebbe portare la Turchia al punto di non ritorno.
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